lunedì 31 dicembre 2007

Il Giardino dei Tarocchi

Estratto dall'opera Il Giardino dei Tarocchi
di Luigi Agostini




I Tarocchi sono delle carte da gioco che hanno avuto il loro momento di maggior diffusione, in Europa, tra la fine del Medioevo e il Rinascimento, nelle corti signorili dell’Italia set-tentrionale.”
La luce al neon colorava la cucina con dei riflessi freddi, moderni che contrastavano con il suono antico delle sue parole. La sua voce era cambiata, sembrava giungere da lontano, carica di echi perduti nel tempo come naufraghi, che attraverso di lei, trovavano finalmente una via di fuga verso casa, verso il futuro. Mia madre sorrise beffarda.
“Tutti pensano di conoscere la loro origine soltanto perchè qualcuno, probabilmente a Milano, agl’inizi del Quattrocento, creò il primo mazzo di carte così come lo vedi e si preoccupò di rivendicarne la paternità, forse per cupidigia o per superbia. I primi mazzi di cui l’umanità ha notizie certe, e che sono so-pravvissuti fino ai nostri giorni in varie collezioni sparse per il mondo, sono i Mazzi Visconti-Sforza. I tre mazzi più famosi, dei quindici attualmente conosciuti, sono il Pierpont-Morgan Ber-gamo Visconti-Sforza, il mazzo Cary-Yale Visconti-Sforza ed il Brera-Brambilla Visconti-Sforza. I loro nomi derivano da quelli delle biblioteche, musei e collezioni private che hanno offerto loro riparo dalle vicissitudini del tempo che passa. Sono molto belli e preziosi, tutti i trionfi e le figure hanno uno sfondo in oro, mentre le carte non figurate hanno sfondo color crema od argento con un motivo floreale colorato. Il mazzo Cary-Yale Visconti-Sforza, che prende il nome dalla collezione di carte da gioco storiche della famiglia Cary, da molti studiosi è ritenuto il più antico dei mazzi,

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loro pensano che sia stato realizzato intorno al 1466.”
Con un gesto elegante della mano stese le carte formando un semicerchio. Una le cadde in terra; era la Torre. La raccolse con indifferenza e la rimise insieme alle altre.
“Al contrario, l’origine dei Tarocchi si perde nella notte dei tempi, come dicono gli umani. Sono state tentate più volte, nel corso dei secoli, numerose rappresentazioni grafiche, su tavolette di legno, papiri o tele, dall’Egitto dei Faraoni fino al Rinasci-mento. A volte sono riusciti ad ottenere delle interpretazioni molto somiglianti... specialmente gli etruschi. Altre volte hanno lavorato troppo di fantasia. Il mazzo di Tarocchi, di ogni tipo, si costituisce comunque di settantotto carte. Ventidue raffigurano i “Trionfi”, ribattezzati dagli esoteristi Arcani Maggiori, le restanti 56 figure, denominate impropriamente Arcani Minori, consistono nelle tradizionali carte da gioco a semi italiani, coppe, denari, bastoni e spade, e precedono di almeno quarant’anni le carte dei Trionfi, od Arcani, dell’Italia settenrionale. La differenza tra le due caste è stata interpretata dagli esoteristi in questo modo: gli Arcani Maggiori, sono simboli universali, riconducibili ad esperienze e stili di vita particolari, ruoli sociali, virtù e concetti filosofici e religiosi, mentre i Minori esprimono le manifestazioni, le concretizzazioni delle grandi energie che alimentano l’esisten-za, attraverso i paradigmi di situazioni più realistiche, quotidiane. In realtà gli studiosi hanno sempre e soltanto grattato la superficie, spesso per paura o convenienza. Altri, troppo zelanti e curiosi, sono stati messi a tacere, alcuni per sempre... per molti Arcani la verità e la conoscenza rappresentano una vera e propria minaccia per la loro... bè, chiamiamola vita, anche se non nell’accezione comune del termine.”
Mia madre era molto bella, allora come adesso, elegante nei modi anche se un pò austera. Due occhi di un celeste acqua sembravano naturalmente scavare nei recessi dell’anima di chi osava fissarli anche solo un momento. Il collo, lungo come nei migliori ritratti del Modigliani, ricordava un fiume impetuoso capace di trascinare lo sguardo di ogni uomo verso il suo seno rigoglioso. Forse il fatto che stava diventando progressivamente

sempre più miope accentuava la solennità dei suoi movimenti. Non avrei mai pensato che potesse manifestare segni di senilità così precocemente... eppure il suo discorso era apparentemente privo di senso. Lei si aggiustò gli occhiali, dalle lenti sempre più spesse, con un gesto a me familiare e proseguì.
“Le carte sono nate perchè gli umani hanno cercato di ren-dere accettabile, per le loro semplici menti, un segreto terribile; anticamente sussurrato dalle madri ai bambini che si avviavano sulla cattiva strada, abilmente demistificato dai religiosi di tutti i tempi, tramandato nei secoli come leggenda: gli Arcani Maggiori esistono da sempre, Asia.”
Fece una pausa, come per lasciarmi il tempo di metabo-lizzare l’affermazione.
“Vivono le loro inesplicabili esistenze tra le persone, ma sono allo stesso tempo la personificazione di concetti di portata universale e decidono le sorti del genere umano da sempre.”
I miei occhi incrociarono lo sguardo preoccupato di mia madre, che sembrava implorare la mia comprensione. Forse temeva che la considerassi pazza od esaltata. In realtà, anco-ra, non sapevo bene che pensare e stavo aspettando per vedere come andava a finire la faccenda. Avevo visto e vissuto troppi strani eventi durante gli undici anni della mia vita per stupirmi di qualcosa proprio adesso.
“Neanche gli Arcani stessi sanno bene chi e cosa sono. Di sicuro possono reincarnarsi ricordando tutti gli avvenimenti delle loro vite precedenti e sono dotati di particolari facoltà. Alcune veramente distruttive, altre semplicemente pericolose, come la possessione mentale di alcune tipologie di esseri umani. Alcu-ni Arcani sfruttano quest’abilità per organizzare le persone in qualcosa di simile ad una setta. Chiamale congregazioni, logge od associazioni, comunque sia in realtà sono coperture per quel-li che gli Arcani chiamano i Semi di Spade, Coppe, Denari e Bastoni.”
Quattro Semi, pensai. Quattro come i punti cardinali, le stagioni, i cavalieri dell’apocalisse, i bracci della Croce dei Templari, Aria, Fuoco, Terra, Acqua ed i Quattro Mori simbolo

della mia città. Ma perché pensai una cosa simile? Mia madre abbassò lo sguardo.
“Alcuni di loro sono molto religiosi, ed arrivano prima o poi a considerarsi come angeli di Dio, forse bestemmiando, non so... Il Signore per loro è il Mazziere del Grande Gioco, dispone le carte per i suoi scopi imperscrutabili, lo sai no? Le vie del Signore...”
Subito dopo ritrovò il sorriso.
“Ma probabilmente loro stessi hanno bisogno di una moti-vazione più o meno logica per giustificare l’esistenza del Grande Gioco. Per non impazzire come... come...”
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“Ti stavo aspettando, Tages...”
“Aveva una pagliuzza nell’occhio, ho letto male le stelle... il mio cavallo si è azzoppato?”
“Non cominciare come al solito...”
“Devi fare una cosa per me. Prendi questo libro e portalo alla Vestale dei Rasena a Populonia.”
“Nient’altro? Posso levarti i calzari e lavarti i piedi se vuoi... Ti lucido la fibula con la lingua?”
“Non ti distruggo perché mi fai sempre sorridere... ma non abusare della mia pazienza. Adesso vai...”
“Quando hai bisogno sai dove trovarmi Mazziere...”
Tages aprì il libro appena fuori dal Tempio del Mazziere, guardò una pagina a caso e vide il ritratto di un ragazzo che gli somigliava molto, sotto uno strano simbolo ovale, con un titolo in basso; Il Matto. Non gli piacque molto l’idea di mettere un offesa sotto il suo ritratto in un libro scritto in etrusco... Vide a lato della strada, in un campo, un contadino intento ad arare. Cambiò magicamente il suo aspetto in quello di uno spirito della terra, una specie di folletto con il capo piumato, e regalò il libro al contadino.

Si alzò, andò verso l’acquaio ed abbrancò un bicchiere dallo scolapiatti. Da una bottiglia aperta lì vicino si versò un gotto di Chianti, cosa strana per lei che era quasi astemia. Tornò a sedersi di fronte a me. Trangugiò il vino come una medicina, in un sol sorso.
“Ma sto divagando, scusa, voglio invece procedere con ordine. Devo passarti un gran numero d’informazioni perché tu possa compredere, bambina mia. Cominciamo con il Papa e la Papessa.”
Girò le prime due carte del mazzo disposto a semicerchio, apparentemente a caso, ed erano proprio quelle di cui parla-va.
“Il Papa nei tarocchi tiene tra le mani la triplice croce, la croce di Malta, la croce dei 3 mondi. Sta seduto tra i due pilastri della vita e della morte, come la Papessa. E’ il simbolo della fede religiosa e del potere religioso. Davanti a lui ha due discepoli, uno con lo sguardo chino ed uno che guarda il Papa stesso. Rap-presentano la fede che obbedisce e colui che vuol comprendere ed imparare. Spesso, in alcune delle sue incarnazioni, il Papa è riuscito a diventare veramente il Papa cristiano della sua epoca, con risultati devastanti. Crociate, guerre civili ed ingerenze nefaste nella politica italiana e non...”. Improvvisamente lo
sguardo di mia madre si fece dolce, quasi quello di una bambina affettuosa.
“La Papessa è tutta un’altra storia... La Papessa Giovanna è colei che sa, ma svela solo in parte il suo sapere. Nella carta siede su un trono tra due colonne, la vita e la morte, il bene e il male, identificate anche come le colonne Jakim e Boas del Tempio di Salomone. Tiene tra le mani una pergamena arrotolata, o un libro aperto, ma lei non legge, guarda dritto con sguardo fiero, non ha bisogno di leggere perché ha già la conoscenza, e questo le dà modo di tenere alta la testa, con lo sguardo fermo verso il futuro. La sua femminilità è prorompente, libera e nello stesso tempo schiava di se stessa e delle sue pulsioni.”
“Giusy... Giusy!”

Cominciai a scuoterla per un braccio, per farla riprendere, mentre parlava aveva cominciato a fissare un punto indefinito di fronte a sè, nel vuoto, come incantata, ma allo stesso tempo infervorata, dal significato delle sue stesse parole. Mia madre si chiamava Giusy. Per l’amor del Cielo, è viva e sta benissimo anche adesso, uso il passato perché oramai non riesco più a chiamarla con quel diminuitivo, capirete in seguito che ho i miei buoni motivi per farlo. Si riprese quasi subito, ed abbassò nuo-vamente lo sguardo quasi vergognandosi dell’accaduto. Con un gesto elegante della mano si tirò indietro i lunghi capelli biondi ed alzò il mento per darsi nuovamente un tono. Girò una terza carta. Era l’Innamorato.
“L’uomo innamorato è fermo ad un bivio, deve fare una scelta di carattere sentimentale, rappresenta l’incertezza. Il desi-derio d’amore. Ma, allo stesso tempo, nasconde dentro di sè un terribile potere, che lui stesso non riesce a controllare. Allora lo reprime, evitando spesso ogni contatto di tipo sentimentale con gli altri.”
Girò la quarta carta. Era la Morte. Istintivamente distolsi lo sguardo, ma mia madre mi sorrise comprensiva.
”L’Arcano senza nome, la personificazione della Morte, rappresenta un concetto al di là del bene e del male ed in origine coincideva con la personificazione della Vita. In fin dei conti una rinnovamento, è la cosa definisce l’altra. Porta sempre con sé il morte intesa come trasformazione, come momento necessario di cambiamento. Definisce il passato e guarda al futuro, alla vita, l’erba del prato nella carta, infatti, è normalmente rappresentata con un colore verde acceso per suggerire la vitalità insita in questo arcano incompreso. Devo raccontarti una storia terribile, Asia. Non posso farne a meno, non capiresti altrimenti. Ma pri-ma devo girare ancora una carta, e questa sì che ha una valenza negativa”.
Era il Diavolo, e lei lo sapeva prima di girarla.
“Gli esoteristi dicono che rappresenta la lussuria, la debolezza umana verso gli eccessi, la seduzione, gli istinti più selvaggi o semplicemente una grande carica erotica. In realtà è

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la personificazione del male assoluto, la negazione del ciclo vita-morte. Il nulla, l’oblio, il vuoto assoluto. Devi sempre ascoltare la tua anima, il tuo subconscio, e diffidare di tutto ciò che puoi ottenere senza sacrificio, lavoro o sofferenza, perchè proviene dai suoi inganni, dalla sua Grande Mistificazione. Le sue trame sono ambigue, stratificate, intersecate con le vie del Signore. Ogni scelta è un bivio, che può avvicinarti od allontanarti dal Diavolo. Se le mie parole ti suonano bigotte, noiose, per così dire ‘fuori moda’, è perché lui sa fare il suo lavoro meglio di qualunque altro Arcano.”
Fece una breve pausa, come per prendere fiato o coraggio, poi proseguì.
“Possiamo cominciare adesso. Tutto iniziò nel Pronto Soc-corso dell’Ospedale di Livorno. Era un pomeriggio come tanti nell’anno 2007, ed una donna era stata portata lì in ambulanza per la rottura delle acque. Un parto come tanti, in apparenza. In realtà l’ultima carta del Mazziere stava per essere deposta sul tavolo da gioco e niente sarebbe più stato come prima da quel momento in poi...”

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lunedì 17 dicembre 2007

NAUFRAFI

Estratto dall'opera NAUFRAGI di Davide Fanigliulo

Catastrofe della filosofia e filosofia della catastrofe

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"Un pensiero è veramente mio proprio solo
se io non esito in nessun momento a me erlo
in pericolo di morte, se io non ho da temere,
nella sua perdita, una perdita per me, una
perdita di me"
(Max Stirner - L’unico e la sua proprietà)

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[1] Morire è la punizione per essere nati.
E non ci sono scogli, porti cui approdare. Naufra-
gare è tu ’uno col vivere.
Disastri verticali, siamo cadaveri in fieri.
L’essere umano, una sorpresa senza pari: nato per
morire, sorto dal nulla solo per ripiombarvi, perché
si ostina a fare?
Perché edifica? Perché agisce? Morirà, moriranno
quelli che verranno dopo di lui. Il suo ricordo, si-
mulacro inutile, parto della sua alterigia, svanirà in-
sieme a coloro che lo custodiranno.
Da sempre l’uomo precipita, da sempre imbastisce
il nulla.
Come può vincere questa competizione senza ar-
rivo? Incapace di concludere alcunché, dovrebbe
non vivere, non partecipare nemmeno, essere di-
spensato dall’ingiuria della nascita, rendersi reie o,
escludersi dalla bagarre, abdicare alla vita e al-
l’azione.
Spe atore di tentativi da sempre falliti, dovrebbe ri-
dere di se stesso, non prendersi sul serio, non pren-
dere sul serio nulla, pregare per la demenza e
benedire il suo arrivo. Dovrebbe abbandonare l’im-
perfezione della sua umanità, mutarsi in Vuoto.
Sperare nell’insperabile.
Soppesati i suoi destini, dovrebbe smentirli prima
di essere smentito, cadere senza ritorno nell’impos-
sibilità del senso, nell’inefficacia delle parole, nello

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zero assoluto dell’abbandono. Cosa si azzarderà a
scegliere? Può perme ersi di scegliere?
Destinato a deludere le sue aspe ative, questo
mesto creatore di finzioni, questo poco stritolato fra
il nulla che lo precede e quello che lo segue, questa
somma di amarezze non ha opzioni.
Continuerà ad addormentarsi confidando nella ve-
rità, nella sua verità. Innalzerà gli espedienti quoti-
diani al rango di articoli di fede.
Finché avrà voce per parlare e cervello per pensare
non sme erà di esporsi, di dire la propria, di trac-
ciare nel fango da cui è nato le definizioni della pro-
pria condo a, le formule del come, condannato
com’è a non sapere mai il Perché.
Espressione senza pari dell’impossibilità della ri-
sposta, si ostina ad elaborare domande, sogna si-
stemi che lo illuminino, castelli di parole che
miracolosamente lo conducano al principio delle
cose. Superbo, geneticamente arrogante, colma la
sua pochezza vomitando formule. Senza pudore,
converte in Verità la presunzione delle sue opinioni.
Come può sfuggire al suo destino? Come può elu-
dersi?
Servo degli ideali che produce, agli antipodi del-
l’ogge ività, sfuggirebbe all’errore solo rinunciando
a pronunciarsi, rinunciando a supporre, a ipotiz-
zare.
I suoi pareri lo condannano.
Come esimersi? Dovrebbe disintegrare alla nascita
ogni sua convinzione, ogni velleità, polverizzare i
sistemi con cui tenta di circoscrivere una verità che
gli scivola via dalle mani; infarcito di valori-fantoc-
cio, dovrebbe poterli cancellare, dovrebbe non

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averne.
Può?
No. Non può. Ogni a o denuncia superstizione.
Dovrebbe affrancarsi dall’agire. Può?
No. Scegliere di non agire è ricadere nel mito della
verità, credere che una scelta valga più di un’altra,
convincersi senza ragione che un a o abbia senso,
che porti da qualche parte.
Vivere e sbagliare sono una cosa sola.
Possiamo solo immaginare la fine della sua miseria.
Il suo paradiso è il mondo che ha cestinato l’esi-
stenza.
Il mondo della fine del mondo.
Acce eremmo di non essere per salvarci dalla mi-
seria di esistere?
Folgorati dall’inconsistenza dei nostri proge i, di-
sorientati dall’inutilità dei nostri sforzi, feriti dal do-
lore e dalla morte, sprofondiamo al di so o di noi
stessi e denunciamo le nostre illusioni. Ma basta?
Capire di essere niente è uno scherzo: l’impresa è
comportarsi come se non si fosse niente, come se nes-
suno dei nostri respiri valesse l’ossigeno consu-
mato. Assetati di sogni, sfioriamo soltanto la
rivelazione della nostra nullità per ricadere nel pat-
tume delle aspirazioni e dei proge i.
Abbiamo visto ma abbiamo fallito. Non potevamo
che fallire. C’è solo un modo per vincerci, per an-
nullarci, per scavalcare la boria accademica del vero
e del falso, del bene e del male: non nascere.
Abortire è fare un a o di clemenza. Paradossal-
mente, è fare un favore alla vita.
Non nascere. Vincere i propri natali, come Buddha
ha insegnato.

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[2] Non c’è Assoluto; latita da sempre e per sempre
il Definitivo; del tu o vacuo e impraticabile il Va-
lore. Questo è capire.
La catastrofe del vedere ci ricorda la nostra posi-
zione, distrugge le nostre conge ure.
Unica vera rivoluzione, mostra la vita in traspa-
renza, scardina le nostre sicurezze: le nostre ragioni
perdono splendore e credibilità, il loro statuto di
dogma ingrigisce; delicatezza e barbarie si dissol-
vono, gli agge ivi, anticamera della morale, subli-
mano in vacuità verbale.
E se non c'è assoluto, non c'è realtà. L'evidenza si
muta in raggiro: parliamo con figure irreali desti-
nate a sparire, nate per non essere importanti, inutili,
passatempi provvisori.
Nulla importa. Nemmeno la nostra dissoluzione.
D’altra parte, come concepirla?
Il timore e il terrore della morte sono il passato,
prima dell’Era Volgare della nostra Storia indivi-
duale, quando comprendemmo l’abisso e ne scor-
gemmo i vortici; ma ora, smontati i nostri
pregiudizi, smessa la parzialità del nostro conce-
pire, anche quell'abisso si tramuta in vuoto.
A raversati tu i i "cieli" del nostro disincanto,
della Pentecoste casalinga che ci ha schiuso davanti
ai piedi la più seducente delle voragini, siamo liberi
di essere niente, e di non aver parole per questo
niente.
Eppure la grazia della disillusione non dura che un
a imo: il nostro risveglio è una beatitudine troppo
breve.

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I nostri respiri ci allontanano dalla pace, la nostra
volontà ce ne allontana, e così i nostri propositi e le
nostre idee. Rimaniamo ancorati a giudizi impal-
pabili, aleatori, vuoti: la morale, Dio e i suoi epigoni,
la volontà di fare come quella di non fare sono so-
prammobili fragili che spolveriamo senza motivo.
Agire e reagire, per non arrivare a nulla. Ci adope-
riamo per Assoluti solo nostri, per un Inconfutabile
che non è niente al di là dei confini della nostra
pelle. Sbraitiamo, urliamo diri i che divertono il
cosmo muto che ci ha partoriti. Abbiamo ancora il
coraggio di fare, di reagire.
Abbiamo ancora la forza di indignarci. Perseve-
riamo nella duplice follia dell'ideale e dell'etica.
Ed è incredibile come non si sia appresa l’unica sag-
gezza che Cristo ci ha insegnato, mutuando da mae-
stro pedante una verità che secoli prima di lui un
paganesimo assennato ci cantava soave: porgere le
altre mille guance di cui disponiamo, farci schiaf-
feggiare dall’universo intero senza sbraitare, senza
cercare un perché che è solo una follia sperare di
trovare. Depennare interrogativi e risposte.
La protesta, il tentativo di farsi valere, è la muta pre-
sunzione di possedere il Vero, di essere depositari
del Bene. Bastava un Socrate qualsiasi per capire
l’unica cosa che vale la pena capire: sono malede i
tu i quelli che mostrano i denti al boia.
Basta questo, di più non possiamo. Vita e perfezione
sono incompatibili.
Il disertore totale, quest'essere rinato, via di mezzo
fra l’Abbandono e l’A esa, Minotauro ribu ante e
spento nell’ozio, elemento eccedente nell’economia

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universale, finalmente "saggio", questo miracolo
non si realizza. Fortunato se tangente alla Rivela-
zione, rimane inchiodato alla croce cui è destinato,
all’infamia incancellabile della nascita. Non può
scavalcare l’ideale, fosse anche l’ideale dell’incon-
sistenza di tu i gli ideali. Dal vagito ai vermi non
ha speranza, non c’è Salvezza che lo liberi.
Precipiterà di nuovo: dal mælstrom della rabbia do-
lorosa, dei propositi radicali, al fango schifoso della
bulimia sociale e mentale. La vita esclude la perfe-
zione. La deficienza che siamo sovrasta la possibi-
lità di vincerci. Dobbiamo rimangiarci la sensatezza
dell’insensatezza. Non darle importanza. Se lo fa-
cessimo ricadremmo nell’utopia della Verità, della
ragione.
Finché continueremo a fare, finché ci contamine-
remo con gli a i saremo schiavi. Ma non si può es-
sere senza fare. Non si può essere senza essere
schiavi.
[3] Dio si è appropriato anche del distacco, unica ed
insufficiente finestra sull'indicibilità e l'impensabi-
lità dell'essere. Il religioso, insinuatosi nella mistica,
ne ha annacquato le conseguenze. Dio ci sussurra
di non perderci, di conservare il nostro io, la nostra
individualità, la nostra responsabilità, poiche senza
di questi il peccato sarebbe nulla e noi non do-
vremmo essere salvati. Non dipenderemmo più da
Dio, che invece seppelliremmo insieme agli altri
morti.
Ma il distacco polverizza il Sé, e solo rinunciando
alla lucidità si può tornare a dire io. E Dio dovrebbe
saperlo. Lui vuole che ci si inganni, che ci si deter-

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mini, che ci si faccia persone, anche nella caduta
verso il vuoto. Sa perfe amente che se dissolves-
simo, insieme a tu e le cose, anche gli scupoli, se
veramente combaciassimo col nulla fino a cancel-
larci, allora non ci sarebbe io da preservare, perché
ogni appartenenza, svanendo, porterebbe via con sé
la nostra individuazione. Chi mitiga i disastri della
spoliazione e del distacco fraintende la portata della
mistica.
Tornati dall'unità vuota ed impronunciabile, ciò che
saremo è imprevedibile; la demenza è uno degli
esiti, uno tra i possibili. La liberazione non può es-
sere circoscri a da nessuna morale, e non fornisce
garanzie di sorta, lo si acce i o meno. Emanciparsi
dall'errore, nella mistica, è disintegrare il divino e
tu i i suoi equilibri. E l’immensa giustizia di chi ha
ro o i vincoli con le cose, è chiaro, non combacia
più con le nostre norme, con i nostri sistemi di mi-
sura morale: la spontaneità assoluta, nella mistica, è
pura barabarie, dimenticanza di ogni istituzione:
cosa rimane da rispe are per chi ha spazzato via i
presupposti di ogni rispe o, di ogni asservimento,
di ogni valutazione? Nemmeno Dio è abbastanza
per chi ha guardato al di là di Maya.
[4] C’è più verità in un vecchio incolto che nel più
grande filosofo di questo mondo. E più saggezza.
Innamorati dei nostri Sistemi, delle nostre filosofie
da circo, sacrifichiamo un’inutile vita per inutili edi-
fici di parole. Soffriamo per essi. Niente di più as-
surdo. Invece di svuotarci, ci riempiamo di vuoti.
[5]Achi non ha nulla, nulla costa rinunciare a tu o.

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E la vita stessa, frullato di definizioni e sospiri, è
nulla. Nessuna giurisprudenza universale soccorre
le nostre etiche: la storia è vita bu ata a pensare che
la vita si può anche non bu are.
[6] Importiamo in proporzione alle lacrime e al do-
lore che la nostra scomparsa produrrà in chi ci ha
amato. Una vita affe iva è tanto più "riuscita"
quanto più atroce è il vuoto che lascia alle proprie
spalle, quanto più è stata indispensabile agli altri. Ci
ama veramente chi non ci sopravvive.
La tragedia, solo la tragedia è la misura dell’amore.
[7] I principi s’imparentano con l’opinione.
Acosa vuoi educare tuo figlio?Alla Virtù?Alla Mo-
rale?
Educare è versare il plasma molle di una coscienza
in uno stampo artigianale, e aspe are che induri-
sca, che solidifichi e prenda una forma.
Maschere tribali, ecco cos’è, tu a questa morale:
una raccolta di figure, una carrellata di espressioni,
una sequenza di cervelli mummificati dal Costume.
Poiché, poi, null’altro vale, al di fuori del costume.
Mœurs. Artifici.
Non possiamo spiegare come schivare una delu-
sione, come metabolizzare la fine di un amore o di
una vita. Possiamo solo spiegare come tentare di
non farci ammazzare.
Ed è e rimane un tentativo, poiché l’educazione, per
definizione, non concepisce l’imprevedibile, l’im-
provviso, il folle.
Questo il nostro obie ivo: disfarci del folle, bloc-
carlo, sterilizzargli l’iniziativa.

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Dal basso della nostra inqualificabile "normalità",
etiche iamo con sicurezza le coscienze e le menti,
definiamo canoni di equilibrio. La morale ingravida
la psicologia, e viceversa. Ma è pura banalità.
Il bene e il male, la follia e la normalità. Esempio
sommo di come si salti dalla statistica alla Verità, di
come si converta in Vangelo l’a estazione di una
certa regolarità di condo a.
Ma i cervelli sono inviolabili. Al di là delle parole e
dei gesti, noi non sappiamo nulla di nessuno. E non
possiamo in alcun modo calcolare la distanza che
separa quelle parole e quei gesti dall’essere di cia-
scuno, né se ci sia o meno una distanza, né se abbia
senso tentare di misurarla. Così la morale. Si pos-
sono massacrare milioni di persone e non sentirsi
in colpa, non vederci il Male. Quale Decalogo con-
danna il genocida?
La Legge si fonda sul disgusto: è solo il nostro rac-
capriccio che lo condanna.
[8] Abbiamo corro o Dio. Lo abbiamo ridimensio-
nato.
Da sovrano onnipotente a schiavo del sentimento, il
Padre Celeste si è deprezzato, Cristo lo ha condan-
nato, lo ha incatenato al bene che elargisce, al bene
che ora crediamo Egli sia.
C’è una cosa che assolutamente non può fare: im-
pedire che ai giusti vada il premio e agli empi il ca-
stigo.
Non può ingannare, non può mentire. Lo abbiamo
inchiodato ad una morale da catechismo. Abbiamo
castrato la sua onnipotenza. Dio è schiavo delle ri-
compense che ha promesso, poiché null’altro è Dio

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se non il paradiso che prome e e gli inferni che mi-
naccia; Dio è quello che ha de o.
Poiché Dio è per la creazione, Dio è per l’uomo, e
Cristo non ha senso se non in funzione dell’uomo.
Come non sfidare l’Onnipotente, se per lui siamo
così importanti da fargli edificare un universo in-
tero, se solo per noi ha massacrato se stesso a ra-
verso la carne del Figlio?
Dio non è nulla senza l’uomo, non è nulla e non può
essere nulla di diverso dalla pace che all’uomo ha
garantito.
Dio è un pa o, un accordo a cui neppure Lui può
sfuggire.
La tentazione, il pomo, il serpente, il peccato, il
Male stesso, la creazione tu a sono trucche i, mi-
seri espedienti da teatro per avvicinarci al senso,
per perme ere a noi, illusi sovrani delle cose, di in-
ventare la nostra centralità.
La nostra fi izia centralità. Una centralità che non è
nulla.
Abbiamo inventato Dio per giustificare la nostra su-
perbia, per farci imperatori del cosmo e suoi giu-
dici. Terrorizzati dalla morte, immaginiamo un
aldilà che non ci privi del sentire, che ci garantisca
carezze eterne.
[9] La Convinzione si sposa fatalmente con la mio-
pia; l’idea, senza eccezioni, indirizza lo sguardo e
devia osservatore ed osservato verso una direzione
che essa stessa promuove.
La vita è il surrogato di una Concezione qualsiasi.
È un’assurdità. Ma è folle denunciarla.
Anche l’abbandono della vita ha le sue ragioni, la

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sua aritmetica, le sue proporzioni.
[10] Finché ci si ingegna a preservare la vita, ci si ac-
corda con essa. Rivoluzionare per vivere non è
nulla, è ristagno, è reazione.
Ma anche rifiutando di vivere, morendo volonta-
riamente, urliamo la nostra protesta, la nostra di-
pendenza da tu o ciò che è vivo: siamo ancora
contaminati dall’utopia, dalla sozzura degli ideali,
dalla Vita. Un coma continuo, un coma da veglia,
questo è trionfo sulla vita: vincere la volontà, farla
a pezzi, assassinare le scelte e i moventi.
[11] Siamo servi finché abbiamo lacrime per i fune-
rali, finché sentiamo il tragico, finché sovrasti-
miamo i destini.
La pace è bonaccia, quiete, deserto; è prosciugare
lacrime e piallare sorrisi.
Superata la debolezza della pena, niente può scuo-
terci: nessun crimine varrà più il nostro sdegno,
nessun amore i nostri rossori. La beatitudine è
senza afflati. Il paradiso esclude il sentimento, la
sua delizia è sterile. Il paradiso è delle rocce, eter-
nità di anime inorganiche.
[12] Non si può fare a meno di essere uomini. Deli-
berare è il nostro destino, cianciare la nostra puni-
zione.
Solo i morti hanno vinto il mondo, solo i dementi; e
i mai nati; anche i suicidi sono ridicoli al loro con-
fronto.
La strada non è morire, ma lasciarsi andare, rinun-
ciare a tu o e aspe are che questa rinuncia porti, se

18
deve, la morte, non più deliberata, ma conseguenza
naturale di una non-scelta, punto di arrivo di una
morte che c’è già prima dell’ultimo respiro.
Anche lo sce ico scende a pa i con la vita, ricono-
scendone il cara ere tu ’altro che spiegabile, ri-
nunciando al giudizio, adagiandosi nell’epoché: il
suo astenersi è parto della ragione; la differenza fra
l’idealista e lo sce ico sta solo nei modi, non nella
sostanza.
Ha ragione Schopenhauer: affrancarsi dalla vita e
dimenticare la vita sono tu ’uno.
Il resto è accademia.
[13] Non ci sono destini peggiori di altri. Non po-
tendo valutare il dolore, misurarne la profondità, la
portata, è assurdo codificare una graduatoria della
sofferenza, una gerarchia del patire.
Il peggio è democratico.
[14] Se puoi rimandare a domani la tua morte è per-
ché la tua morte non è indispensabile, è perché tu
non vuoi morire, perché non hai nessuna intenzione
di farla finita.
Rimandi a domani, ma domani rimanderai ancora,
e poi ancora, e poi ancora.
Non si proroga l’intollerabile.
Ma quando hai deciso, allora speri che la morte
mantenga le sue promesse: eliminazione del pro-
blema tramite la speranza della tua eliminazione.
Ci vuole dolore, ci vogliono le spalle al muro. Finché
hai anche solo una possibilità, finché puoi anche
solo immaginare un’altra via di uscita, non la farai

19
[15] All’inizio è un vagito. Il vagito è il senso e il
simbolo di tu o il resto: urla, lacrime, bisogno.
Il vagito.
A diri o, poi, diventa preghiera.
[16] Non si concepisce l’inconcepibile finché non si
sanguina. Accasciarsi in un sorriso ebete, convin-
cersi che ci siano tronchi cui aggrapparsi, tu o que-
sto è niente. Con buona pace di Afrodite, anche
l’amore non conta nulla se non ferisce. Anzi, conta
solo quando ci distrugge. Solo annientandoci una
volta può sme ere di farlo, per sempre. Finché
"amore" non avrà più senso, finché questa parola
equivarrà a disperazione, e poi a indifferenza. Il do-
lore salva dal dolore. Il dolore anestetizza. Il dolore
ci insegna ad abbandonare tu o, e che tu o quello
che abbandoniamo è nulla.
[17] Immagino un aldilà senza contenuti.
Dopo di me? Non ci sarà un dopo: il mondo, sin-
cronizzato con le mie palpebre, si chiuderà.
[18] Per essere nel vero bisogna non essere da nes-
suna parte.
[19] Anche per abbandonare la fede ci si serve di
essa. Trovare ragioni è ricadere in essa.
Si vincerebbe la fede sme endo di fare ogni cosa per
nessun motivo.
Vivere è avere fede. Tentare di superare la fede è
avere fede. Credere in Dio è avere fede. Annientare
Dio è avere fede. Non pronunciarsi è avere fede.

20
La fede è superiore a Dio. La fede viene prima di
Dio. La fede viene prima dell’ideale e della ragione,
prima durante e dopo ogni a o.
Vincere la fede. Vincere la fede è vincere la vita, la
morte, il paradiso e l’annientamento, il dogma e il
vuoto, lo spazio e il tempo.
Vincere la fede è l’irraggiungibile stato di perfe-
zione oltre l’orizzonte degli eventi.
[20] Ami? Soffrirai del dolore dell'altro. Le sue fe-
rite saranno le tue ferite. Il suo cancro sarà la tua ro-
vina, il tuo cancro la sua. Vi amate, e vi incatenate a
tumori che non vi appartengono.
Amare è ridursi in schiavitù.
[21] La mistica chiusura all’assurdo del reale, la
guerra contro le parole e gli ideali, la dissezione in-
finita delle prospe ive, la loro riduzione a puro
nulla: quanto sforzo per un essere miserabile!
Quanto fumo per l’uomo, cadavere ambulante.
La morte annienta ogni slancio; ogni ascesa, davanti
alla morte, sa di presa in giro, di inganno cosmico.
Che io muoia, questo rende vano ogni sforzo; che
io, proprio io, non sia immortale, nullifica ogni im-
pegno, ogni engagement; scomparirò, e allora cosa
volete che importi il male del mondo, le catastrofi
inarrestabili ed inarrestate dell’esistenza? Morirò:
come può ancora far presa la lo a contro la disso-
luzione, se essa stessa è il fine di ogni cosa? Come
godere nel fare, se la prospe iva del mio agire è la
stessa del mio dissolvermi?
E nonostante questo, me iamo al mondo nuove e
già defunte vite. Ecco a che serve preservare la spe-
21
cie: a moltiplicare il numero dei morti.

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venerdì 30 novembre 2007

Le Parole, i ricordi e l'Inganno

Parte prima dell'opera Le Parole, i ricordi e l'Inganno
di alexis grigoriadis




Era tanto tempo che non guardavo la città dall’attico di Sara sotto un sole così magnifico. Sto fuori, con un piede appoggiato su un vaso, le braccia sulla ringhiera, i pensieri intiepiditi dallo spettacolo torpido e dolce di una città esanime, addormentata alle due del pomeriggio. Sara è la mia amante. Ci siamo conosciuti cinque anni fa. La intravedo dalla finestra semiaperta del salone, scalza, che beve lentamente un fondo di vino rosso da un bicchiere rimasto sulla tavola e guarda fuori, ma non mi vede. Mentre è così distratta, posso raccontarvi perché sono qui oggi, di come l’abbia conosciuta e, soprattutto, perché siamo infelici.
Io sono assistente all’università, facoltà di lettere. Mi occupo di retorica. Sono stato un enfant prodige: maturità classica a pieni voti a 17 anni, laurea con lode in lettere antiche a 22, borsa di studio per un dottorato di ricerca e poi… basta. In verità sono stati gli altri a credere che fossi un ragazzo prodigio. Li ha abbagliati la velocità con cui perseguivo i risultati scolastici, la mia educazione formale, la disinvoltura con cui intrattenevo i miei interlocutori. Eppure più andavo avanti più sentivo che un grande genio non ero, piuttosto una persona di buona intelligenza, con una memoria prodigiosa e perché no, fortunata.
L’ho conosciuta all’apice della mia gloria, Sara; al secondo anno di università. Suonava il pianoforte, si era appena diplomata al conservatorio. Siamo quasi coetanei, non era stata una studentessa modello: nel tempo che io terminavo la metà dei miei esami lei doveva ancora decidere se intraprendere l’esperienza universitaria e a quale facoltà approdare.
Scrivevo delle belle poesie, allora, con tanto Ovidio e Verlaine dentro, ma erano in ogni modo forti, incisive, da persona che abbia conosciuto a fondo l’amore. Gliene feci leggere una che la colpì molto.
Me ne ricordo l’ultimo verso, di grande effetto: “… per sostituire al movimento la perfezione del dolore”.
Mi sono accorto successivamente che i musicisti amano l’eloquenza strutturata, analitica e rigorosa. Un trattato, una scultura, un quadro, sono uno spartito che va composto secondo canoni ortodossi, morali. Sara ama Canova ed i bronzi di Riace, ma darebbe alle fiamme il Gargantua e Pantagruele e Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta.
Ma come sempre sto perdendomi nella congerie dei ricordi dimenticandomi l’essenziale: come e perché ci siamo amati.
E’ stato bellissimo, con la benedizione del freddo di capodanno. La serata era a casa di comuni amici, io di Michele, lei di Francesca, la fidanzata. Gli ospiti erano tanti –la casa del mio amico è più un castello che una villa- e ci eravamo divisi in piccoli gruppi aspettando che si facesse mezzanotte per brindare il nuovo anno.
Durante la cena avevo bevuto molto, ed ora ridevo animatamente con dei vecchi compagni di liceo. Ridevo molto, con quell’allegria artata cui ti induce l’alcool, ma che ti lascia la coscienza che si tratta di una gioia adulterata, ottenuta chimicamente.
Presto mi sono stancato della conversazione ma soprattutto della consapevolezza di non essere né sobrio né ubriaco.
Andai un poco fuori al balcone, sapendo che avrei trovato conforto nell’aria gelida. Era una grande terrazza, sotto di cui si stendeva il parco della villa. Mi appoggiai alla ringhiera con i gomiti, nella stessa postura con cui ho cominciato a raccontarvi la mia storia. E’ strano, ma quelle tenebre di gelo e di silenzio mi sono rimaste nel cuore. Ora come allora sto guardando nel vuoto, ma mi mancano quei pensieri, quel secco filare di rose che si sviluppava appena sotto il balcone, e i rumori provenienti dalla casa, attenuati in un brusio remoto ed indefinito.
Quando sono rientrato c’era meno confusione, un buon numero di persone stava vicino ad un pianoforte dove suonava una ragazza. Vedevo le sue spalle muoversi decise, ed ogni tanto una mano fuggire sulla parte estrema della tastiera.
Mi sono fermato così, a grande distanza, ad ascoltare questa musica a me del tutto ignota. Credo che la pianista si fosse preparata a questa eventualità, perché il suo vestito era perfetto: un complemento elegante e sinuoso del pianoforte. Era nero, senza sfumature o cedevolezze, stretto in vita e con una lunga, morbida gonna. I capelli raccolti lasciavano che le spalle nude risaltassero. Era splendida, perduta nell’oscurità lucida del pianoforte. Durante tutta l’esecuzione non ho pensato neppure per un attimo che quella figura austera e severa che governava quei suoni potesse avere un’anima; per me umana e femminile era solo quella poca carne che mostrava, immersa in uno strumento che ne possedeva la volontà.
Suonò per altri pochi minuti, poi mentre gli altri applaudivano si alzò, e quella ragazza che ancora non sapevo fosse Sara, che non sapevo avesse gli occhi chiari, si voltò completamente e mi guardò dal fondo della sala.



II

“A cosa pensi così assorto?”
E’ Sara che è uscita sul terrazzo con ancora il bicchiere di vino in mano.
“A niente.”
“Sei tu che mi hai insegnato che non è possibile.”
E’ vero, ma non le ho detto che la consapevolezza di essere non ci obbliga alla sincerità.
“Pensavo a noi, a quando ci siamo conosciuti.”
“Quando mi amavi ancora?”
“Lo sai che ti amo anche adesso.”
“No, non lo so, e tu non fai niente per convincermene.”
“E tu a cosa pensavi con il tuo calice in mano?”
“Pensavo che ho quasi 26 anni ed è ancora tutto così lontano. La laurea, la musica, noi due.”
“Non è il caso di essere così tragici, soprattutto con questo sole.”
“Il sole non mi scalda ed il vino non mi intenerisce.”
Posa il bicchiere sul tavolo e mi guarda con i suoi occhi limpidi, sempre severi. Eppure…
“Vado da Zenone” le dico per far cessare il silenzio fra noi. Annuisce e se ne torna in cucina.
Non mi diverto a sviare il discorso da noi due, ma ho paura di un’altra discussione, di un confronto fra quello che eravamo e quello che siamo, fra quello che ero e quello che sono.
Scendo le scale e mi chiudo il portone alle spalle.
Zenone abita poco lontano ed è un mio caro amico, del tutto irresoluto ed irresponsabile. Ha cambiato tre facoltà: filosofia, ingegneria e da ultimo si diletta nella fisica, “scelta felice e perfetta” come ama ripetermi. Peccato dicesse lo stesso delle altre due.
Arrivo a casa sua, busso, ma non mi apre nessuno. Oggi aveva lezione all’università. Tutto il giorno. Me ne sono dimenticato. Non mi va di tornare da Sara, e neppure da me. Decido di raggiungerlo in facoltà.
Con la metro si arriva subito a quest’ora, neppure venti minuti. Non ci sono molte lezioni il sabato pomeriggio, dev’essere nell’aula a piano terra o a quella al secondo piano, da quello che leggo in bacheca. Provo con la prima. Entro da una porta laterale e mi siedo in ultima fila. Accanto a me c’è un ragazzo che prende appunti, non mi presta attenzione. Guardo se intravedo Zenone. Non sono in tanti, e, qualche posto più avanti, riconosco la sua barba. Il professore sta rispondendo ad una domanda, non mancherà molto alla fine, ascolto e aspetto.
“Dunque, Professore, l’orizzonte è il luogo dove la velocità di fuga eguaglia la velocità della luce?”.
“Esattamente. Se lei si avvicinasse con un’astronave ad un corpo celeste, mettiamo una stella, se la sua velocità –che è appunto detta velocità di fuga- è superiore alla forza di attrazione di quella stella, riuscirebbe senz’altro a sfuggire al suo campo gravitazionale.
Proseguendo nell’esercizio di fantasia, ora, immagini che la stella abbia una forza tale da impedire anche alla luce di fuggire dal suo campo gravitazionale, ci troveremmo nel paradosso di essere in un buco nero.”
Si ferma un attimo, squadra la platea da sotto gli occhiali spessi e poi prosegue. Si sente solo il rumore di qualche biro sui fogli.
“Dato che nessun corpo può violare la velocità della luce, non è possibile in alcun modo generare abbastanza velocità per sfuggirgli. Si troverebbe, allora, nell’orizzonte. Non importa quanto sia veloce la sua astronave, una volta entrato nell’orizzonte, non può più uscirne. “
Fa un’altra pausa. Guarda un paio di studenti seduti in prima fila, e poi riprende.
“E’ da questo momento che avviene la distorsione tra spazio e tempo. Così la coordinata che descrive la distanza dal centro diventa una variabile che dipende dal tempo, mentre il tempo diventa una coordinata spaziale. Qualcuno di voi sa dirmi cosa comporta?”
Una ragazza alza la mano e risponde.
“Che non può evitare di avvicinarsi sempre di più al centro di attrazione.”
“Esatto, così come non può impedire al tempo di scorrere. Si tratterebbe, né più né meno, che cercare di evitare che arrivi giovedì prossimo.”
C’è uno scoppio d’ilarità in aula. Forse i fisici hanno un loro umorismo particolare. Dopo qualche altra raccomandazione, la lezione termina. Si alzano tutti disordinatamente per uscire. Mi faccio avanti anch’io per raggiungere Zenone. Gli arrivo alle spalle e gli tocco la schiena. Si volta piano e mi squadra
“Che ci fai qui?”
“Sono venuto a cercarti. Hai finito?”
“No, magari. Fra un quarto d’ora ho un’altra lezione.”
“Ti va di parlare un po’?”
“Hai litigato con Sara?”
“Quasi. Le solite.”
“Che è stato stavolta?”
“Ce l’ha con me. E’ normale e poi all’improvviso si rabbuia e non parla più.“
“Oramai è quasi un anno che andate avanti così. Almeno litigaste davvero, così avreste una ragione per discutere.”
“Le ho detto che venivo da te. Se ti chiede qualcosa tu conferma tutto.”
Ci fermiamo sul pianerottolo, vicino la macchina del caffè.
“Vuoi qualcosa?”
“No ti ringrazio, ho appena finito di pranzare. Almeno quello è stato buono.”
Ci sediamo lì vicino. Ogni tanto passa qualche gruppetto di studenti.
“Era una cosa bizzarra quella che spiegava il tuo professore.”
“Molto affascinante, vero?”
“Mi è parso un po’ confuso.”
“Sei nell’orizzonte anche tu, allora.”
Annuisco un po’ distratto, poi cambio atteggiamento, non so nemmeno io perché, forse ripenso a Sara e a cosa ci faccio lì in quel momento. Gli parlo con un tono irritato e sbrigativo, come se fossi stato punto sul vivo. “E poi queste scoperte non mi arricchiscono, perché sono esperienze che non proverò mai. Non mi è di nessuna utilità la definizione di limiti immaginari che mi ricordano solo che sono vincolato a delle leggi cui non posso sfuggire.”
Zenone è un po’ sorpreso della mia reazione. Gli passa subito. Non si scompone, come al suo solito.
“Eppure ti ricrederai, mio caro retore. Nessun pensiero vero è inutile”. E lo sguardo di Zenone sembra davvero convincente.



III

Dopo quel primo incontro sono passati diversi mesi prima che Sara ed io ci rivedessimo. Per la precisione otto.
Avevo detto al mio amico che ero rimasto colpito da quella ragazza che suonava il pianoforte, ma mi aveva risposto che sarebbe partita di lì a poco e che, comunque, non era un tipo su cui riporre troppe speranze.
“E’ la migliore amica di Francesca” mi aveva detto “ma io non sono mai riuscito ad entrarci in confidenza; una ragazza che non lascia trapelare quello che ha veramente dentro.”
Chissà, ma mi immaginavo davvero che fosse così chiusa ed impenetrabile. Michele aggiunse anche: “Suona bene e quando è seduta al pianoforte ha l’aria di essere talmente piena di sentimento da doverne traboccare. Ma, poi, quando finisce è come svuotata. Lo so che è brutto dirlo ma ho sempre l’impressione che sia solo un’interprete, nulla più.”
Ma del passato parleremo ancora più tardi, adesso sono troppo preoccupato del contingente per poter stare a guardare i miei passi.
Già, perché ora non ho cuore né voglia di ritornare da Sara per misurarmi con i suoi occhi gelidi che fanno da specchio a tutte le mie inquietudini. Vedete, che il nostro rapporto sia in crisi è evidente, ma io non riesco a collegare questo disagio ad una frattura definita, un litigio, un difetto, una condizione precisa. So di non essere felice, così come vi ho detto all’inizio. Ma cosa sia che non vada mi sfugge. Non so se sia il rapporto con Sara che inquini anche il resto della mia vita, o se siano le mie frustrazioni ad impedire la serenità tra noi due.
Io sono orfano pressoché dalla nascita e questo ha fatto sempre che io consideri tutto precario, tutto temporaneo.
Delle sedute di psicoterapia cui mi sono sottoposto, mi ritorna il giudizio che mi diede il terapeuta prima che decidessi di essere inguaribile e sospendessi il trattamento.
“Lei vuole evidentemente dimostrare che non è contento di quello che ha. Ciò deriva senz’altro dalla mancanza dei suoi genitori: dall’aver perduto tutto prima di poter maturare la coscienza di averlo posseduto. I suoi studi letterari, inoltre, non hanno fatto che alimentare questo suo distacco dalla vita vera”.
Maledetti psicologi, ma purtroppo è vero: io non riesco a stare sdraiato al sole e sentirmi appagato.
Che mi manca? Cosa voglio? Dov’è?




IV

Eccola, Sara, che mi viene incontro con i capelli lunghi e biondi. Una borsa a tracolla ed altre due tra le mani. Michele ed io la raggiungiamo e l’aiutiamo a liberarsi da qualche bagaglio. Saluta Michele, abbraccia Francesca e poi saluta anche me. Una stretta di mano incerta, sorpresa di vedermi lì, alla stazione.
“Bruno, ti ricordi?”
“Ah sì, a capodanno.”
Poi è di nuovo nella conversazione, vorticosa e disordinata, di tutti quelli che sono attesi e hanno tanto da raccontare.
Le sette di un giorno di agosto, il caldo non più così intenso; la luce rossa all’orizzonte.
“…Non ne potevo più, insomma. Una bella città, ma…”
“Dai vieni che siamo arrivati alla macchina.”
Per fortuna guida Michele, così non devo fare mostra delle mie doti di pilota. La lasciamo a casa. Io faccio per scendere dal sedile di dietro per salutarla, ma lei scuote il braccio, un cenno ed è già al citofono.
Non mi stupisco che non abbia potuto dormire quella notte. Andai da Paolo, mio buon amico dell’università all’epoca. Bevemmo non so quante birre e gli parlai di lei, di come era scostante, di come era indifferente, insomma di quanto fosse bella.
“Che stupida cotta ti sei preso.”
“Davvero, Paolo; l’ho vista due volte in otto mesi ma mi è sufficiente per dirti che è più bella di Marzia.”
“Addirittura.”
Marzia era una delle mie “fissazioni” dell’università; ci eravamo sì e no scambiati dieci parole in due anni, ma a tutti i miei amici ne cantavo la spiritualità, la bellezza, la disinvoltura.
“Sissignore, è più distaccata e lontana di Marzia e quindi ancora più bella.”
“Meno siamo in grado di definire un oggetto, inteso come qualunque contrapposizione, animata o non, al nostro io, più la sua virtù…”
“… deve necessariamente essere alta”. Completo il discorso che Paolo ha teatralmente recitato sedendo su una sedia della cucina.
“Eh, sì, il professor Zanche è un vero profeta; almeno dei miei innamoramenti”.
A mezzanotte me ne andai, perché Paolo aveva una famiglia a cui rendere conto. Io tornai nella mia stanza ammobiliata, invece, perché ero libero e soprattutto solo.
Degli altri ragazzi con cui dividevo l’appartamento nessuno era sveglio: tre tristi fuori sede, amici, tutti calabresi. Non ci siamo mai sopportati ma la nostra convivenza durò, comunque, solo pochi mesi.
Disteso sul letto, addolcito dalla birra e dall’afa, pensavo a Marzia dai capelli rossi che in cima alla scalinata della facoltà, con grande disappunto, e forse invidia, mi vedeva salire abbracciato alla mia Sara, parlando della virtù dell’oggetto in quanto contrapposto al binomio del soggetto nella metafisica classica.
Nella finzione mi immaginavo anche com’era vestita, con un paio di jeans dal blu intenso ed una camicetta rossa, corta in vita che lasciava scoperto per un filo l’addome. E, naturalmente, quel po’ di brezza, quel vento leggero che muoveva i capelli dalla sua fronte. Delle scarpe sentivo il rumore pieno, del tacco sul granito, ma non ne distinguevo la forma.
Ditemi, si può forse dormire guardando la notte dalla finestra aperta, sentendo che abbiamo incontrato una persona importante, e non è stato un caso, e non sappiamo come ma ne siamo certi?
No, io non ci riuscii. Quel secondo incontro fu più dolce del primo, perché fu più fugace e l’immaginazione, la vitalità, l’ansia di vivere che avevo allora valevano più di qualsiasi abbraccio reale.
Il bicchiere cade sulla moquette. E non mi va di raccoglierlo. L’ho rifatto. Ho di nuovo compatito la mia situazione attuale, ho di nuovo rimpianto il passato e, soprattutto, ho invidiato quel ragazzo che sognava, che una notte d’estate non ha dormito perché amava; un’altra ragazza, la vita e se stesso. Cinque anni possono uccidere?
Andrea, il fratello di Paolo, diceva che nel momento in cui ti poni un dubbio su qualcosa è già tardi. Vuol dire che in realtà hai deciso, ma hai paura di ammetterlo. Se dubiti, allora non sei già più.



V

Stamani il direttore del mio dipartimento mi ha chiesto di seguirlo per un intervento che deve tenere all’università di Bologna. Sono contento di andare, anche perché spero sempre che mi tenga presente per il concorso di ricercatore al quale, l’anno scorso, ha preferito un mio collega. Ma sembra la sola buona notizia degli ultimi periodi. Sara è sempre più irritabile; quand’è con me non fa che creare situazioni in cui non sono a mio agio. Credo sia in parte per punirmi ed in parte per mettermi alla prova. Vuole conferme, ed io non sono in grado di fornirgliene.
Abbiamo avuto una scenata, oggi a pranzo. Orribile, asciutta. Non credevo fossimo ancora così estranei da sorprenderci, anche se durante l’ira. E’ cominciata a tavola. E’ stata colpa mia.
Mi chiedeva se avevo novità proprio su quel concorso di ricercatore. Mentre stavo per replicare mi sono accorto che in realtà non volevo risponderle.
“Cos’è hai paura che non riesca più a mantenermi?”
“Ti chiedevo solo di quel posto. Mi pare ci tenessi.”
“E tu? La finirai l’università?”
“Perché, ti vergogni di frequentare una non laureata?”
“E’ che vorrei prendessi una decisione nella vita.”
“Laurearmi per poi fare l’indifferente? Sei tu che rimandi qualsiasi decisione. Non proiettare su di me i tuoi stati d’animo.”
L’ho guardata negli occhi ed ho sentito dentro di me crescere la voglia di offenderla.
“Io so cosa fare della mia vita e le mie scelte le ho fatte. Mi piacerebbe che ti sforzassi di pensare al futuro, che scegliessi qualcosa.”
“Bruno, che cos’hai? Cosa vuoi da me?”
“L’ho appena detto: voglio sapere se hai voglia di costruirti una professione. Vuoi ancora giocare a fare la concertista?”
Sara non piange mai. Si contorce, impallidisce, contrae il viso; ma non vedrete mai una lacrima. Non so l’origine di questa sua inumanità. Non le ho mai chiesto il motivo, perché è una parte di lei, come le sue dita lunghe da pianista.
Si è alzata bruscamente da tavola e mi ha risposto con durezza. Ed io ho replicato, cercando di confondere ad entrambi la realtà della scena che stavamo vivendo: una discussione sul nostro amore.
“Ti diverte giudicare la mia vita?”
“Credo che tu sia geloso; che io possa ancora cambiare radicalmente tutto.”
“E’ incredibile come tu voglia travisare la realtà. Tu saresti una persona libera?”
Sara voleva rispondere, ma ha esitato, cercando le parole.
Non le ho dato possibilità di farlo. Per la prima volta ho sentito che provavo rabbia verso di lei; non più ansia, ma un sentimento finito.
“Mi hai stancato. Non voglio più discutere, non voglio più pomeriggi passati a rodermi, a cercare di capirti. Dove sei? Sei qui con me o pensi al resto, a tutto il resto che sta passando davanti ai tuoi… ai nostri occhi. Beh, io non voglio guardare più ma vivere, lo capisci questo?” Ho spinto il tavolo da una parte e sono andato via.

Fuori mi sono calmato subito. Già prima di aver finito la rampa di scale ho avuto la tentazione di tornare su, suonare, trovarla ancora in piedi, pallida, con i capelli raccolti e gli occhi blu persi nello spazio dietro di me.
Ho continuato la mia strada però.

Avevamo litigato spesso, in precedenza, ma stavolta avevo passato il limite consciamente. Sara non lo meritava: chi aggredisce non ha mai ragione. Vi parrà strano detto da me, ma sono convinto che con le parole non si possa cambiare nessuno. I gesti, le azioni, quelli possono redimere e convincere; non un discorso.
Cosa avevo ottenuto, infatti? Sara era a casa ed io a piedi per questi vicoli. Ecco tutto. Così ci eravamo ancor di più allontanati.
Zenone dice che mi sto comportando da disonesto, che non ho il coraggio di affrontare questa situazione per quello che è. “Tu non l’ami più” mi dice. Ed è curioso vedere come sia serio in questi momenti.
Zenone, così superficiale nel vivere la sua vita, non sa comprendere come il suo responsabile e diligente amico possa sopportare un eterno stallo, in cui il re vuole morire e la regina non si sposta dalla sua tessera. “Tu non l’ami più”. E’ una proposizione troppo forte, che non posso accettare. Sara mi appartiene, e non per un malinteso senso del possesso. Le emozioni che abbiamo condiviso non sono state concessione del caso, ma momenti perfetti, e lo sai mentre li hai vissuti.
L’infelicità, l’inappagamento che sento, devono venire da qualcosa che sbaglio, che non vedo più, a cui mi sono abituato, come la musica celestiale la quale, secondo i Pitagorici, abbiamo per sempre perduto la facoltà di distinguere.




VI

La sera ci siamo ricomposti. Io le ho chiesto perdono e Sara, dopo un po’, mi ha perdonato.
“Mi dispiace di oggi. Lo sai che non pensavo niente di quello che ho detto. Sono solo nervoso per quel posto, e parlarne mi mette a disagio.”
“E tutto quello che hai detto sul mio futuro? Che aveva a vedere con il tuo posto?”
“Ho unito le nostre inquietudini in un unico miscuglio. Ho reagito mischiando le situazioni critiche.”
“D’accordo, non parliamone più.”
Tutto sempre peggio. Avrei voluto che affiorasse la Sara di un tempo, che non chiedeva e non accettava scuse. Ma come mi sono spento io, così deve essere avvenuto di lei. Sono così partito per Bologna.

Siamo arrivati col primo imbrunire, accolti da un tempo piovoso e freddo. Alla stazione, alla confusione abituale, si assommava la concitazione che la pioggia provoca nelle grandi città; era faticoso trovare un taxi ma noi “fortunosamente” avevamo l’albergo nei pressi. Dico così perché in realtà ci siamo completamente bagnati nel fare quelle poche centinaia di metri dato che non avevamo ombrello.
Eravamo stanchi ma il Professor Aronta non è uomo da cedere alle debolezze del corpo per privarsi di quelle che annovera fra le sue gioie; e una cena in un ristorante raffinato lo è.
Ci siamo seduti al tavolo alle nove e non abbiamo lasciato il locale se non alla mezzanotte passata. La miglior descrizione del mio professore ve la posso fornire proprio nel ricordare questi primi momenti al ristorante, mentre ci siamo appena accomodati ed il cameriere ci ha porto i menu.
Aronta è uno spirito tagliente, un uomo comune che un giorno ha scoperto con meraviglia la propria normalità e ha deciso di discostarsene per sempre da lì in avanti. Se devo indicarne, fra i molti, il difetto più evidente, è la censura che fa di tutto quello che gli ricorda la sua trascorsa mediocrità; è impietoso, e spesso sgradevole, nel notare ogni incertezza, goffaggine di spirito o di corpo, che nota nel prossimo e nelle sue interazioni con gli altri. Aronta non è certo bello, ma esponendo al ludibrio l’altrui bruttezza è come se stornasse la propria; e vi riesce: giudica con tale convinzione che nessuno ne mette in dubbio l’autorità.
Di quello che è successo a cena, vi devo parlare, per l’insolita veemenza con cui Aronta ha analiticamente punto il mio animo.
Il nostro alterco è iniziato mentre aspettavamo il primo, dopo l’antipasto, quando il vino l’ha reso loquace. Ha cominciato a parlarmi della sua ex moglie, dei motivi per cui l’aveva lasciata, e della sua attuale compagna, Beatrice.
“Sa Bruno” (Aronta mi dà del lei ma mi chiama per nome) “non bisognerebbe mai fidarsi completamente dell’esperienza che si vive nel rapporto con una donna.”
“Che intende professore?”
“Voglio dire che fintanto che si ha una relazione con una persona, questo ci fornisce un certo grado di soddisfazione, di felicità, come si dice. Eppure non ci rendiamo conto di tutto quello che, invece, ci sottrae.
Viviamo accanto ad un’amante, una fidanzata, una compagna anche per anni, se non per decenni, cercando la massima felicità possibile da questo binomio che abbiamo costituito. Ma dov’è la felicità? In quello in cui ci siamo adattati?”
“Ma, mi scusi, se quella persona la amiamo…” Aronta ha alzato su di me lo sguardo col quale fa l’ultima domanda ai suoi studenti mentre continuavo “…l’abbiamo eletta a compagna, amante o fidanzata, vuol dire che non stiamo perdendo nulla, ma vivendo ciò che altrimenti ci sarebbe stato precluso.”
“Già, già, capisco. Ma chi lo ha deciso cosa vivrà; lei? La sua compagna? Il destino?
La verità è che se si perde la lucidità, in ogni contesto, e mai questo è stato vero come nel rapporto di coppia, non si percepisce e non si restituisce che alterazione della realtà.”
“Ma lei così nega l’essenza stessa dello stare insieme. Lei sta negando la possibilità che due persone si amino.”
“Al contrario; io ammetto che due persone si amino, ma non accetto di essere una di queste.”
“Non capisco come si possa legare alle sue affermazioni precedenti”
“Mi lasci parlare da cattedratico quale io sono. Io non nego che due persone professino o solo credano di amarsi. Dico che io non lo permetterò più” si è corretto subito “non permetterò mai, che l’idea della felicità ci distolga dalle esperienze cui potremmo andare incontro.”
“Mi scusi ancora, professore, ma proprio non riesco a condividere queste sue affermazioni; ma in cosa siamo limitati dalla nostra amata?”
“Io vivo. Vivo perché sono solo e allo stesso tempo ho una moglie. Ma i due stati non si sovrappongono mai.”
Si aggiusta lentamente il tovagliolo sulle ginocchia, per poi riprendere.
“Lei ce l’ha una fidanzata?”
“Sì.”
“Da quanto?”
“Più di cinque anni.”
“Ed è felice con lei?”
“Si, certo.”
“Può rassicurare se stesso in qualsiasi momento che l’ama? Perché lei l’ama ancora mi sta dicendo.”
“Sì, l’amo, l’amo ancora.”
“Ecco, appunto. S’immagini di averla davanti; lei potrebbe ben dirle che l’ama, che la rende felice, che quella graziosa cameriera vicino quel tavolo la turba sì, ma sa comunque ricondursi alla ragione perché lei l’ama. La sua fidanzata intendo, beninteso.”
“E’ così, sto con lei perché l’amo, nonostante…”
“…E mi dica, non ha mai avuto esitazioni, incertezze. Lei sono cinque anni filati che ama la stessa persona, mai un dubbio, un ripensamento?”
“E’ ovvio che dubbi ed esitazioni non possono mancare in tutto questo tempo. E anche litigi, battibecchi. Sono proprio queste riflessioni, che confermano vigore e forza al rapporto.”
Mi compiaccio della mia risposta e guardo con aria soddisfatta Aronta. Ma non si scompone e prosegue.
“Lei, dunque, è felice, perché ama ed è amato.”
“Sì, sono amato.”
“E questo non le ha mai causato scelte per lei sgradevoli, non le ha mai fatto venire l’assillo che da solo, o con un’altra, lei potrebbe essere più felice, o solo diverso?”
“Se così fosse non avrebbe più senso che io continuassi il mio rapporto con Sar… con la mia fidanzata.”
“Sara -si chiama così? Sì ho capito bene- è un dono che è stato fatto alla sua vita allora; ma mi dica come mai a me, e ad un intera altra moltitudine, non è riuscito di essere altrettanto gratificati dalla sorte? Cos’ha lei di tanto particolare da meritare la benevolenza degli dei?”
“Io sono felice con Sara.”
“Me l’ha già detto. Ma in cosa consiste la diversità di questo suo rapporto che vorrebbe sconfessare la mia esperienza e quello di cui ho finora fatto professione?”
“Se non ci amassimo non potremmo vederci, né abbracciarci, né baciarci.”
“Oh, non sia lubrico. Perché, il bacio è la somma testimonianza dell’amore?”
“E’ così. Ci amiamo.”
“Non si confonda. Le ho chiesto tante cose è vero, ma uno spirito limpido non si dovrebbe turbare mai.”
“Professore, non so dove voglia tendere. Ma non mi convincerà che il rapporto di coppia sia solo finzione e pulsione fisiologica. Questo deriva da una sua propria e personale conclusione che ha tratto da non so quali presupposti, che le assicuro nel mio caso…”
“…D’accordo, non si inquieti; si discuteva solo. E’ evidente che lei è uno dei pochi innamorati e felici.”
E’ evidentemente stanco della conversazione, taglia corto “Segua il mio consiglio almeno per il secondo e assaggi il roast beef, qui è davvero molto buono”.



VII

Mi aveva irritato Aronta? No, non propriamente. In realtà mi aveva spossato. Quelle domande penetranti richiedevano attenzione, e rispondere mi aveva seccato la bocca, per il troppo parlare. La nostra conversazione impoverì molto nel seguito della cena, almeno da parte mia, visto che Aronta era noncurante, come al solito.
Siamo tornati in albergo in taxi e, quando sono arrivato in camera e mi sono coricato in quel letto troppo spazioso per me solo, ho cominciato a pensare, ma differentemente a come mi ero abituato finora, liberato, come dopo una dura competizione di atletica; poi mi sono addormentato.

Questo è stato il mio arrivo e la mia prima notte a Bologna. Ora è mattina.
Il tempo è cupo ma asciutto, anche se il portiere, vedendoci uscire senza ombrello ci ammonisce a non fidarci.
“Un vero iettatore.”
“Penso volesse solo essere cortese, Professore.”
“Piuttosto, vediamo di prenderci un caffè decente prima di arrivare all’università.”
Io non bevo caffè, ma pur di non urtare la suscettibilità di Aronta, me ne faccio servire uno, con molto latte e zucchero. Almeno evito i commenti su come non ci si debba fidare di chi non beve caffè, vino e non fumi pipa o sigaro; lo conosco abbastanza da arginare i suoi aspetti più spigolosi.
Arriviamo all’università che già ricomincia a piovere. Aronta nell’atrio ha incontrato un suo collega di Pavia, Donati, che ho visto citato in qualche bibliografia dei testi del dipartimento; credo siano stati compagni di corso.
Aronta mi introduce brevemente lui e la sua assistente, poi si mettono a chiacchierare, allontanandosi verso le aule. Io resto vicino l’ingresso assieme alla mia “collega”.
“Ti va di uscire un attimo?”
“Sì, certo.”
Andiamo all’aperto. Si accende una sigaretta, e la cosa mi infastidisce: non sopporto il fumo, specie la mattina.
Ci scambiamo poche parole, di circostanza; da dove vieni, chi sei, dove hai studiato, cosa fai adesso, cosa farai.
Qualche minuto, poi spenge la sua sigaretta colla suola della scarpa, fa un cenno e si riavvicina al portico d’ingresso. Solo allora ho una scossa. Un piccolo gesto di attenzione verso le sue scarpe. Quel movimento, quello strusciare del cuoio sul suolo, la scarpa blu che danza per qualche secondo… e il rumore dei tacchi sul granito.
Il pallore del mattino, piovoso come la domenica che ci ha accolti, gli ombrelli che si aprono e si richiudono, le chiacchiere degli studenti, cancellano rapidamente questa sensazione, e, guardandomi un po’ spaesato intorno, rientro anch’io.
Aronta mi aspetta. Manca meno di mezz’ora al suo intervento e così ci dirigiamo verso l’aula.

La lezione termina poco dopo l’una e per il pranzo Aronta mi congeda per fermarsi a parlare con il preside della facoltà.
Mentre scendo le scale, vedo un poco più giù Donati e la sua assistente, e, quando si separano, non ho esitazioni nello scegliere chi seguire.
La raggiungo mentre entra in un bar molto affollato di studenti. Mi infilo fra due ragazze che mangiano un tramezzino e mi accodo alla cassa.
“Ciao, mangi un boccone?”
Mi riconosce e mi sorride; non me l’aspettavo.
“Ciao. Sì, ho un paio d’ore di buco, fino all’intervento di Donati.”
“Io ho già dato per oggi, per fortuna.”
“E’ andato tutto bene? Avrei voluto ascoltare Arunta…”
“…Aronta, ma tanto lo sbagliano tutti.”
Sorride, e di nuovo mi coglie impreparato.
“Per me un medaglione ed un succo d’ananas, e tu?”
Non mi sono accorto fossimo arrivati già alla cassiera.
“…una pizza col prosciutto ed un chinotto, ma faccio io, dai...”
Invece, insiste per pagare. Il tempo è davvero pessimo, ma almeno non piove. Le propongo di mangiare all’aperto, per evitare la calca.
Fuori c’è odore di bagnato, l’asfalto è fradicio, ma non mi dispiace questo clima, dopotutto. Sara mi dice sempre che sono in grado di essere felice con qualsiasi tempo ed in qualsiasi posto, ed è uno dei più bei pensieri che mi abbia dedicato, almeno finquando questo è stato vero.
Passeggiamo fino ad un giardinetto anche se le panchine sono troppo zuppe per sedersi.
Che ci stiamo dicendo di particolare? Effettivamente le stesse solite frasi di circostanza di prima, ma adesso, mi rendo conto, siamo più sciolti e disposti al discorso entrambi.
“Non ti ho chiesto quanti anni hai” le chiedo con curiosità.
“Indovina.”
“Ventiquattro?”
“Eh no, non ci siamo.”
“Ventidue?”
“Ne faccio trentuno il 17 Novembre.”
Trentun’anni ed un espressione da ragazzina. Sorride e sofferma per un poco il suo sguardo su di me.
“Beh, non ho certo impiegato poco a laurearmi; tu, invece, mi sembri molto giovane.”
“Insomma. Vado per i ventisei.”
“Sei stato svelto! Sei un piccolo genio?”
Parlottando prendiamo la via del ritorno. L’aria è sempre molto umida, finché si trasforma in pioviggine. Quando comincia ad aumentare, accelero il passo, sicuro che lei mi segua.
“Dai corriamo, altrimenti arriveremo fradici in facoltà.”
“E allora? È inutile cercare di evitare le gocce di pioggia, tanto ci si bagna lo stesso”
“…Cosa?”
“Su stavo scherzando, non sono un’asceta Zen. Sono solo reduce da una brutta storta alla caviglia, e non posso correre.”
Rallento anch’io, per cavalleria, e così arriviamo davvero all’università intirizziti.
Ah… ho dimenticato di dirvi una cosa essenziale; si chiama Anna.



VIII

Torno in albergo, e chiedo qualche informazione al suo riguardo ad Aronta, ma non sa dirmi molto. Ripensa al suo intervento e mi interrompe spesso per parlare delle domande che gli hanno rivolto e su come ha risposto.
“E così Donati lo conosce da tempo?”
“Sì, tanti anni…quel Navarrese, avrà capito il senso della mia obiezione?”
“Professore, e l’assistente la conosce?”
“Le è piaciuta, eh? No, non la conosco. Comunque domani devo stare più attento a lasciare più tempo agli interventi degli studenti.”
“Si chiama Anna, e mi sembra una valida ricercatrice.”
“Sì, già …”
Lo lascio ai suoi piani per l’indomani e me ne torno in camera. Sono appena le sei e comincio ad annoiarmi. Scendo alla reception e mi siedo su una larga poltrona in pelle della hall. Anna è in piedi vicino al banco della portineria e parla con un ragazzo. E’ appoggiata col gomito sul legno piano del bancone ed i capelli ricci le cadono in parte sul viso, coprendo un occhio. Ride spesso, e mi piace quel volto aperto, rasserenante, che non ha bisogno dello sguardo per essere espressivo. Si stringono la mano ed il ragazzo la saluta; poi ci guardiamo.
“Anna, che ci fai qui?”
“E’ il mio albergo.”
“Pensavo di essere l’unico dottorando con un simile privilegio.”
“No, anche Donati può permetterselo.”
Qualche altra parola e poi decidiamo di andare in un bar, per un aperitivo. Lei parla, ed io ascolto.
Il mio mestiere è fatto di parole, per lo più scritte. E’ gestito da meccanismi, da somme di regole e da eccezioni. Retori più illustri di me, nel medio evo, si sono perduti nel qualificare questo universo. Ma non si sono mai fermati ad ascoltarlo. Anna parla delle parole schiette, ed io sono qui a meravigliarmi di come sia bello, in questo tardo pomeriggio, in questa quasi sera, sentire le sue parole suscitare emozioni.
“Per cena devi stare col tuo professore?”
“No, è partito. Oggi pomeriggio era il suo unico intervento.”
“E tu, come mai sei restata?”
“Voleva seguissi delle relazioni domani.”
“Chi era quel ragazzo che ti salutava alla reception?”
Anna si gira per essere certa che sia andato via.
“Sei curioso?”
“Lo sono stato troppo?”
“Era un mio ex. Si chiama Filippo. Filippo Argenti.”
Il suo tono ha molta naturalezza quasi distacco.
“Anche lui dell’ambiente?”
“Sì, assistente di lettere antiche.”
“E’ già ricercatore?”
“Ha vinto il concorso un anno fa credo. A Pisa.”
“Siete in buoni rapporti?”
“Perché, dovremmo odiarci? Siamo stati insieme qualche mese. Poi è finita.”
“Non credo potrei rivedermi pacificamente con una persona con cui ho rotto.”
“E’ una risposta adolescenziale.”
“Non rimpiangi il tuo Filippo?”
“Mai. Non avrebbero potuto costruirla su di me, l’avventura di Orfeo. Io non mi sarei voltata.”
Che differenza col mio carattere… glielo confesso.
“Ti invidio. Io mi pento di tutto; e lo rimpiango.”
“Io non voglio capirti Bruno.”
“Che intendi?”
“Volontariamente o meno, mi stai fornendo un’idea di te. Ma non mi interessa di essere usata come uno specchio. Tu vuoi capirmi, vero?”
Le sue parole mi imbarazzano. Esito. Ma mi piace la piega che stiamo prendendo.
“Sì, vorrei capirti”
“Vedi, ora comincio a credere davvero che tu sia stato tanto svelto negli studi. Anche Filippo era come te, anzi forse migliore, dal tuo punto di vista. Laurea lampo e pieni voti. Eppure dopo sei mesi non ha saputo darmi più nulla. Voleva ad ogni costo qualcosa da me.”
“Cosa ti chiedeva di così fastidioso?”
“Perché mi fai queste domande?”
Mi azzittisco di nuovo. C’è della vanità in questa domanda, me ne accorgo, eppure voglio stare al suo gioco.
“Anna, io non riesco a seguirti pienamente. Sei troppo veloce per me.”
“Invece io son certa che tu abbia inteso il senso delle mie parole.”
“La tua frase sembra una reminescenza dantesca.”
“Ecco, il retore ha subito preso il sopravvento sull’essere umano.” Si toglie gli occhiali e mi dedica il suo sguardo intenso da miope. “Te lo spiegherò anche se ti è già chiaro. Filippo pensava di avere esaurito le risposte; fabbricava domande e si aspettava che fossi il suo oracolo. Ma non voleva responsi, esigeva conferme, anche se non l’ha mai ammesso. E non credo abbia fatto qualche passo avanti dalla nostra separazione.”
“Già, ma anche tu agisci per categorie di idee…” La fermo con gesto della mano mentre sta già per rispondermi “… aspetta non avere fretta, fammi finire. E’ vero, forse io non sono che un aggregato delle mie letture e degli schemi sintattici che ho studiato finora. Ma non sono così semplice da giudicare. Tu mi hai sorpreso, prima. Ma sei davvero priva di struttura come cerchi di farmi credere?
Hai detto bene, io voglio vendere un’idea di me, e, ancor di più avere conferme. Non so perché, ma sento che posso confidarmi con te.”
Si avvicina il cameriere, poggiando lo scontrino giusto davanti a me. Lo guardo di sfuggita, pronto a continuare, ma…questa interruzione, così naturale in fondo, ferma l’intimità che stavo creando con Anna. Mi rendo conto di parlare con una sconosciuta, e che forse la trovo interessante solo perché non sono abituato ai suoi modi. E poi, è davvero così originale?
“Dimmi, mi hai davvero incuriosito.” Mi guarda intensamente, stimolata dalle mie parole. Ma non me la sento di continuare. Un attimo ha distrutto quello che mi aveva affascinato: l’inconsueto; sento di avere varcato l’orizzonte di cui parlava Zenone, ed oramai è già giovedì prossimo.
“Che dicevo? Ah, in fondo è come dici tu.”
“Bruno, ma se stavi affermando il contrario.”
“Io ho un’amante, si chiama Sara.”
Non so perché le ho risposto così, ma si volge stupita.
“Cosa c’entra? Stavamo parlando d’altro.”
“No, si parlava d’amore, ed io sono infelice.”
“Mi hai preso per un confessore? Non credevo fossimo qui per fare una riunione di autocoscienza.”
E’ stizzita, fa per alzarsi.
“Aspetta, fuori piove” farfuglio qualcosa d’altro ed esco io per primo. Arrivato in strada mi rendo conto di non aver pagato.





IX

Come ho potuto guastare un clima così teso ed emotivo? Anna credo si aspettasse parole lievi ed anch’io ero sicuro di non desiderare altro. Dimenticare, baciare altre labbra, non è questa l’intenzione che mi anima da tempo, da quando sono comparsi i primi dubbi? Piove forte, ma io sono ben coperto, e di bagnarmi non mi importa granché. Stavo per condividere con lei pensieri intimi, ma non mi è così inusuale, riversare confidenze forti a qualcun altro. Non sono riuscito, però, a continuare.
Mi siedo sotto una pensilina dell’autobus. Con Zenone ho parlato spesso di temi profondi, ma, ora che ci rifletto, non sono mai stato naturale. Ho ripetuto schemi retorici anche se devo esser sembrato sempre sincero. Sì, doveva essere così: stasera stavo per confessare pensieri più liberi di quanto avessi fatto altrimenti. Era positivo, una crescita, perché, allora, non avevo proseguito?
Ad ascoltare queste parole volevo Sara. L’ho lasciata ferita dopo il nostro litigio, e questi giorni prima della mia partenza sono stati i peggiori del nostro rapporto. Volevo vedere lei seduta davanti a me in quel bar e non una sconosciuta da sedurre facendola sentire intelligente ed originale. In fondo anche Anna, come il suo ex amante, vuole attenzione e conferme. Ha detto delle cose genuinamente interessanti, ma avrebbero avuto lo stesso potere in una giornata di sole, a Roma?
Sara. Chissà cosa fa, cosa pensa dietro i suoi silenzi. Mi rimetto a camminare, con il desiderio di perdermi. I silenzi di una musicista. Un bell’ossimoro a scriverlo o pensarlo, eppure è una veritiera descrizione del suo carattere.
La pioggia mi ha completamente bagnato, ed i brividi di freddo mi formicolano nelle braccia e nel petto. Sono le sette e mezzo. Davanti a me c’è una chiesa, con la gente che esce dalla messa appena finita. Sono poche persone, e, scostando una signora con l’ombrello, entro.
La chiesa è spaziosa, antica di tre o quattro secoli. Tre navate, il transetto in coincidenza dell’altare e della piccola cupola: il volume è bello, ma guastato dagli eccessi degli ornamenti e dei soffitti.
E’ umido, non c’è vento, ma sento lo stresso freddo di fuori. Sono arrivato alla prima metà delle panche e prendo posto. Qualcheduno ancora si affaccenda ad uscire, aggiustandosi il soprabito. Due monache tolgono le candele consumate davanti ad una statua della Vergine.
Spingo la schiena contro il legno duro della panca e guardo gli affreschi sul soffitto della navata. Respiro profondamente. Si prova conforto in quest’attimo di transizione, tra la funzione appena terminata ed il restaurarsi dell’immobile silenzio dei santuari. Anna si era certo offesa, ma non dovevo curarmene più di tanto, probabilmente non l’avrei più rivista. Un prete sta uscendo dal confessionale. Mi avvicino.
“Padre, vorrei confessarmi.”
“Entra e siediti.”
Non chiude la tendina ed io mi inginocchio di fianco a lui.
“Da quanto non ti confessi?’”
“E’ molto. Anni.”
“Cos’è successo di grave in questo periodo?”
Parla scandendo con fatica. Gli dico qualche frase riguardo all’incertezza in cui mi trovo. Annuisce mentre recita inintelligibilmente qualche preghiera, facendo scorrere i grani del salterio in mano.
“Io...mi scusi forse sono stato avventato a venire da lei. Ritornerò con la mente più fredda.”
“Come vuoi.”
Mi ricompongo e mi allontano. Il prete aspetta che mi avvicini all’uscita, poi si alza nuovamente e va piano verso la sagrestia. È più anziano di quanto mi fossi accorto.
Sembrava recitare le sue formule a prescindere dal penitente, ed io volevo, invece, un coinvolgimento tutto per me. Sono più di dieci anni che non mi confesso, da quando ne ero obbligato all’istituto. Stavolta avrei potuto credere davvero al destino: entrare per caso in chiesa, l’animo afflitto, l’ultima confessione della sera... ma anche qui non c’è destino. Non che mi aspettassi la felicità con l’assoluzione, ma qualche parola profonda su cui riflettere, un ammonimento a riprendere una moralità che mi avrebbe indicato, un rimprovero. Fuori la pioggia ha ricominciato a battermi il viso. Magari aveva capito che volevo solo parlare e non ricorrere ad un atto mistico. Forse è solo un vecchio.
Il buio è oramai completo, ed ho voglia di scaldarmi e di mangiare. I ristoranti in questa via non mancano, e sembrano molto ospitali. Dovrei telefonare a Sara, sono quasi ventiquattr’ore che non ci sentiamo. Entro in una birreria, c’è un fumo soffocante, è piuttosto piena, e c’è un bel caldo; ma, soprattutto, accanto allo sgabello del bancone dove mi siedo, c’è Filippo Argenti.
Sta finendo il suo boccale e giocherella con il sottobicchiere di cartone.
“Tu sei Filippo?”
“Ci conosciamo?”
“In verità non proprio, ma sono anch’io qui a Bologna per la conferenza all’università.”
“Hai presentato qualcosa?”
“No, non io. Il mio professore, Aronta.”
“Aronta…E’ ordinario a Roma mi pare.”
“Sì, insegna alla Sapienza, io gli faccio da assistente, ma non sono ricercatore. Ancora.”
“E cosa fai a zonzo per Bologna? Come ti chiami, scusa?”
“Bruno. Non ci crederai ma ho incontrato una tua amica; è per questo che ho attaccato discorso.”
“Amica? Chi?”
“Anna, non so il cognome. E’ qui con Donati.”
“Mi parevi, infatti, familiare. Eri nella hall del Baglioni.”
“Già, ed ero geloso delle attenzioni che ti dedicava.”
“Senza motivo. Non siamo più neppure amici.”
“Non è quello che mi ha detto lei. Non ti serba rancore da quando ti ha lasciato…”
“Ma se l’ho lasciata io. Più di un anno fa. Mi faceva scenate di gelosia insopportabili.”
Si alzano due ragazzi da un tavolino accanto a noi. Filippo prende la sua birra e si siede.
“Sei un originale, sai?”
Mi accomodo anch’io mentre una ragazza si avvicina a prendere le ordinazioni.
“Per me una chiara.”
La ragazza si allontana.
“Sicché, Anna ti ha parlato di me.”
“Non che tu sia stato l’argomento principale di discussione. Mi ha detto che avete avuto una relazione, con qualcosa d’altro. E ha mentito, a quanto dici.”
“E’ normale che sia andata così. Se ti avesse detto che ci salutiamo a stento non avrebbe tenuto lo stesso fascino. L’ho incontrata solo per ragguagliarla sulla mia relazione di oggi, dato che il suo professore glielo aveva chiesto. Ti piace?”
“Non proprio, con lei ne ho combinata una delle mie. L’ho invitata a prendere un aperitivo, affascinato dai suoi sorrisi, ma non sono riuscito a farmi conquistare interamente.”
Filippo si accende una sigaretta, un gesto che non ammette repliche: in quell’ambiente sono io ad essere fuori luogo.
“Tu ce l’hai una ragazza?”
“Sì. Stiamo insieme da diversi anni.”
“Perché te ne vai in cerca di una relazione, allora?”
“E’ un momento di incertezze. Non so più se quello che faccio sia giusto.”
“Anna non è, comunque, la risposta. Troppo imbastita di idee esoteriche: l’impossibilità di rappresentare se stessi in maniera onesta, la ricerca di una felicità che non sia definibile… tutte maschere per rendersi più attraente.”
“Sì, forse è un atteggiamento, ma non credo che la sua sia tutta dissimulazione.”
“Non credere neppure che sia travaglio interiore. Dopo tre mesi ne sei già stufo. Avrei dovuto lasciarla anche prima.”
“Di che ti occupi esattamente a Pisa?”
“Greco. Passo per un eccellente traduttore dei poeti dell’Asia Minore. Specialmente Archiloco.”
“Archiloco ed Ipponatte. I due poeti maledetti dell’antica Grecia. Non ti annoi di sicuro.”
“No, infatti.”
“Adesso stai con qualcun’altra?”
“Sto con una ragazza di Pisa, che ho incontrato due o tre mesi fa.”
“Non mi sembri molto innamorato.”
“Ma vai in giro a sondare le coscienze di tutti gli sconosciuti di Bologna?”
“No, scusami.”
“Non ti scusare. In fondo è vero che ispiri confidenze. Allora, commissario, cosa vuoi sapere? Se sono Faust o Mefistofele? So di deluderti ma né l’uno né l’altro.
Sono un grecista perplesso sul suo futuro, che lo vede ambire alla carica di Ordinario prima dei 35 anni. Bevo poco, fumo molto e do’ corda agli sconosciuti.”
Restiamo un attimo in silenzio. Filippo continua a fumare, risponde, ma è distratto. Mi guarda in faccia solo a tratti. Gli parlo di nuovo.
“E di cosa dubiti? Siamo coetanei e sei già ricercatore.”
“Credo di essere più vecchio. Io ne ho ventotto.”
“Io quasi ventisei.”
“Visto? Puoi dormire tranquillo ora. Riuscirai ad equipararmi, e non dovrai più essere invidioso.”
“Non credo. Aronta non mi appoggia pienamente…”
“…e senza appoggio niente posto.”
“Ma vale proprio la pena di faticare per la carriera accademica?”
Filippo sorride, e mi guarda, con i suoi begli occhi azzurri.
“Cos’altro sai fare a parte tradurre all’impronta Seneca ed Omero?”
Resto un po’ interdetto prima di rispondere. “Non è un problema di cosa non sai fare. Il resto si impara.”
“Cosa si impara? E quale resto? Mi sembra un po’ vago.”
“Se sei così deciso, qual è il tuo problema?”
“So quello che non potrei fare. Non mi pare un buon motivo per essere sereni.”
Le sue risposte non sono chiare. Questa reticenza lo rende interessante e lo interrogo ancora.
“Cosa ti ha indirizzato alle lettere antiche?”
“Ho fatto il classico, con ottimi risultati. Ero la gioia dal mio professore di italiano. Già in seconda liceo sapevo quasi l’intero Inferno a memoria. Credo di non aver nemmeno dovuto scegliere. Un attimo e mi sono trovato in Facoltà.”
“E ora ti vien voglia di rinnegare tutto?”
“Perché no? Mi piacerebbe stupire qualcuno, a cominciare da me, scegliendo una vita ed una professione insolite.”
“Mi sembri molto piantato a Pisa, però.”
Si alza, va vicino alla cassa e paga per entrambi.
“Vieni” mi passa una mano sulla spalla mentre mi alzo anch’io “Facciamo quattro passi che ha ripreso a piovere.”



X

Si riaccende una sigaretta sotto la tettoia della birreria. Piove a scrosci. Lo guardo incredulo.
“Ma sei impazzito? Ci infradiceremo.”
“No, ho un ombrellino nella tasca dell’impermeabile.”
Il fumo della sigaretta si diffonde nell’aria rarefatta.
“Forse non hai tutti i torti, ci infradiceremo.”
Lo riguardo per capire se sia serio.
“D’accordo, non fare quello faccia da martire. Il mio albergo è proprio qui, sali finché non è spiovuto.”
L’acqua scorre forte sull’asfalto mentre attraversiamo la strada. Entriamo spingendo una resistente porta a vetri. La hall è illuminata da un grosso candeliere a soffitto, emanando una intensa luce gialla. E’ un ambiente grande, con qualche mobile ricercato posato qua e là, ed il bancone della reception giusto di fronte la porta ed a fianco delle scale. Il portiere veste giacca e cravatta, ma non tiene il confronto con il lusso del mio albergo. Me ne compiaccio.
“Vieni, è al secondo piano, non c’è l’ascensore.”
Filippo sale lentamente, con il soprabito bagnato poggiato sull’avambraccio. E’ vestito semplicemente, con pantaloni di velluto ed un maglione a scacchi a collo alto. Io sono più agghindato e meno importante.
“Entra, entra. Accomodati su quella poltrona mentre lascio l’impermeabile in bagno.”
Mi siedo sulla poltrona a braccioli, accanto una piccola scrivania, mentre lui si siede sul letto. Rientrato dal bagno, giocherella con il cassetto del comodino, finché non ne estrae un libro.
“Che stai leggendo?”
Ride. “Niente. Non leggo mai in servizio. Questa è la Bibbia in edizione alberghiera.” La sfoglia a caso, così almeno mi pare.
“Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse “seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì.”
Mi guarda fisso, senza parlare, come per incrociare il mio sguardo, ma è un attimo. Poi riprende.
“Forse non desideriamo altro che questo. Che qualcuno ci chiami dal banco su cui ci stiamo affaccendando. Su un’attività vile, inutile, ma che ci prende tutto il nostro impegno. E’ un po’ che ci penso e… se non ci fossero più profeti? Se restasse solo da fare gli apostoli?”
Ancora silenzio; disagevole.
“E allora vorrei che mentre siedo sulla cattedra, leggendo i versi di qualche greco morto più di duemila anni fa, con gli studenti che ordinatamente annotano i miei commenti, mi si toccasse sulla spalla e… mi trovassi fuori.”
“Non credevo fossi anche un mistico.”
“Non lo sono.”
Si alza e va verso la piccola finestra accanto a me. “Non credo che smetterà. Forse ti conviene andare comunque.”
“Domani hai un intervento?”
“Un’oretta al pomeriggio.”
“Cosa intendevi con trovarti fuori?”
“Beh… lontano. Da luoghi e pensieri.”
“Con Anna ne hai mai parlato? Sarebbe stata felice di queste introspezioni.”
“Ancora Anna. Ti ho già detto che è troppo piena di sé per accogliere gli altri. E poi cosa credi? Le ho scritto poesie, lettere, lei me ne ha scritte altre. La vita passa Bruno, non si può rimanere ancorati a persone che abbiamo già vissuto. Anna sapeva di questi miei pensieri, e forse li ha anche apprezzati quando li ho condivisi; adesso ci siamo separati, ognuno è di nuovo padrone delle sue emozioni.”
Si accende una sigaretta. “Sei davvero una persona inquieta. Qualcuno meno avvezzo alle lettere potrebbe anche scambiarla per profondità; ma mi sembra solo inquietudine: parli poco e fai confessare molto. ”
La stanza si riempie rapidamente delle volute di fumo, verrebbe voglia anche a me di prendere una sigaretta. Fino adesso mi ha dato le spalle, con la mano che scosta la tendina, poggiata al vetro della finestra, per guardare fuori. Si volta verso di me e mi dà uno sguardo rapido. Si siede nuovamente sul letto, senza guardarmi.
“Se vuoi saperlo ci sono pensieri più terribili del senso della vita, del gioco dei perché che stai facendo. Sapresti legare una sera come questa a qualsiasi altro brandello di giornata? Sapresti trovare la spiegazione del disagio in cui mi sono trovato per più giorni dopo una discussione apparentemente innocua con uno studente che ho bocciato agli esami del mese scorso?”
“Che vuoi dire? Non ti capisco. E chi ti ha detto che faccio il gioco dei perché?”
Si riavvicina alla finestra. “Decisamente pioverà tutta la notte. Mi faccio un bagno caldo e mi corico.”
“Non mi hai risposto”
“Ma che ne so… sarei ordinario alla Sorbona se il mio eloquio fosse sempre lucido. Magari vieni a sentirmi domani. Sono all’aula Lamberti.”
“Sì, se ho tempo verrò. Ti ringrazio della birra; e della compagnia.”
“Salutami Anna se la rivedi.”
“Non mancherò. Ciao.”
“Ciao.”
Mi accompagna alla porta e mi saluta. Scendo i gradini e mi avvicino al portone, mentre il concierge mi augura buona serata con cortesia. Rispondo con affabilità anch’io.
Fuori, in realtà, non piove quasi più, e mi fermo sul marciapiedi di fronte, per capire dove debba andare. Al mio albergo ci vorrà un chilometro scarso. Mi avvio verso la piazza che si intravede in fondo al viale. I lampioni la illuminano con fermezza, i palazzi sono ben visibili, muti; c’è parecchia gente che cammina.
Filippo. Coinvolgente, profondo. Nel congedarmi è stato ruvido, però, anche un po’ sgradevole. Quella fretta con cui mi ha mandato via, chissà perché.
Ci sono due ragazze che mi affiancano nella strada. Si fermano, una racconta qualcosa di un certo Piero e l’altra ride, prima ancora che abbia finito di ascoltare. E se Filippo avesse fatto la stessa cosa? Si fosse preso gioco di me, da quando gli avevo parlato in birreria, con tutte le mie assurdità?
Non sono pochi i pensieri che mi si accavallano in testa. Oggi mi sono quasi innamorato e fatto fare un sermone da uno sconosciuto. Entrambi mi hanno parlato e cercato di condurre da qualche parte. Si sente ancora la risata della ragazza. Mi volto e vedo che hanno ripreso a camminare. Filippo col suo dire e non dire, si era fatto beffe di me. Addirittura il vangelo, e la concione su cosa era importante nella vita. “Sei un originale … un inquieto … ci vogliono apostoli e non profeti”. Vorrei tornare su da lui. Mi fermo indeciso. Incrocio lo sguardo curioso delle due studentesse. Una mi sorride e mi saluta. Le rispondo, mi è rimasta voglia di parlare. Mi rivolgo all’amica.
“E’ sempre così allegra?”
Ridono entrambe e si allontanano in fretta. Le ho spaventate? Mi specchio nella vetrina accanto il marciapiedi. Riflette me, il lampione di fronte e l’asfalto lucido, reso più nero dalla pioggia.
Sara, ma mi manca davvero? Quel moto di tenerezza di oggi, il desiderio di aprirmi e parlare con lei, c’è ancora? Non è solo il fatto che siamo lontani, che posso desiderarla perché non ho di fronte i suoi occhi?
Né Anna né Sara forse è questo che devo credere.


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Cristalli

Estratto dall'opera Cristalli
di Monica Valentini


Il vento forte fece alzare le foglie secche, raccolte ai piedi degli alberi, in mulinelli gialli, verdi e marroni, per poi farle ricadere piroettando in mezzo alla strada.
Nel quartiere più povero e malfamato della città, vicino ad un sacco di rifiuti, un cane ed un gatto si stavano fronteggiando per accaparrarsi un pezzo di carne putrefatta. Entrambi ridotti a pelle ed ossa, si studiavano guardinghi per scovare un punto debole nell'avversario, prima di scontrarsi ed uscirne vinto o vincitore: il perdente avrebbe rinunciato al magro pasto e molto probabilmente non sarebbe arrivato fino a sera. Ed una volta morto, sarebbe diventato a sua volta pasto per altri animali selvatici.
Un gruppo di bambini stava giocando ai banditi in mezzo alla strada, vestiti di stracci, noncuranti del freddo che gelava le ossa, ripetendo scene di film ed immedesimandosi nel personaggio e se c'era da fare a pugni non si tiravano indietro, picchiandosi a sangue. Era un modo come un altro per dimenticare la fame.
In quel quartiere la polizia se ne stava appostata ad ogni incrocio, in ogni via, perché quello era il regno della delinquenza, della malavita, della degradazione umana.
Il ragazzo chinò la testa alla vista di una pattuglia ed imprecò sommessamente. Per un attimo pensò di cambiare strada e di eluderla come aveva fatto con una precedente, ma era stanco e voleva tornare a casa. Uno dei tre poliziotti di ronda, armato di manganello, con il giubbotto antiproiettile ed il casco in testa, gli si avvicinò e lo fermò.
-Ehi, Mohican. Dove te ne vai in giro con quella fottuta aria da colpevole? Cos'hai combinato?-
L'interpellato fissò i propri occhi in quelli del poliziotto e sorrise con sarcasmo.
-Passeggio. E' forse vietato?-
L'altro serrò le labbra ed alzò il manganello, portandolo sotto il mento del ragazzo.
-Vedi di non farmi girare i coglioni, o ti darò una ripassata che non scorderai per tutta la tua vita di merda!- sibilò tra i denti.
Lo guardò con disprezzo, quindi gli indicò la macchina.
Con aria strafottente, Mohican poggiò le mani sulla volante ed allargò le gambe per la perquisizione. Dentro di sé sorrise divertito, ripensando a quando aveva lasciato i suoi coltelli a Josh prima di seguire la ragazza. Sapeva che sarebbe andata a finire in quel modo: di giorno non si poteva girare per strada senza venire fermati ad ogni incrocio, ma di notte... Di notte sapevano come eludere le pattuglie: le tenebre erano il loro regno.
-E così non hai un cazzo di niente addosso, eh?-
Mohican si girò e sorrise con aria serafica, alzando le spalle e replicando:
-Quello ce l'ho e l'hai anche tastato bene.-
L'uomo impallidì e con stizza soppesò il manganello, sentendo una folle rabbia omicida invadergli il corpo, fino ad ottenebrargli la mente.
-Vattene, stronzo, o giuro che...-
-Che mi ammazzi?- finì per lui, sogghignando. -Via, O'Keeffe, l'hai ripetuto tante di quelle volte che mi ci sono abituato. Se tu avessi sempre accompagnato i fatti alle minacce, il cimitero ora sarebbe pieno solo del mio cadavere! Ci vediamo, sbirro!-
-Maledetto bastardo figlio di puttana!- imprecò con stizza.
Ma prima che potesse avventarglisi contro, uno dei suoi colleghi lo trattenne e cercò di calmarlo. Mohican lo fissò gelido, quindi, con passo sostenuto, riprese il cammino, alzando il bavero del giubbotto dove, sulla schiena, spiccava l’effigie di un lupo.
Alle spalle di un palazzo di sei piani prendeva il via una serie di case abbandonate, fatiscenti, con i muri infiorati da disegni e frasi oscene ed a contatto con queste un grande prato senza alberi, anch'esso lasciato in abbandono. E lì, nell'ultima casa a ridosso del prato, c'era il covo dei Wölfe.
Mohican vi si diresse con passo sicuro ed il volto sorridente, immaginando la faccia di Siegfried alla buona notizia. Entrò in casa e si diresse immediatamente alla botola nascosta che conduceva ad un bunker sotterraneo.
Come iniziò a scendere le scale, undici teste si voltarono contemporaneamente a guardarlo e, dove un attimo prima aveva regnato la confusione più assordante, calò un improvviso silenzio.
I dodici componenti dei Wölfe erano tutti ragazzi tra i diciotto ed i ventitre anni, a parte due, tra cui Josh il loro capo, che si avvicinavano alla trentina. Tra tutte le bande di teppisti che infestavano il quartiere, i Wölfe erano considerati i più efferati ed i più cinici. Il loro nome incuteva timore a tutti, anche al più recidivo dei delinquenti ed essendo il gruppo dominante, venivano odiati e rispettati con freddezza. Da tempo, ormai, esercitavano il dominio su tutti gli altri gruppi e se capitava che qualcuno avesse delle noie da parte di questi, si rivolgeva a loro per ottenere protezione o vendetta.
Il loro potere era totale: per arrivare ad essere i capi indiscussi del quartiere avevano dovuto lottare contro tutte le bande rivali e vincerle ed ora, giunti sul gradino più alto, se ne stavano relativamente quieti, dominando dall'alto tutte le situazioni. Difficilmente qualche gruppo trovava il coraggio di affrontarli apertamente e se lo facevano, i Wölfe li eliminavano subito, non perdendo l'occasione per cementare la loro superiorità e la loro crudeltà, incutendo maggior timore e soggezione negli altri, tanto da lasciar credere che mai nessuno sarebbe stato in grado di detronizzarli.
Al di sopra di loro c'era solo la malavita organizzata, a carattere mondiale ma, a differenza di questa, che agiva di nascosto operando droga, prostituzione, gioco d’azzardo, armi ed estorsioni, i Wölfe agivano senza celarsi, commettendo le più atroci barbarie anche alla luce del giorno.
I nomi dei dodici componenti erano conosciuti da chiunque, soprattutto dalla polizia, che cercava in ogni modo di poterli incastrare e rinchiudere una volta per tutte in penitenziario. Ed era questo, più della loro crudeltà, che invitava gli altri delinquenti a rispettarli: quello di non essere mai stati fermati ed arrestati. Pareva si divertissero a prendere in giro le autorità, commettendo delitti e furti senza lasciare prove o testimoni che potessero incolparli. Per questo motivo la polizia ce l'aveva a morte con loro.
Gli occhi di Mohican si posarono su tutti, quindi inspirò soddisfatto e sorrise. Afferrò il panino che gli offriva Nik e andò a sedersi vicino a Siegfried, che lo guardava con totale distacco.
-Tieni, Mohican. Hai incontrato gli sbirri?- s’informò Josh porgendogli i due coltelli.
Il ragazzo li prese e se li mise in tasca, poi addentò il panino e rispose:
-Sì, O'Keeffe. Mi ha perquisito.-
Karl, l'altro componente più anziano, sogghignò e andò a stendersi sul divano, mormorando con indifferenza:
-Quel fottuto sbirro ha l'aria troppo bellicosa.-
-Già. Penso sia giunta l'ora di dargli una buona ripassata.- propose Japaner, un giapponese di diciannove anni che portava sempre un paio di occhiali scuri e che, di tanto in tanto, si perdeva in concentrazioni antiche di millenni, a testimonianza che, benché si trovasse in occidente, era pur sempre un orientale che amava gli antichi costumi del suo popolo.
-Sì, ma non lui. Sapete che si è sposato da poco?- esordì Peter con un sorrisetto lascivo che non lasciava spazio all'immaginazione.
I Wölfe sogghignarono divertiti e Stefan si alzò dalla sedia, sbadigliando e spegnendo la canna che teneva in mano.
-Scommetto che la mogliettina è una figa capace di seccarti le palle e sai pure dove abita, vero?- osservò ironico.
Il sorriso di Peter non lasciò dubbi in proposito.
Infine Mohican si alzò e, terminando di mangiare l'ultimo boccone del panino, fece tacere tutti.
-Ok!- esclamò. -Qui al mio fianco c'è qualcuno silenzioso, ma che attende una mia risposta e che mi sta fissando con i suoi occhiacci grigi.-
-Dacci un taglio.- l'ammonì Josh, che ben conosceva il carattere di Siegfried.
-Ok, ok! Ho seguito la ragazza.- iniziò ed osservò tutti i presenti, uno ad uno, rimanendo in silenzio quanto bastava per dare più enfasi alla notizia. -So dove abita.- e sorrise compiaciuto.
Siegfried rimase in silenzio, sondandolo con lo sguardo e bastò solo questo a far desistere Mohican da quel gioco.
-Agli alloggi dell'università.-
-Ti ha visto mentre la seguivi?- s'informò Josh.
-No, Cristo! Non mi faccio fregare come un coglione, io!- esplose punto nell'orgoglio.
Siegfried passò una mano in mezzo ai lunghi capelli biondi e si voltò verso Josh.
C'era di nuovo silenzio nel covo: tutti attendevano la decisione del loro capo. Da quando Laura aveva portato la notizia, Siegfried aveva deciso di andare a riprendersi la sorella ed ora che sapeva dov'era, attendeva solo il consenso di Josh.
Ma questi non accennava a volersi pronunciare. Rimase a lungo a fissarlo, chiedendosi cosa fosse successo all'improvviso. Cristo! Ti ho sempre visto duro e spietato con tutti, sempre pronto a vendicarti nella maniera più crudele per un semplice insulto e ti sei dimostrato sempre inflessibile anche quando noi eravamo tentati a lasciar perdere. Che ti succede ora? Perché vuoi tua sorella?
Terminò di fumare la sigaretta ed alzò le mani in segno di resa. Siegfried non fece un cenno; si limitò ad annuire impercettibilmente.
-Non cantar vittoria troppo presto, Dagr!- l'avvisò Josh con tono sprezzante. -Tua sorella l'accoglieremo come una nostra sorella, ma se solo vedo rincoglionirti lei farà dietro-front, chiaro? Non so che cazzo farmene di frocetti rammolliti!-
Siegfried gli lanciò uno sguardo indifferente e tornò a sedersi sulla sedia, giocherellando con il suo coltello a serramanico, con una calma glaciale.

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