martedì 5 ottobre 2010

Siberia. Terra addormentata

Siberia. Terra addormentata

di Daniele Gatti 


Primo capitolo:
La parola Siberia evoca gelo, foreste di conifere, immense steppe, isbe di legno, isolamento, solitudine, desolazione. Pochissimi la considerano una terra interessante e ancor meno la scelgono come meta di viaggio. Perché mai qualcuno dovrebbe essere interessato a calpestare una terra tanto solitaria, inospitale, misteriosa e per la maggior parte ancora sconosciuta? In fondo, solo da pochi decenni gli stranieri possono visitarla interamente, seppur sia obbligatorio possedere un passaporto e un visto. Prima del crollo dell’Unione Sovietica solo poche città erano aperte ai forestieri, e ottenere un visto non era certamente semplice. La Siberia non ha quindi alle spalle una storia di turismo, e del resto non avrebbe nemmeno elementi per stimolarlo. Per il pubblico, la Russia è Mosca e San Pietroburgo, mentre nessuno si ricorda dell’immenso territorio a est degli Urali. Lo si immagina sempre come un’interminabile distesa di alberi e steppe, oppure di ghiaccio e neve, dove sorgono degli sperduti villaggi con poco o nessun contatto con il resto del mondo. A dispetto di ogni luogo comune, che generalmente non corrisponde alla verità, questo stereotipo è molto realistico. Si può viaggiare lungo la Transiberiana anche per migliaia di chilometri, prima di notare un cambiamento nel paesaggio; alcuni raggruppamenti di edifici cadenti e dacie sembrano così precari da far dubitare dell’effettiva esistenza di persone che ci vivono tutto l’anno. La Siberia non rappresenta un granché di invitante per chi non ama immergersi in sensazioni estreme e fuori dal comune, sensazioni che difficilmente si possono provare viaggiando in un territorio molto civilizzato come la moderna Europa. Si può sempre decidere di avventurarsi sulle cime più impervie delle Alpi o di camminare in solitaria per le foreste lapponi, ma si tratterebbe in ogni caso di andarsi a cercare un angolo di pace in un continente ormai riempito di agglomerati urbani e persone. In Siberia, invece, il discorso si fa differente. L’isolamento è tangibile quasi ovunque. Fuori dalle grandi città non serve percorrere migliaia di chilometri e arrampicarsi su cime rocciose per sentirsi in mezzo al nulla. Basta uscire dal paese per poche centinaia di metri, e già l’orizzonte si fa beffe di chiunque con la sua irraggiungibilità. Le vastissime pianure lo rendono perfettamente visibile con una facilità impressionante, facendo sentire l’osservatore un puntino minuscolo, sperduto e insignificante. Per quei pochi che sono affascinati da queste sensazioni senza esserne spaventati, la Siberia inevitabilmente esercita una forte attrazione. Il germe del viaggio “estremo” è un qualcosa che in ognuno di noi è presente oppure no. Difficile, se non impossibile, trapiantarne la passione a chi ne è privo. Altrettanto difficile è trattenere chi lo possiede dallo scoprire nuove terre, culture, sensazioni e modi di essere. Nella mente del viaggiatore appassionato la scintilla non si spegne mai durante tutto l’anno. Egli è sempre in trepida attesa del momento in cui potrà avere qualche settimana di libertà da impiegare per ampliare la propria conoscenza del mondo. La partenza è il momento più eccitante, che cede il passo dopo pochi giorni ad un inevitabile e lieve pentimento, che spinge a chiedersi “Chi me l’ha fatto fare?”. I disagi del viaggio, inizialmente, non mancano di sconfortare. A casa si stava così bene, abituati a tutte le comodità. Tuttavia, questa sensazione dura poco. Con il susseguirsi dei giorni ci si ambienta e ci si rende conto della grandiosità di ciò che si sta vivendo. Ecco che allora lo sconforto si trasforma in puro entusiasmo, in energia debordante. Ogni giorno che passa diventa sempre più intenso. Quando infine il viaggio inizia a esaurirsi, il richiamo di casa rifà capolino. Il ritorno, specialmente dopo un viaggio impegnativo, è un momento felice: niente è meglio che tornare al proprio focolare domestico dopo un lungo periodo di assenza, portando a casa i frutti della propria piacevole fatica. Tutto acquista un nuovo sapore non appena si ritorna alle proprie radici, e si gode al massimo anche di ciò che prima di partire era ormai diventato banale e scontato. Bastano tuttavia poche settimane perché questa condizione inevitabilmente sfumi e il desiderio di ripartire faccia nuovamente capolino. La vita comincia già a farsi troppo ordinaria, ci vuole un nuovo scossone per vivacizzarla. E così il ciclo ricomincia, finché c’è vita, salute e, ahimè, disponibilità di tempo e denaro. Conosciuto l’uomo giusto al momento giusto, appassionato di Siberia e dotato di una buona esperienza di viaggio in queste terre, un’occasione d’oro mi si è presentata e non ho potuto fare a meno di coglierla al volo. Dando ragione solo al proprio raziocinio è difficile accettare un viaggio simile. Chi mai vorrebbe sottoporsi a mille difficoltà per attraversare una terra così inospitale e impervia, che apparentemente non ha nulla da offrire? Fortunatamente, non siamo fatti solo di ragione e spesso è l’istinto a suggerirci la scelta migliore. Non capita molto spesso di avere due mesi totalmente liberi da impegni, in un’epoca nella quale il lavoro occupa sempre più le giornate. Poco importava che i mesi del viaggio sarebbero stati tra i più freddi dell’anno: le occasioni vanno colte nel momento in cui si presentano, poiché fin troppo spesso sono uniche e irripetibili. Avremmo dunque affrontato la Siberia invernale, quella abitualmente considerata estrema e inaccessibile, alla portata di pochi. In realtà è alla portata di chiunque abbia un minimo di preparazione e soprattutto di buona volontà. Le temperature invernali sono di certo rigidissime, nell’ordine di decine di gradi sotto lo zero, ma è vero anche che si tratta di zone abitate da persone come noi, e se sopravvivono loro può sopravvivere chiunque.
L’itinerario pianificato appariva a dir poco bizzarro, specialmente perché decidemmo di percorrerlo interamente in treno, senza mai usare l’aereo. Dal cancello di casa fino al termine ultimo del viaggio, e poi da lì di nuovo al cancello di casa, tutto senza mai staccarci dalla madre terra. Una maniera insolita di viaggiare attraverso una nazione abituata a misurare le distanze interne con le ore di aereo e per la quale il treno è un mezzo scomodo usato solo da chi non può permettersi un volo. I russi non amano particolarmente il treno. Perché viaggiare scomodi e lenti quando si hanno a disposizione gli aerei, che permettono di coprire rapidamente delle distanze enormi? I motivi di questa nostra scelta erano molteplici. Il primo e il più importante è l’emozione suscitata da un lungo viaggio effettuato alla “vecchia maniera”, che avrebbe ricordato i tempi nei quali il globo terrestre pareva così vasto solo perché si percorreva nel quintuplo del tempo necessario oggi. Certamente è molto facile salire su un aereo a Milano e ritrovarsi poche ore dopo in qualunque parte del mondo, asetticamente, senza alcuna fatica. È invece molto più difficile, ma anche enormemente più ricompensante, macinare migliaia di chilometri in treno, spostandosi sempre lentamente e assaporando ogni attimo, facendolo proprio e legandolo indissolubilmente ai propri ricordi. Il giro del mondo ormai si può fare in meno di ventiquattro ore, se si hanno a disposizione i mezzi adatti. Ma chi, oggigiorno, si mette in testa di percorrere decine di migliaia di chilometri in treno, per il semplice gusto di raggiungere i confini del mondo per via terrestre? Ciò è uno dei fattori più importanti che hanno reso questo viaggio assolutamente peculiare. E non solo per il fattore romantico, ma anche per quello umano. Viaggiare in treno per così tanti chilometri obbliga infatti a entrare in contatto con gli altri viaggiatori, a conviverci per giorni interi sopportandone i difetti e osservandone i pregi, fino ad assorbire i tratti della loro cultura. Solo entrando in contatto con le persone del luogo si può dire di aver viaggiato veramente. In caso contrario si ricade nella categoria dei semplici turisti. Se non si conosce la lingua del posto ciò può essere difficile, ma non mancano mai i momenti in cui uno sguardo e un gesto sono più eloquenti di molte parole. L’importante è l’intenzione, partire con la volontà di scoprire cosa si cela dietro quegli occhi a mandorla e quei visi enigmatici che si andranno a incontrare lungo il cammino. Le difficoltà si superano sempre se c’è la volontà di superarle.
Come meta finale avremmo raggiunto l’isola di Sakhalin. Questa misconosciuta lingua di terra a forma di pesce, situata immediatamente a nord dell’isola giapponese di Hokkaido, sarebbe stata la meta ultima in quanto uno dei luoghi russi più lontani raggiungibili per via terrestre dall’Italia. Nemmeno il mio compare, che pur aveva viaggiato più volte lungo la Siberia, era mai stato a Sakhalin. Un’incognita assoluta per entrambi. Per raggiungere il punto ultimo avremmo quindi dovuto attraversare tutta l’Europa centro – orientale, la Russia europea e infine tutta la Siberia e l’estremo oriente russo, raggiungendo infine l’oceano Pacifico. Un piano ambizioso, ma contrariamente a ciò che si può pensare non impossibile da organizzare in modo autonomo. A patto di conoscere la lingua russa, si intende. Non è pensabile organizzare un viaggio simile se non se ne ha una conoscenza almeno basilare. O meglio, è possibile, ma espone a difficoltà veramente troppo grandi, che renderebbero il viaggio più frustrante che emozionante.
La celeberrima Transiberiana e la misconosciuta ferrovia Bajkal – Amur sarebbero diventate i nostri punti di riferimento per diversi giorni. Tutti abbiamo sentito parlare della ferrovia più lunga del mondo, da sempre circondata da un alone quasi fiabesco, ma non è l’unica grande ferrovia russa: anche la parallela Bajkal – Amur, a tratti ben più scenografica, meritava di essere scoperta. Nessuno di noi è ingegnere, ma non si può rimanere indifferenti di fronte ad un progetto così mastodontico come quello che ha dato vita alla ferrovia BAM. La bellezza delle strade ferrate non è tuttavia l’ultimo motivo per il quale abbiamo scelto il treno. Il viaggio su rotaia ha infatti un altro importante risvolto, quello ecologico. In un mondo dove volano migliaia di aerei ogni giorno, per non parlare delle automobili, è significativo organizzare un viaggio nel quale sia il rispetto per l’ambiente a fare da padrone. Il treno è forse il mezzo meno inquinante che ci sia. Quale modo migliore di salvaguardare il pianeta se non percorrere quanti più chilometri possibile con un mezzo non inquinante?
Con questo programma, unito ad una buona dose di volontà e spirito di avventura, la mattina dell’11 novembre 2009 ci siamo improvvisamente ritrovati sulla banchina della stazione di Tradate, scelta perché complessivamente più vicina alle dimore di entrambi. La data della partenza è arrivata senza che nemmeno ce ne accorgessimo, e come al solito abbiamo preparato i bagagli all’ultimo minuto, giusto la sera precedente la partenza. Il corredo che ora ci trasciniamo dietro è tragicomico. Portiamo entrambi un grosso zaino sulle spalle, più altri due zainetti e un enorme borsone comprato ad un mercatino cinese, grosso come un baule. Si tratta ovviamente del bagaglio più pesante, che è sufficiente portare anche solo per poche decine di metri per vedere la carne molle delle mani solcarsi e arrossarsi. Pur spingendo, schiacciando e togliendo del materiale non siamo riusciti a ridurne ulteriormente le dimensioni e il peso. Ogni oggetto ha la sua utilità, e del resto non partiamo certo per un viaggetto di una settimana. Lungo il percorso andremo a incontrare alcuni amici, ma per la maggior parte del tempo saremo soli, quindi siamo costretti a portarci dietro tutto ciò che può essere anche solo vagamente utile. Viaggiare in autonomia impone dei sacrifici, ma in compenso siamo pronti per fronteggiare qualsiasi situazione.
Se siete arrivati fino a qui e avete ancora voglia di scoprire questo viaggio, non vi resta che munirvi di vestiti caldi e voltare pagina!

Maggiori dettagli http://www.lulu.com/product/a-copertina-morbida/siberia-terra-addormentata/12927907

Io, Europa

Io, Europa

di Daniele Gatti 



Primo capitolo:
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Il Grande Nord è terra di leggende. Chi non ha mai sentito parlare delle epiche battaglie combattute dai Vichinghi, abili navigatori e mercanti, oltre che spietate macchine da guerra? Chi non è rimasto affascinato ascoltando le storie dei mostruosi Kraken marini, mastodontici esseri capaci di sbriciolare ed affondare in un attimo qualsiasi nave con la forza dei loro devastanti tentacoli? Chi non ha visto una minacciosa profezia nel Fimbulwinter, il lunghissimo inverno che presagisce al Ragnarök, l'ultima battaglia degli Dei che porrà la parola fine al mondo terreno? Oltre il circolo polare, per alcuni mesi l’anno il sole non tramonta mai, risalendo beffardo prima di toccare l’orizzonte ed illuminando costantemente rocce che si tuffano vertiginosamente in mare, scavate dall’acqua nel corso dei millenni. Ma nei mesi più freddi il volubile astro cambia idea e decide di non mostrarsi mai, preferendo rimanere nascosto sotto l’orizzonte, inviando solo qualche flebile raggio di luce come messaggero. E chissà quante altre sorprese è pronto a riservarci il Grande Nord, ora che muniti di biglietto Interrail stiamo per intraprendere un viaggio che lo esplorerà da cima a fondo. A lungo abbiamo atteso la possibilità di vedere queste terre, ed ora che ne abbiamo la reale possibilità stentiamo a credere che un desiderio possa a volte diventare realtà così facilmente.
Fuori dalle ampie finestre possiamo scorgere le centinaia, forse migliaia d'automobili parcheggiate poco fa dai viaggiatori, i quali stanno ora trascinando i loro bagagli su pratici carrellini a rotelle, mettendoli poi ad uno ad uno su un nastro trasportatore che li inghiotte inesorabilmente dietro delle bande di plastica flessibile. Mi sento legato a loro da un invisibile ma potente filo conduttore. Insieme a loro, stiamo lasciando la sicurezza della vita ordinaria al fine di metterci in qualche modo in gioco, scegliendo ognuno la propria sfida personale da vincere. Mi diverto ad osservare le persone che mi passano davanti indaffarate come formiche, cercando di immaginarmi cosa celino in quel bagaglio così ingombrante che non passa dal check – in ordinario e deve essere incanalato nel trasporto apposito, oppure in quella borsa così piccola che sembra poter contenere al massimo i vestiti per due giorni.
Nonostante le diverse ore d'attesa che abbiamo ancora davanti, non ho voglia di mettermi a passeggiare per i saloni dell'aeroporto. Preferisco rimanere stravaccato sulla poltroncina, aspettando che il luogo mi fornisca qualche stimolo per alzarmi. Per scaramanzia, non voglio immaginarmi nulla della nostra prima destinazione. Le domande che mi frullano in testa su ciò che troverò una volta arrivato vengono temporaneamente accantonate, lasciando spazio ad una marcata ansia che mi prende ogni volta che devo salire su un mezzo volante. Una tensione generale che decido di curare da solo, basandomi unicamente sulle mie forze e senza affidarmi a pericolosi sedativi, che non si sa mai quali strani effetti possano sortire. La sensazione è altalenante: per qualche minuto credo di essermi tranquillizzato definitivamente, per poi sentire all'improvviso una lieve fitta all'epigastrio che mi ricorda inesorabilmente d'essere ancora a terra. Tuttavia, senza che abbia il tempo di accorgermene, già dopo qualche ora siamo in volo a svariati chilometri d'altitudine. La metropoli milanese si è fatta sempre più piccola fino a diventare quasi indistinguibile dal paesaggio, ed ora la visuale esterna comincia ad annebbiarsi a intermittenza mentre l’aereo attraversa numerosi banchi di minutissime goccioline sospese. Nel momento del passaggio oltre le nuvole, saettano velocissimi alcuni lampi di condensa lattiginosa, scomparendo dopo pochi centesimi di secondo, finché emergiamo dallo strato di nubi ed arriviamo nell’aria pura, dove la visuale si riapre. Ora il pavimento sottostante è costituito esclusivamente da nuvole. Ormai dubbi e pentimenti non hanno più senso, vengono inghiottiti dal veloce sfrecciare dell'aereo, che ci porta sempre più lontano da casa, alla velocità d’ottocento chilometri orari. Dopo aver sorvolato le maestose Alpi, gli innumerevoli campi coltivati francesi e lo splendido stretto della Manica, inizia la discesa verso Londra per effettuare il primo scalo.


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