venerdì 30 novembre 2007

Le Parole, i ricordi e l'Inganno

Parte prima dell'opera Le Parole, i ricordi e l'Inganno
di alexis grigoriadis




Era tanto tempo che non guardavo la città dall’attico di Sara sotto un sole così magnifico. Sto fuori, con un piede appoggiato su un vaso, le braccia sulla ringhiera, i pensieri intiepiditi dallo spettacolo torpido e dolce di una città esanime, addormentata alle due del pomeriggio. Sara è la mia amante. Ci siamo conosciuti cinque anni fa. La intravedo dalla finestra semiaperta del salone, scalza, che beve lentamente un fondo di vino rosso da un bicchiere rimasto sulla tavola e guarda fuori, ma non mi vede. Mentre è così distratta, posso raccontarvi perché sono qui oggi, di come l’abbia conosciuta e, soprattutto, perché siamo infelici.
Io sono assistente all’università, facoltà di lettere. Mi occupo di retorica. Sono stato un enfant prodige: maturità classica a pieni voti a 17 anni, laurea con lode in lettere antiche a 22, borsa di studio per un dottorato di ricerca e poi… basta. In verità sono stati gli altri a credere che fossi un ragazzo prodigio. Li ha abbagliati la velocità con cui perseguivo i risultati scolastici, la mia educazione formale, la disinvoltura con cui intrattenevo i miei interlocutori. Eppure più andavo avanti più sentivo che un grande genio non ero, piuttosto una persona di buona intelligenza, con una memoria prodigiosa e perché no, fortunata.
L’ho conosciuta all’apice della mia gloria, Sara; al secondo anno di università. Suonava il pianoforte, si era appena diplomata al conservatorio. Siamo quasi coetanei, non era stata una studentessa modello: nel tempo che io terminavo la metà dei miei esami lei doveva ancora decidere se intraprendere l’esperienza universitaria e a quale facoltà approdare.
Scrivevo delle belle poesie, allora, con tanto Ovidio e Verlaine dentro, ma erano in ogni modo forti, incisive, da persona che abbia conosciuto a fondo l’amore. Gliene feci leggere una che la colpì molto.
Me ne ricordo l’ultimo verso, di grande effetto: “… per sostituire al movimento la perfezione del dolore”.
Mi sono accorto successivamente che i musicisti amano l’eloquenza strutturata, analitica e rigorosa. Un trattato, una scultura, un quadro, sono uno spartito che va composto secondo canoni ortodossi, morali. Sara ama Canova ed i bronzi di Riace, ma darebbe alle fiamme il Gargantua e Pantagruele e Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta.
Ma come sempre sto perdendomi nella congerie dei ricordi dimenticandomi l’essenziale: come e perché ci siamo amati.
E’ stato bellissimo, con la benedizione del freddo di capodanno. La serata era a casa di comuni amici, io di Michele, lei di Francesca, la fidanzata. Gli ospiti erano tanti –la casa del mio amico è più un castello che una villa- e ci eravamo divisi in piccoli gruppi aspettando che si facesse mezzanotte per brindare il nuovo anno.
Durante la cena avevo bevuto molto, ed ora ridevo animatamente con dei vecchi compagni di liceo. Ridevo molto, con quell’allegria artata cui ti induce l’alcool, ma che ti lascia la coscienza che si tratta di una gioia adulterata, ottenuta chimicamente.
Presto mi sono stancato della conversazione ma soprattutto della consapevolezza di non essere né sobrio né ubriaco.
Andai un poco fuori al balcone, sapendo che avrei trovato conforto nell’aria gelida. Era una grande terrazza, sotto di cui si stendeva il parco della villa. Mi appoggiai alla ringhiera con i gomiti, nella stessa postura con cui ho cominciato a raccontarvi la mia storia. E’ strano, ma quelle tenebre di gelo e di silenzio mi sono rimaste nel cuore. Ora come allora sto guardando nel vuoto, ma mi mancano quei pensieri, quel secco filare di rose che si sviluppava appena sotto il balcone, e i rumori provenienti dalla casa, attenuati in un brusio remoto ed indefinito.
Quando sono rientrato c’era meno confusione, un buon numero di persone stava vicino ad un pianoforte dove suonava una ragazza. Vedevo le sue spalle muoversi decise, ed ogni tanto una mano fuggire sulla parte estrema della tastiera.
Mi sono fermato così, a grande distanza, ad ascoltare questa musica a me del tutto ignota. Credo che la pianista si fosse preparata a questa eventualità, perché il suo vestito era perfetto: un complemento elegante e sinuoso del pianoforte. Era nero, senza sfumature o cedevolezze, stretto in vita e con una lunga, morbida gonna. I capelli raccolti lasciavano che le spalle nude risaltassero. Era splendida, perduta nell’oscurità lucida del pianoforte. Durante tutta l’esecuzione non ho pensato neppure per un attimo che quella figura austera e severa che governava quei suoni potesse avere un’anima; per me umana e femminile era solo quella poca carne che mostrava, immersa in uno strumento che ne possedeva la volontà.
Suonò per altri pochi minuti, poi mentre gli altri applaudivano si alzò, e quella ragazza che ancora non sapevo fosse Sara, che non sapevo avesse gli occhi chiari, si voltò completamente e mi guardò dal fondo della sala.



II

“A cosa pensi così assorto?”
E’ Sara che è uscita sul terrazzo con ancora il bicchiere di vino in mano.
“A niente.”
“Sei tu che mi hai insegnato che non è possibile.”
E’ vero, ma non le ho detto che la consapevolezza di essere non ci obbliga alla sincerità.
“Pensavo a noi, a quando ci siamo conosciuti.”
“Quando mi amavi ancora?”
“Lo sai che ti amo anche adesso.”
“No, non lo so, e tu non fai niente per convincermene.”
“E tu a cosa pensavi con il tuo calice in mano?”
“Pensavo che ho quasi 26 anni ed è ancora tutto così lontano. La laurea, la musica, noi due.”
“Non è il caso di essere così tragici, soprattutto con questo sole.”
“Il sole non mi scalda ed il vino non mi intenerisce.”
Posa il bicchiere sul tavolo e mi guarda con i suoi occhi limpidi, sempre severi. Eppure…
“Vado da Zenone” le dico per far cessare il silenzio fra noi. Annuisce e se ne torna in cucina.
Non mi diverto a sviare il discorso da noi due, ma ho paura di un’altra discussione, di un confronto fra quello che eravamo e quello che siamo, fra quello che ero e quello che sono.
Scendo le scale e mi chiudo il portone alle spalle.
Zenone abita poco lontano ed è un mio caro amico, del tutto irresoluto ed irresponsabile. Ha cambiato tre facoltà: filosofia, ingegneria e da ultimo si diletta nella fisica, “scelta felice e perfetta” come ama ripetermi. Peccato dicesse lo stesso delle altre due.
Arrivo a casa sua, busso, ma non mi apre nessuno. Oggi aveva lezione all’università. Tutto il giorno. Me ne sono dimenticato. Non mi va di tornare da Sara, e neppure da me. Decido di raggiungerlo in facoltà.
Con la metro si arriva subito a quest’ora, neppure venti minuti. Non ci sono molte lezioni il sabato pomeriggio, dev’essere nell’aula a piano terra o a quella al secondo piano, da quello che leggo in bacheca. Provo con la prima. Entro da una porta laterale e mi siedo in ultima fila. Accanto a me c’è un ragazzo che prende appunti, non mi presta attenzione. Guardo se intravedo Zenone. Non sono in tanti, e, qualche posto più avanti, riconosco la sua barba. Il professore sta rispondendo ad una domanda, non mancherà molto alla fine, ascolto e aspetto.
“Dunque, Professore, l’orizzonte è il luogo dove la velocità di fuga eguaglia la velocità della luce?”.
“Esattamente. Se lei si avvicinasse con un’astronave ad un corpo celeste, mettiamo una stella, se la sua velocità –che è appunto detta velocità di fuga- è superiore alla forza di attrazione di quella stella, riuscirebbe senz’altro a sfuggire al suo campo gravitazionale.
Proseguendo nell’esercizio di fantasia, ora, immagini che la stella abbia una forza tale da impedire anche alla luce di fuggire dal suo campo gravitazionale, ci troveremmo nel paradosso di essere in un buco nero.”
Si ferma un attimo, squadra la platea da sotto gli occhiali spessi e poi prosegue. Si sente solo il rumore di qualche biro sui fogli.
“Dato che nessun corpo può violare la velocità della luce, non è possibile in alcun modo generare abbastanza velocità per sfuggirgli. Si troverebbe, allora, nell’orizzonte. Non importa quanto sia veloce la sua astronave, una volta entrato nell’orizzonte, non può più uscirne. “
Fa un’altra pausa. Guarda un paio di studenti seduti in prima fila, e poi riprende.
“E’ da questo momento che avviene la distorsione tra spazio e tempo. Così la coordinata che descrive la distanza dal centro diventa una variabile che dipende dal tempo, mentre il tempo diventa una coordinata spaziale. Qualcuno di voi sa dirmi cosa comporta?”
Una ragazza alza la mano e risponde.
“Che non può evitare di avvicinarsi sempre di più al centro di attrazione.”
“Esatto, così come non può impedire al tempo di scorrere. Si tratterebbe, né più né meno, che cercare di evitare che arrivi giovedì prossimo.”
C’è uno scoppio d’ilarità in aula. Forse i fisici hanno un loro umorismo particolare. Dopo qualche altra raccomandazione, la lezione termina. Si alzano tutti disordinatamente per uscire. Mi faccio avanti anch’io per raggiungere Zenone. Gli arrivo alle spalle e gli tocco la schiena. Si volta piano e mi squadra
“Che ci fai qui?”
“Sono venuto a cercarti. Hai finito?”
“No, magari. Fra un quarto d’ora ho un’altra lezione.”
“Ti va di parlare un po’?”
“Hai litigato con Sara?”
“Quasi. Le solite.”
“Che è stato stavolta?”
“Ce l’ha con me. E’ normale e poi all’improvviso si rabbuia e non parla più.“
“Oramai è quasi un anno che andate avanti così. Almeno litigaste davvero, così avreste una ragione per discutere.”
“Le ho detto che venivo da te. Se ti chiede qualcosa tu conferma tutto.”
Ci fermiamo sul pianerottolo, vicino la macchina del caffè.
“Vuoi qualcosa?”
“No ti ringrazio, ho appena finito di pranzare. Almeno quello è stato buono.”
Ci sediamo lì vicino. Ogni tanto passa qualche gruppetto di studenti.
“Era una cosa bizzarra quella che spiegava il tuo professore.”
“Molto affascinante, vero?”
“Mi è parso un po’ confuso.”
“Sei nell’orizzonte anche tu, allora.”
Annuisco un po’ distratto, poi cambio atteggiamento, non so nemmeno io perché, forse ripenso a Sara e a cosa ci faccio lì in quel momento. Gli parlo con un tono irritato e sbrigativo, come se fossi stato punto sul vivo. “E poi queste scoperte non mi arricchiscono, perché sono esperienze che non proverò mai. Non mi è di nessuna utilità la definizione di limiti immaginari che mi ricordano solo che sono vincolato a delle leggi cui non posso sfuggire.”
Zenone è un po’ sorpreso della mia reazione. Gli passa subito. Non si scompone, come al suo solito.
“Eppure ti ricrederai, mio caro retore. Nessun pensiero vero è inutile”. E lo sguardo di Zenone sembra davvero convincente.



III

Dopo quel primo incontro sono passati diversi mesi prima che Sara ed io ci rivedessimo. Per la precisione otto.
Avevo detto al mio amico che ero rimasto colpito da quella ragazza che suonava il pianoforte, ma mi aveva risposto che sarebbe partita di lì a poco e che, comunque, non era un tipo su cui riporre troppe speranze.
“E’ la migliore amica di Francesca” mi aveva detto “ma io non sono mai riuscito ad entrarci in confidenza; una ragazza che non lascia trapelare quello che ha veramente dentro.”
Chissà, ma mi immaginavo davvero che fosse così chiusa ed impenetrabile. Michele aggiunse anche: “Suona bene e quando è seduta al pianoforte ha l’aria di essere talmente piena di sentimento da doverne traboccare. Ma, poi, quando finisce è come svuotata. Lo so che è brutto dirlo ma ho sempre l’impressione che sia solo un’interprete, nulla più.”
Ma del passato parleremo ancora più tardi, adesso sono troppo preoccupato del contingente per poter stare a guardare i miei passi.
Già, perché ora non ho cuore né voglia di ritornare da Sara per misurarmi con i suoi occhi gelidi che fanno da specchio a tutte le mie inquietudini. Vedete, che il nostro rapporto sia in crisi è evidente, ma io non riesco a collegare questo disagio ad una frattura definita, un litigio, un difetto, una condizione precisa. So di non essere felice, così come vi ho detto all’inizio. Ma cosa sia che non vada mi sfugge. Non so se sia il rapporto con Sara che inquini anche il resto della mia vita, o se siano le mie frustrazioni ad impedire la serenità tra noi due.
Io sono orfano pressoché dalla nascita e questo ha fatto sempre che io consideri tutto precario, tutto temporaneo.
Delle sedute di psicoterapia cui mi sono sottoposto, mi ritorna il giudizio che mi diede il terapeuta prima che decidessi di essere inguaribile e sospendessi il trattamento.
“Lei vuole evidentemente dimostrare che non è contento di quello che ha. Ciò deriva senz’altro dalla mancanza dei suoi genitori: dall’aver perduto tutto prima di poter maturare la coscienza di averlo posseduto. I suoi studi letterari, inoltre, non hanno fatto che alimentare questo suo distacco dalla vita vera”.
Maledetti psicologi, ma purtroppo è vero: io non riesco a stare sdraiato al sole e sentirmi appagato.
Che mi manca? Cosa voglio? Dov’è?




IV

Eccola, Sara, che mi viene incontro con i capelli lunghi e biondi. Una borsa a tracolla ed altre due tra le mani. Michele ed io la raggiungiamo e l’aiutiamo a liberarsi da qualche bagaglio. Saluta Michele, abbraccia Francesca e poi saluta anche me. Una stretta di mano incerta, sorpresa di vedermi lì, alla stazione.
“Bruno, ti ricordi?”
“Ah sì, a capodanno.”
Poi è di nuovo nella conversazione, vorticosa e disordinata, di tutti quelli che sono attesi e hanno tanto da raccontare.
Le sette di un giorno di agosto, il caldo non più così intenso; la luce rossa all’orizzonte.
“…Non ne potevo più, insomma. Una bella città, ma…”
“Dai vieni che siamo arrivati alla macchina.”
Per fortuna guida Michele, così non devo fare mostra delle mie doti di pilota. La lasciamo a casa. Io faccio per scendere dal sedile di dietro per salutarla, ma lei scuote il braccio, un cenno ed è già al citofono.
Non mi stupisco che non abbia potuto dormire quella notte. Andai da Paolo, mio buon amico dell’università all’epoca. Bevemmo non so quante birre e gli parlai di lei, di come era scostante, di come era indifferente, insomma di quanto fosse bella.
“Che stupida cotta ti sei preso.”
“Davvero, Paolo; l’ho vista due volte in otto mesi ma mi è sufficiente per dirti che è più bella di Marzia.”
“Addirittura.”
Marzia era una delle mie “fissazioni” dell’università; ci eravamo sì e no scambiati dieci parole in due anni, ma a tutti i miei amici ne cantavo la spiritualità, la bellezza, la disinvoltura.
“Sissignore, è più distaccata e lontana di Marzia e quindi ancora più bella.”
“Meno siamo in grado di definire un oggetto, inteso come qualunque contrapposizione, animata o non, al nostro io, più la sua virtù…”
“… deve necessariamente essere alta”. Completo il discorso che Paolo ha teatralmente recitato sedendo su una sedia della cucina.
“Eh, sì, il professor Zanche è un vero profeta; almeno dei miei innamoramenti”.
A mezzanotte me ne andai, perché Paolo aveva una famiglia a cui rendere conto. Io tornai nella mia stanza ammobiliata, invece, perché ero libero e soprattutto solo.
Degli altri ragazzi con cui dividevo l’appartamento nessuno era sveglio: tre tristi fuori sede, amici, tutti calabresi. Non ci siamo mai sopportati ma la nostra convivenza durò, comunque, solo pochi mesi.
Disteso sul letto, addolcito dalla birra e dall’afa, pensavo a Marzia dai capelli rossi che in cima alla scalinata della facoltà, con grande disappunto, e forse invidia, mi vedeva salire abbracciato alla mia Sara, parlando della virtù dell’oggetto in quanto contrapposto al binomio del soggetto nella metafisica classica.
Nella finzione mi immaginavo anche com’era vestita, con un paio di jeans dal blu intenso ed una camicetta rossa, corta in vita che lasciava scoperto per un filo l’addome. E, naturalmente, quel po’ di brezza, quel vento leggero che muoveva i capelli dalla sua fronte. Delle scarpe sentivo il rumore pieno, del tacco sul granito, ma non ne distinguevo la forma.
Ditemi, si può forse dormire guardando la notte dalla finestra aperta, sentendo che abbiamo incontrato una persona importante, e non è stato un caso, e non sappiamo come ma ne siamo certi?
No, io non ci riuscii. Quel secondo incontro fu più dolce del primo, perché fu più fugace e l’immaginazione, la vitalità, l’ansia di vivere che avevo allora valevano più di qualsiasi abbraccio reale.
Il bicchiere cade sulla moquette. E non mi va di raccoglierlo. L’ho rifatto. Ho di nuovo compatito la mia situazione attuale, ho di nuovo rimpianto il passato e, soprattutto, ho invidiato quel ragazzo che sognava, che una notte d’estate non ha dormito perché amava; un’altra ragazza, la vita e se stesso. Cinque anni possono uccidere?
Andrea, il fratello di Paolo, diceva che nel momento in cui ti poni un dubbio su qualcosa è già tardi. Vuol dire che in realtà hai deciso, ma hai paura di ammetterlo. Se dubiti, allora non sei già più.



V

Stamani il direttore del mio dipartimento mi ha chiesto di seguirlo per un intervento che deve tenere all’università di Bologna. Sono contento di andare, anche perché spero sempre che mi tenga presente per il concorso di ricercatore al quale, l’anno scorso, ha preferito un mio collega. Ma sembra la sola buona notizia degli ultimi periodi. Sara è sempre più irritabile; quand’è con me non fa che creare situazioni in cui non sono a mio agio. Credo sia in parte per punirmi ed in parte per mettermi alla prova. Vuole conferme, ed io non sono in grado di fornirgliene.
Abbiamo avuto una scenata, oggi a pranzo. Orribile, asciutta. Non credevo fossimo ancora così estranei da sorprenderci, anche se durante l’ira. E’ cominciata a tavola. E’ stata colpa mia.
Mi chiedeva se avevo novità proprio su quel concorso di ricercatore. Mentre stavo per replicare mi sono accorto che in realtà non volevo risponderle.
“Cos’è hai paura che non riesca più a mantenermi?”
“Ti chiedevo solo di quel posto. Mi pare ci tenessi.”
“E tu? La finirai l’università?”
“Perché, ti vergogni di frequentare una non laureata?”
“E’ che vorrei prendessi una decisione nella vita.”
“Laurearmi per poi fare l’indifferente? Sei tu che rimandi qualsiasi decisione. Non proiettare su di me i tuoi stati d’animo.”
L’ho guardata negli occhi ed ho sentito dentro di me crescere la voglia di offenderla.
“Io so cosa fare della mia vita e le mie scelte le ho fatte. Mi piacerebbe che ti sforzassi di pensare al futuro, che scegliessi qualcosa.”
“Bruno, che cos’hai? Cosa vuoi da me?”
“L’ho appena detto: voglio sapere se hai voglia di costruirti una professione. Vuoi ancora giocare a fare la concertista?”
Sara non piange mai. Si contorce, impallidisce, contrae il viso; ma non vedrete mai una lacrima. Non so l’origine di questa sua inumanità. Non le ho mai chiesto il motivo, perché è una parte di lei, come le sue dita lunghe da pianista.
Si è alzata bruscamente da tavola e mi ha risposto con durezza. Ed io ho replicato, cercando di confondere ad entrambi la realtà della scena che stavamo vivendo: una discussione sul nostro amore.
“Ti diverte giudicare la mia vita?”
“Credo che tu sia geloso; che io possa ancora cambiare radicalmente tutto.”
“E’ incredibile come tu voglia travisare la realtà. Tu saresti una persona libera?”
Sara voleva rispondere, ma ha esitato, cercando le parole.
Non le ho dato possibilità di farlo. Per la prima volta ho sentito che provavo rabbia verso di lei; non più ansia, ma un sentimento finito.
“Mi hai stancato. Non voglio più discutere, non voglio più pomeriggi passati a rodermi, a cercare di capirti. Dove sei? Sei qui con me o pensi al resto, a tutto il resto che sta passando davanti ai tuoi… ai nostri occhi. Beh, io non voglio guardare più ma vivere, lo capisci questo?” Ho spinto il tavolo da una parte e sono andato via.

Fuori mi sono calmato subito. Già prima di aver finito la rampa di scale ho avuto la tentazione di tornare su, suonare, trovarla ancora in piedi, pallida, con i capelli raccolti e gli occhi blu persi nello spazio dietro di me.
Ho continuato la mia strada però.

Avevamo litigato spesso, in precedenza, ma stavolta avevo passato il limite consciamente. Sara non lo meritava: chi aggredisce non ha mai ragione. Vi parrà strano detto da me, ma sono convinto che con le parole non si possa cambiare nessuno. I gesti, le azioni, quelli possono redimere e convincere; non un discorso.
Cosa avevo ottenuto, infatti? Sara era a casa ed io a piedi per questi vicoli. Ecco tutto. Così ci eravamo ancor di più allontanati.
Zenone dice che mi sto comportando da disonesto, che non ho il coraggio di affrontare questa situazione per quello che è. “Tu non l’ami più” mi dice. Ed è curioso vedere come sia serio in questi momenti.
Zenone, così superficiale nel vivere la sua vita, non sa comprendere come il suo responsabile e diligente amico possa sopportare un eterno stallo, in cui il re vuole morire e la regina non si sposta dalla sua tessera. “Tu non l’ami più”. E’ una proposizione troppo forte, che non posso accettare. Sara mi appartiene, e non per un malinteso senso del possesso. Le emozioni che abbiamo condiviso non sono state concessione del caso, ma momenti perfetti, e lo sai mentre li hai vissuti.
L’infelicità, l’inappagamento che sento, devono venire da qualcosa che sbaglio, che non vedo più, a cui mi sono abituato, come la musica celestiale la quale, secondo i Pitagorici, abbiamo per sempre perduto la facoltà di distinguere.




VI

La sera ci siamo ricomposti. Io le ho chiesto perdono e Sara, dopo un po’, mi ha perdonato.
“Mi dispiace di oggi. Lo sai che non pensavo niente di quello che ho detto. Sono solo nervoso per quel posto, e parlarne mi mette a disagio.”
“E tutto quello che hai detto sul mio futuro? Che aveva a vedere con il tuo posto?”
“Ho unito le nostre inquietudini in un unico miscuglio. Ho reagito mischiando le situazioni critiche.”
“D’accordo, non parliamone più.”
Tutto sempre peggio. Avrei voluto che affiorasse la Sara di un tempo, che non chiedeva e non accettava scuse. Ma come mi sono spento io, così deve essere avvenuto di lei. Sono così partito per Bologna.

Siamo arrivati col primo imbrunire, accolti da un tempo piovoso e freddo. Alla stazione, alla confusione abituale, si assommava la concitazione che la pioggia provoca nelle grandi città; era faticoso trovare un taxi ma noi “fortunosamente” avevamo l’albergo nei pressi. Dico così perché in realtà ci siamo completamente bagnati nel fare quelle poche centinaia di metri dato che non avevamo ombrello.
Eravamo stanchi ma il Professor Aronta non è uomo da cedere alle debolezze del corpo per privarsi di quelle che annovera fra le sue gioie; e una cena in un ristorante raffinato lo è.
Ci siamo seduti al tavolo alle nove e non abbiamo lasciato il locale se non alla mezzanotte passata. La miglior descrizione del mio professore ve la posso fornire proprio nel ricordare questi primi momenti al ristorante, mentre ci siamo appena accomodati ed il cameriere ci ha porto i menu.
Aronta è uno spirito tagliente, un uomo comune che un giorno ha scoperto con meraviglia la propria normalità e ha deciso di discostarsene per sempre da lì in avanti. Se devo indicarne, fra i molti, il difetto più evidente, è la censura che fa di tutto quello che gli ricorda la sua trascorsa mediocrità; è impietoso, e spesso sgradevole, nel notare ogni incertezza, goffaggine di spirito o di corpo, che nota nel prossimo e nelle sue interazioni con gli altri. Aronta non è certo bello, ma esponendo al ludibrio l’altrui bruttezza è come se stornasse la propria; e vi riesce: giudica con tale convinzione che nessuno ne mette in dubbio l’autorità.
Di quello che è successo a cena, vi devo parlare, per l’insolita veemenza con cui Aronta ha analiticamente punto il mio animo.
Il nostro alterco è iniziato mentre aspettavamo il primo, dopo l’antipasto, quando il vino l’ha reso loquace. Ha cominciato a parlarmi della sua ex moglie, dei motivi per cui l’aveva lasciata, e della sua attuale compagna, Beatrice.
“Sa Bruno” (Aronta mi dà del lei ma mi chiama per nome) “non bisognerebbe mai fidarsi completamente dell’esperienza che si vive nel rapporto con una donna.”
“Che intende professore?”
“Voglio dire che fintanto che si ha una relazione con una persona, questo ci fornisce un certo grado di soddisfazione, di felicità, come si dice. Eppure non ci rendiamo conto di tutto quello che, invece, ci sottrae.
Viviamo accanto ad un’amante, una fidanzata, una compagna anche per anni, se non per decenni, cercando la massima felicità possibile da questo binomio che abbiamo costituito. Ma dov’è la felicità? In quello in cui ci siamo adattati?”
“Ma, mi scusi, se quella persona la amiamo…” Aronta ha alzato su di me lo sguardo col quale fa l’ultima domanda ai suoi studenti mentre continuavo “…l’abbiamo eletta a compagna, amante o fidanzata, vuol dire che non stiamo perdendo nulla, ma vivendo ciò che altrimenti ci sarebbe stato precluso.”
“Già, già, capisco. Ma chi lo ha deciso cosa vivrà; lei? La sua compagna? Il destino?
La verità è che se si perde la lucidità, in ogni contesto, e mai questo è stato vero come nel rapporto di coppia, non si percepisce e non si restituisce che alterazione della realtà.”
“Ma lei così nega l’essenza stessa dello stare insieme. Lei sta negando la possibilità che due persone si amino.”
“Al contrario; io ammetto che due persone si amino, ma non accetto di essere una di queste.”
“Non capisco come si possa legare alle sue affermazioni precedenti”
“Mi lasci parlare da cattedratico quale io sono. Io non nego che due persone professino o solo credano di amarsi. Dico che io non lo permetterò più” si è corretto subito “non permetterò mai, che l’idea della felicità ci distolga dalle esperienze cui potremmo andare incontro.”
“Mi scusi ancora, professore, ma proprio non riesco a condividere queste sue affermazioni; ma in cosa siamo limitati dalla nostra amata?”
“Io vivo. Vivo perché sono solo e allo stesso tempo ho una moglie. Ma i due stati non si sovrappongono mai.”
Si aggiusta lentamente il tovagliolo sulle ginocchia, per poi riprendere.
“Lei ce l’ha una fidanzata?”
“Sì.”
“Da quanto?”
“Più di cinque anni.”
“Ed è felice con lei?”
“Si, certo.”
“Può rassicurare se stesso in qualsiasi momento che l’ama? Perché lei l’ama ancora mi sta dicendo.”
“Sì, l’amo, l’amo ancora.”
“Ecco, appunto. S’immagini di averla davanti; lei potrebbe ben dirle che l’ama, che la rende felice, che quella graziosa cameriera vicino quel tavolo la turba sì, ma sa comunque ricondursi alla ragione perché lei l’ama. La sua fidanzata intendo, beninteso.”
“E’ così, sto con lei perché l’amo, nonostante…”
“…E mi dica, non ha mai avuto esitazioni, incertezze. Lei sono cinque anni filati che ama la stessa persona, mai un dubbio, un ripensamento?”
“E’ ovvio che dubbi ed esitazioni non possono mancare in tutto questo tempo. E anche litigi, battibecchi. Sono proprio queste riflessioni, che confermano vigore e forza al rapporto.”
Mi compiaccio della mia risposta e guardo con aria soddisfatta Aronta. Ma non si scompone e prosegue.
“Lei, dunque, è felice, perché ama ed è amato.”
“Sì, sono amato.”
“E questo non le ha mai causato scelte per lei sgradevoli, non le ha mai fatto venire l’assillo che da solo, o con un’altra, lei potrebbe essere più felice, o solo diverso?”
“Se così fosse non avrebbe più senso che io continuassi il mio rapporto con Sar… con la mia fidanzata.”
“Sara -si chiama così? Sì ho capito bene- è un dono che è stato fatto alla sua vita allora; ma mi dica come mai a me, e ad un intera altra moltitudine, non è riuscito di essere altrettanto gratificati dalla sorte? Cos’ha lei di tanto particolare da meritare la benevolenza degli dei?”
“Io sono felice con Sara.”
“Me l’ha già detto. Ma in cosa consiste la diversità di questo suo rapporto che vorrebbe sconfessare la mia esperienza e quello di cui ho finora fatto professione?”
“Se non ci amassimo non potremmo vederci, né abbracciarci, né baciarci.”
“Oh, non sia lubrico. Perché, il bacio è la somma testimonianza dell’amore?”
“E’ così. Ci amiamo.”
“Non si confonda. Le ho chiesto tante cose è vero, ma uno spirito limpido non si dovrebbe turbare mai.”
“Professore, non so dove voglia tendere. Ma non mi convincerà che il rapporto di coppia sia solo finzione e pulsione fisiologica. Questo deriva da una sua propria e personale conclusione che ha tratto da non so quali presupposti, che le assicuro nel mio caso…”
“…D’accordo, non si inquieti; si discuteva solo. E’ evidente che lei è uno dei pochi innamorati e felici.”
E’ evidentemente stanco della conversazione, taglia corto “Segua il mio consiglio almeno per il secondo e assaggi il roast beef, qui è davvero molto buono”.



VII

Mi aveva irritato Aronta? No, non propriamente. In realtà mi aveva spossato. Quelle domande penetranti richiedevano attenzione, e rispondere mi aveva seccato la bocca, per il troppo parlare. La nostra conversazione impoverì molto nel seguito della cena, almeno da parte mia, visto che Aronta era noncurante, come al solito.
Siamo tornati in albergo in taxi e, quando sono arrivato in camera e mi sono coricato in quel letto troppo spazioso per me solo, ho cominciato a pensare, ma differentemente a come mi ero abituato finora, liberato, come dopo una dura competizione di atletica; poi mi sono addormentato.

Questo è stato il mio arrivo e la mia prima notte a Bologna. Ora è mattina.
Il tempo è cupo ma asciutto, anche se il portiere, vedendoci uscire senza ombrello ci ammonisce a non fidarci.
“Un vero iettatore.”
“Penso volesse solo essere cortese, Professore.”
“Piuttosto, vediamo di prenderci un caffè decente prima di arrivare all’università.”
Io non bevo caffè, ma pur di non urtare la suscettibilità di Aronta, me ne faccio servire uno, con molto latte e zucchero. Almeno evito i commenti su come non ci si debba fidare di chi non beve caffè, vino e non fumi pipa o sigaro; lo conosco abbastanza da arginare i suoi aspetti più spigolosi.
Arriviamo all’università che già ricomincia a piovere. Aronta nell’atrio ha incontrato un suo collega di Pavia, Donati, che ho visto citato in qualche bibliografia dei testi del dipartimento; credo siano stati compagni di corso.
Aronta mi introduce brevemente lui e la sua assistente, poi si mettono a chiacchierare, allontanandosi verso le aule. Io resto vicino l’ingresso assieme alla mia “collega”.
“Ti va di uscire un attimo?”
“Sì, certo.”
Andiamo all’aperto. Si accende una sigaretta, e la cosa mi infastidisce: non sopporto il fumo, specie la mattina.
Ci scambiamo poche parole, di circostanza; da dove vieni, chi sei, dove hai studiato, cosa fai adesso, cosa farai.
Qualche minuto, poi spenge la sua sigaretta colla suola della scarpa, fa un cenno e si riavvicina al portico d’ingresso. Solo allora ho una scossa. Un piccolo gesto di attenzione verso le sue scarpe. Quel movimento, quello strusciare del cuoio sul suolo, la scarpa blu che danza per qualche secondo… e il rumore dei tacchi sul granito.
Il pallore del mattino, piovoso come la domenica che ci ha accolti, gli ombrelli che si aprono e si richiudono, le chiacchiere degli studenti, cancellano rapidamente questa sensazione, e, guardandomi un po’ spaesato intorno, rientro anch’io.
Aronta mi aspetta. Manca meno di mezz’ora al suo intervento e così ci dirigiamo verso l’aula.

La lezione termina poco dopo l’una e per il pranzo Aronta mi congeda per fermarsi a parlare con il preside della facoltà.
Mentre scendo le scale, vedo un poco più giù Donati e la sua assistente, e, quando si separano, non ho esitazioni nello scegliere chi seguire.
La raggiungo mentre entra in un bar molto affollato di studenti. Mi infilo fra due ragazze che mangiano un tramezzino e mi accodo alla cassa.
“Ciao, mangi un boccone?”
Mi riconosce e mi sorride; non me l’aspettavo.
“Ciao. Sì, ho un paio d’ore di buco, fino all’intervento di Donati.”
“Io ho già dato per oggi, per fortuna.”
“E’ andato tutto bene? Avrei voluto ascoltare Arunta…”
“…Aronta, ma tanto lo sbagliano tutti.”
Sorride, e di nuovo mi coglie impreparato.
“Per me un medaglione ed un succo d’ananas, e tu?”
Non mi sono accorto fossimo arrivati già alla cassiera.
“…una pizza col prosciutto ed un chinotto, ma faccio io, dai...”
Invece, insiste per pagare. Il tempo è davvero pessimo, ma almeno non piove. Le propongo di mangiare all’aperto, per evitare la calca.
Fuori c’è odore di bagnato, l’asfalto è fradicio, ma non mi dispiace questo clima, dopotutto. Sara mi dice sempre che sono in grado di essere felice con qualsiasi tempo ed in qualsiasi posto, ed è uno dei più bei pensieri che mi abbia dedicato, almeno finquando questo è stato vero.
Passeggiamo fino ad un giardinetto anche se le panchine sono troppo zuppe per sedersi.
Che ci stiamo dicendo di particolare? Effettivamente le stesse solite frasi di circostanza di prima, ma adesso, mi rendo conto, siamo più sciolti e disposti al discorso entrambi.
“Non ti ho chiesto quanti anni hai” le chiedo con curiosità.
“Indovina.”
“Ventiquattro?”
“Eh no, non ci siamo.”
“Ventidue?”
“Ne faccio trentuno il 17 Novembre.”
Trentun’anni ed un espressione da ragazzina. Sorride e sofferma per un poco il suo sguardo su di me.
“Beh, non ho certo impiegato poco a laurearmi; tu, invece, mi sembri molto giovane.”
“Insomma. Vado per i ventisei.”
“Sei stato svelto! Sei un piccolo genio?”
Parlottando prendiamo la via del ritorno. L’aria è sempre molto umida, finché si trasforma in pioviggine. Quando comincia ad aumentare, accelero il passo, sicuro che lei mi segua.
“Dai corriamo, altrimenti arriveremo fradici in facoltà.”
“E allora? È inutile cercare di evitare le gocce di pioggia, tanto ci si bagna lo stesso”
“…Cosa?”
“Su stavo scherzando, non sono un’asceta Zen. Sono solo reduce da una brutta storta alla caviglia, e non posso correre.”
Rallento anch’io, per cavalleria, e così arriviamo davvero all’università intirizziti.
Ah… ho dimenticato di dirvi una cosa essenziale; si chiama Anna.



VIII

Torno in albergo, e chiedo qualche informazione al suo riguardo ad Aronta, ma non sa dirmi molto. Ripensa al suo intervento e mi interrompe spesso per parlare delle domande che gli hanno rivolto e su come ha risposto.
“E così Donati lo conosce da tempo?”
“Sì, tanti anni…quel Navarrese, avrà capito il senso della mia obiezione?”
“Professore, e l’assistente la conosce?”
“Le è piaciuta, eh? No, non la conosco. Comunque domani devo stare più attento a lasciare più tempo agli interventi degli studenti.”
“Si chiama Anna, e mi sembra una valida ricercatrice.”
“Sì, già …”
Lo lascio ai suoi piani per l’indomani e me ne torno in camera. Sono appena le sei e comincio ad annoiarmi. Scendo alla reception e mi siedo su una larga poltrona in pelle della hall. Anna è in piedi vicino al banco della portineria e parla con un ragazzo. E’ appoggiata col gomito sul legno piano del bancone ed i capelli ricci le cadono in parte sul viso, coprendo un occhio. Ride spesso, e mi piace quel volto aperto, rasserenante, che non ha bisogno dello sguardo per essere espressivo. Si stringono la mano ed il ragazzo la saluta; poi ci guardiamo.
“Anna, che ci fai qui?”
“E’ il mio albergo.”
“Pensavo di essere l’unico dottorando con un simile privilegio.”
“No, anche Donati può permetterselo.”
Qualche altra parola e poi decidiamo di andare in un bar, per un aperitivo. Lei parla, ed io ascolto.
Il mio mestiere è fatto di parole, per lo più scritte. E’ gestito da meccanismi, da somme di regole e da eccezioni. Retori più illustri di me, nel medio evo, si sono perduti nel qualificare questo universo. Ma non si sono mai fermati ad ascoltarlo. Anna parla delle parole schiette, ed io sono qui a meravigliarmi di come sia bello, in questo tardo pomeriggio, in questa quasi sera, sentire le sue parole suscitare emozioni.
“Per cena devi stare col tuo professore?”
“No, è partito. Oggi pomeriggio era il suo unico intervento.”
“E tu, come mai sei restata?”
“Voleva seguissi delle relazioni domani.”
“Chi era quel ragazzo che ti salutava alla reception?”
Anna si gira per essere certa che sia andato via.
“Sei curioso?”
“Lo sono stato troppo?”
“Era un mio ex. Si chiama Filippo. Filippo Argenti.”
Il suo tono ha molta naturalezza quasi distacco.
“Anche lui dell’ambiente?”
“Sì, assistente di lettere antiche.”
“E’ già ricercatore?”
“Ha vinto il concorso un anno fa credo. A Pisa.”
“Siete in buoni rapporti?”
“Perché, dovremmo odiarci? Siamo stati insieme qualche mese. Poi è finita.”
“Non credo potrei rivedermi pacificamente con una persona con cui ho rotto.”
“E’ una risposta adolescenziale.”
“Non rimpiangi il tuo Filippo?”
“Mai. Non avrebbero potuto costruirla su di me, l’avventura di Orfeo. Io non mi sarei voltata.”
Che differenza col mio carattere… glielo confesso.
“Ti invidio. Io mi pento di tutto; e lo rimpiango.”
“Io non voglio capirti Bruno.”
“Che intendi?”
“Volontariamente o meno, mi stai fornendo un’idea di te. Ma non mi interessa di essere usata come uno specchio. Tu vuoi capirmi, vero?”
Le sue parole mi imbarazzano. Esito. Ma mi piace la piega che stiamo prendendo.
“Sì, vorrei capirti”
“Vedi, ora comincio a credere davvero che tu sia stato tanto svelto negli studi. Anche Filippo era come te, anzi forse migliore, dal tuo punto di vista. Laurea lampo e pieni voti. Eppure dopo sei mesi non ha saputo darmi più nulla. Voleva ad ogni costo qualcosa da me.”
“Cosa ti chiedeva di così fastidioso?”
“Perché mi fai queste domande?”
Mi azzittisco di nuovo. C’è della vanità in questa domanda, me ne accorgo, eppure voglio stare al suo gioco.
“Anna, io non riesco a seguirti pienamente. Sei troppo veloce per me.”
“Invece io son certa che tu abbia inteso il senso delle mie parole.”
“La tua frase sembra una reminescenza dantesca.”
“Ecco, il retore ha subito preso il sopravvento sull’essere umano.” Si toglie gli occhiali e mi dedica il suo sguardo intenso da miope. “Te lo spiegherò anche se ti è già chiaro. Filippo pensava di avere esaurito le risposte; fabbricava domande e si aspettava che fossi il suo oracolo. Ma non voleva responsi, esigeva conferme, anche se non l’ha mai ammesso. E non credo abbia fatto qualche passo avanti dalla nostra separazione.”
“Già, ma anche tu agisci per categorie di idee…” La fermo con gesto della mano mentre sta già per rispondermi “… aspetta non avere fretta, fammi finire. E’ vero, forse io non sono che un aggregato delle mie letture e degli schemi sintattici che ho studiato finora. Ma non sono così semplice da giudicare. Tu mi hai sorpreso, prima. Ma sei davvero priva di struttura come cerchi di farmi credere?
Hai detto bene, io voglio vendere un’idea di me, e, ancor di più avere conferme. Non so perché, ma sento che posso confidarmi con te.”
Si avvicina il cameriere, poggiando lo scontrino giusto davanti a me. Lo guardo di sfuggita, pronto a continuare, ma…questa interruzione, così naturale in fondo, ferma l’intimità che stavo creando con Anna. Mi rendo conto di parlare con una sconosciuta, e che forse la trovo interessante solo perché non sono abituato ai suoi modi. E poi, è davvero così originale?
“Dimmi, mi hai davvero incuriosito.” Mi guarda intensamente, stimolata dalle mie parole. Ma non me la sento di continuare. Un attimo ha distrutto quello che mi aveva affascinato: l’inconsueto; sento di avere varcato l’orizzonte di cui parlava Zenone, ed oramai è già giovedì prossimo.
“Che dicevo? Ah, in fondo è come dici tu.”
“Bruno, ma se stavi affermando il contrario.”
“Io ho un’amante, si chiama Sara.”
Non so perché le ho risposto così, ma si volge stupita.
“Cosa c’entra? Stavamo parlando d’altro.”
“No, si parlava d’amore, ed io sono infelice.”
“Mi hai preso per un confessore? Non credevo fossimo qui per fare una riunione di autocoscienza.”
E’ stizzita, fa per alzarsi.
“Aspetta, fuori piove” farfuglio qualcosa d’altro ed esco io per primo. Arrivato in strada mi rendo conto di non aver pagato.





IX

Come ho potuto guastare un clima così teso ed emotivo? Anna credo si aspettasse parole lievi ed anch’io ero sicuro di non desiderare altro. Dimenticare, baciare altre labbra, non è questa l’intenzione che mi anima da tempo, da quando sono comparsi i primi dubbi? Piove forte, ma io sono ben coperto, e di bagnarmi non mi importa granché. Stavo per condividere con lei pensieri intimi, ma non mi è così inusuale, riversare confidenze forti a qualcun altro. Non sono riuscito, però, a continuare.
Mi siedo sotto una pensilina dell’autobus. Con Zenone ho parlato spesso di temi profondi, ma, ora che ci rifletto, non sono mai stato naturale. Ho ripetuto schemi retorici anche se devo esser sembrato sempre sincero. Sì, doveva essere così: stasera stavo per confessare pensieri più liberi di quanto avessi fatto altrimenti. Era positivo, una crescita, perché, allora, non avevo proseguito?
Ad ascoltare queste parole volevo Sara. L’ho lasciata ferita dopo il nostro litigio, e questi giorni prima della mia partenza sono stati i peggiori del nostro rapporto. Volevo vedere lei seduta davanti a me in quel bar e non una sconosciuta da sedurre facendola sentire intelligente ed originale. In fondo anche Anna, come il suo ex amante, vuole attenzione e conferme. Ha detto delle cose genuinamente interessanti, ma avrebbero avuto lo stesso potere in una giornata di sole, a Roma?
Sara. Chissà cosa fa, cosa pensa dietro i suoi silenzi. Mi rimetto a camminare, con il desiderio di perdermi. I silenzi di una musicista. Un bell’ossimoro a scriverlo o pensarlo, eppure è una veritiera descrizione del suo carattere.
La pioggia mi ha completamente bagnato, ed i brividi di freddo mi formicolano nelle braccia e nel petto. Sono le sette e mezzo. Davanti a me c’è una chiesa, con la gente che esce dalla messa appena finita. Sono poche persone, e, scostando una signora con l’ombrello, entro.
La chiesa è spaziosa, antica di tre o quattro secoli. Tre navate, il transetto in coincidenza dell’altare e della piccola cupola: il volume è bello, ma guastato dagli eccessi degli ornamenti e dei soffitti.
E’ umido, non c’è vento, ma sento lo stresso freddo di fuori. Sono arrivato alla prima metà delle panche e prendo posto. Qualcheduno ancora si affaccenda ad uscire, aggiustandosi il soprabito. Due monache tolgono le candele consumate davanti ad una statua della Vergine.
Spingo la schiena contro il legno duro della panca e guardo gli affreschi sul soffitto della navata. Respiro profondamente. Si prova conforto in quest’attimo di transizione, tra la funzione appena terminata ed il restaurarsi dell’immobile silenzio dei santuari. Anna si era certo offesa, ma non dovevo curarmene più di tanto, probabilmente non l’avrei più rivista. Un prete sta uscendo dal confessionale. Mi avvicino.
“Padre, vorrei confessarmi.”
“Entra e siediti.”
Non chiude la tendina ed io mi inginocchio di fianco a lui.
“Da quanto non ti confessi?’”
“E’ molto. Anni.”
“Cos’è successo di grave in questo periodo?”
Parla scandendo con fatica. Gli dico qualche frase riguardo all’incertezza in cui mi trovo. Annuisce mentre recita inintelligibilmente qualche preghiera, facendo scorrere i grani del salterio in mano.
“Io...mi scusi forse sono stato avventato a venire da lei. Ritornerò con la mente più fredda.”
“Come vuoi.”
Mi ricompongo e mi allontano. Il prete aspetta che mi avvicini all’uscita, poi si alza nuovamente e va piano verso la sagrestia. È più anziano di quanto mi fossi accorto.
Sembrava recitare le sue formule a prescindere dal penitente, ed io volevo, invece, un coinvolgimento tutto per me. Sono più di dieci anni che non mi confesso, da quando ne ero obbligato all’istituto. Stavolta avrei potuto credere davvero al destino: entrare per caso in chiesa, l’animo afflitto, l’ultima confessione della sera... ma anche qui non c’è destino. Non che mi aspettassi la felicità con l’assoluzione, ma qualche parola profonda su cui riflettere, un ammonimento a riprendere una moralità che mi avrebbe indicato, un rimprovero. Fuori la pioggia ha ricominciato a battermi il viso. Magari aveva capito che volevo solo parlare e non ricorrere ad un atto mistico. Forse è solo un vecchio.
Il buio è oramai completo, ed ho voglia di scaldarmi e di mangiare. I ristoranti in questa via non mancano, e sembrano molto ospitali. Dovrei telefonare a Sara, sono quasi ventiquattr’ore che non ci sentiamo. Entro in una birreria, c’è un fumo soffocante, è piuttosto piena, e c’è un bel caldo; ma, soprattutto, accanto allo sgabello del bancone dove mi siedo, c’è Filippo Argenti.
Sta finendo il suo boccale e giocherella con il sottobicchiere di cartone.
“Tu sei Filippo?”
“Ci conosciamo?”
“In verità non proprio, ma sono anch’io qui a Bologna per la conferenza all’università.”
“Hai presentato qualcosa?”
“No, non io. Il mio professore, Aronta.”
“Aronta…E’ ordinario a Roma mi pare.”
“Sì, insegna alla Sapienza, io gli faccio da assistente, ma non sono ricercatore. Ancora.”
“E cosa fai a zonzo per Bologna? Come ti chiami, scusa?”
“Bruno. Non ci crederai ma ho incontrato una tua amica; è per questo che ho attaccato discorso.”
“Amica? Chi?”
“Anna, non so il cognome. E’ qui con Donati.”
“Mi parevi, infatti, familiare. Eri nella hall del Baglioni.”
“Già, ed ero geloso delle attenzioni che ti dedicava.”
“Senza motivo. Non siamo più neppure amici.”
“Non è quello che mi ha detto lei. Non ti serba rancore da quando ti ha lasciato…”
“Ma se l’ho lasciata io. Più di un anno fa. Mi faceva scenate di gelosia insopportabili.”
Si alzano due ragazzi da un tavolino accanto a noi. Filippo prende la sua birra e si siede.
“Sei un originale, sai?”
Mi accomodo anch’io mentre una ragazza si avvicina a prendere le ordinazioni.
“Per me una chiara.”
La ragazza si allontana.
“Sicché, Anna ti ha parlato di me.”
“Non che tu sia stato l’argomento principale di discussione. Mi ha detto che avete avuto una relazione, con qualcosa d’altro. E ha mentito, a quanto dici.”
“E’ normale che sia andata così. Se ti avesse detto che ci salutiamo a stento non avrebbe tenuto lo stesso fascino. L’ho incontrata solo per ragguagliarla sulla mia relazione di oggi, dato che il suo professore glielo aveva chiesto. Ti piace?”
“Non proprio, con lei ne ho combinata una delle mie. L’ho invitata a prendere un aperitivo, affascinato dai suoi sorrisi, ma non sono riuscito a farmi conquistare interamente.”
Filippo si accende una sigaretta, un gesto che non ammette repliche: in quell’ambiente sono io ad essere fuori luogo.
“Tu ce l’hai una ragazza?”
“Sì. Stiamo insieme da diversi anni.”
“Perché te ne vai in cerca di una relazione, allora?”
“E’ un momento di incertezze. Non so più se quello che faccio sia giusto.”
“Anna non è, comunque, la risposta. Troppo imbastita di idee esoteriche: l’impossibilità di rappresentare se stessi in maniera onesta, la ricerca di una felicità che non sia definibile… tutte maschere per rendersi più attraente.”
“Sì, forse è un atteggiamento, ma non credo che la sua sia tutta dissimulazione.”
“Non credere neppure che sia travaglio interiore. Dopo tre mesi ne sei già stufo. Avrei dovuto lasciarla anche prima.”
“Di che ti occupi esattamente a Pisa?”
“Greco. Passo per un eccellente traduttore dei poeti dell’Asia Minore. Specialmente Archiloco.”
“Archiloco ed Ipponatte. I due poeti maledetti dell’antica Grecia. Non ti annoi di sicuro.”
“No, infatti.”
“Adesso stai con qualcun’altra?”
“Sto con una ragazza di Pisa, che ho incontrato due o tre mesi fa.”
“Non mi sembri molto innamorato.”
“Ma vai in giro a sondare le coscienze di tutti gli sconosciuti di Bologna?”
“No, scusami.”
“Non ti scusare. In fondo è vero che ispiri confidenze. Allora, commissario, cosa vuoi sapere? Se sono Faust o Mefistofele? So di deluderti ma né l’uno né l’altro.
Sono un grecista perplesso sul suo futuro, che lo vede ambire alla carica di Ordinario prima dei 35 anni. Bevo poco, fumo molto e do’ corda agli sconosciuti.”
Restiamo un attimo in silenzio. Filippo continua a fumare, risponde, ma è distratto. Mi guarda in faccia solo a tratti. Gli parlo di nuovo.
“E di cosa dubiti? Siamo coetanei e sei già ricercatore.”
“Credo di essere più vecchio. Io ne ho ventotto.”
“Io quasi ventisei.”
“Visto? Puoi dormire tranquillo ora. Riuscirai ad equipararmi, e non dovrai più essere invidioso.”
“Non credo. Aronta non mi appoggia pienamente…”
“…e senza appoggio niente posto.”
“Ma vale proprio la pena di faticare per la carriera accademica?”
Filippo sorride, e mi guarda, con i suoi begli occhi azzurri.
“Cos’altro sai fare a parte tradurre all’impronta Seneca ed Omero?”
Resto un po’ interdetto prima di rispondere. “Non è un problema di cosa non sai fare. Il resto si impara.”
“Cosa si impara? E quale resto? Mi sembra un po’ vago.”
“Se sei così deciso, qual è il tuo problema?”
“So quello che non potrei fare. Non mi pare un buon motivo per essere sereni.”
Le sue risposte non sono chiare. Questa reticenza lo rende interessante e lo interrogo ancora.
“Cosa ti ha indirizzato alle lettere antiche?”
“Ho fatto il classico, con ottimi risultati. Ero la gioia dal mio professore di italiano. Già in seconda liceo sapevo quasi l’intero Inferno a memoria. Credo di non aver nemmeno dovuto scegliere. Un attimo e mi sono trovato in Facoltà.”
“E ora ti vien voglia di rinnegare tutto?”
“Perché no? Mi piacerebbe stupire qualcuno, a cominciare da me, scegliendo una vita ed una professione insolite.”
“Mi sembri molto piantato a Pisa, però.”
Si alza, va vicino alla cassa e paga per entrambi.
“Vieni” mi passa una mano sulla spalla mentre mi alzo anch’io “Facciamo quattro passi che ha ripreso a piovere.”



X

Si riaccende una sigaretta sotto la tettoia della birreria. Piove a scrosci. Lo guardo incredulo.
“Ma sei impazzito? Ci infradiceremo.”
“No, ho un ombrellino nella tasca dell’impermeabile.”
Il fumo della sigaretta si diffonde nell’aria rarefatta.
“Forse non hai tutti i torti, ci infradiceremo.”
Lo riguardo per capire se sia serio.
“D’accordo, non fare quello faccia da martire. Il mio albergo è proprio qui, sali finché non è spiovuto.”
L’acqua scorre forte sull’asfalto mentre attraversiamo la strada. Entriamo spingendo una resistente porta a vetri. La hall è illuminata da un grosso candeliere a soffitto, emanando una intensa luce gialla. E’ un ambiente grande, con qualche mobile ricercato posato qua e là, ed il bancone della reception giusto di fronte la porta ed a fianco delle scale. Il portiere veste giacca e cravatta, ma non tiene il confronto con il lusso del mio albergo. Me ne compiaccio.
“Vieni, è al secondo piano, non c’è l’ascensore.”
Filippo sale lentamente, con il soprabito bagnato poggiato sull’avambraccio. E’ vestito semplicemente, con pantaloni di velluto ed un maglione a scacchi a collo alto. Io sono più agghindato e meno importante.
“Entra, entra. Accomodati su quella poltrona mentre lascio l’impermeabile in bagno.”
Mi siedo sulla poltrona a braccioli, accanto una piccola scrivania, mentre lui si siede sul letto. Rientrato dal bagno, giocherella con il cassetto del comodino, finché non ne estrae un libro.
“Che stai leggendo?”
Ride. “Niente. Non leggo mai in servizio. Questa è la Bibbia in edizione alberghiera.” La sfoglia a caso, così almeno mi pare.
“Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse “seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì.”
Mi guarda fisso, senza parlare, come per incrociare il mio sguardo, ma è un attimo. Poi riprende.
“Forse non desideriamo altro che questo. Che qualcuno ci chiami dal banco su cui ci stiamo affaccendando. Su un’attività vile, inutile, ma che ci prende tutto il nostro impegno. E’ un po’ che ci penso e… se non ci fossero più profeti? Se restasse solo da fare gli apostoli?”
Ancora silenzio; disagevole.
“E allora vorrei che mentre siedo sulla cattedra, leggendo i versi di qualche greco morto più di duemila anni fa, con gli studenti che ordinatamente annotano i miei commenti, mi si toccasse sulla spalla e… mi trovassi fuori.”
“Non credevo fossi anche un mistico.”
“Non lo sono.”
Si alza e va verso la piccola finestra accanto a me. “Non credo che smetterà. Forse ti conviene andare comunque.”
“Domani hai un intervento?”
“Un’oretta al pomeriggio.”
“Cosa intendevi con trovarti fuori?”
“Beh… lontano. Da luoghi e pensieri.”
“Con Anna ne hai mai parlato? Sarebbe stata felice di queste introspezioni.”
“Ancora Anna. Ti ho già detto che è troppo piena di sé per accogliere gli altri. E poi cosa credi? Le ho scritto poesie, lettere, lei me ne ha scritte altre. La vita passa Bruno, non si può rimanere ancorati a persone che abbiamo già vissuto. Anna sapeva di questi miei pensieri, e forse li ha anche apprezzati quando li ho condivisi; adesso ci siamo separati, ognuno è di nuovo padrone delle sue emozioni.”
Si accende una sigaretta. “Sei davvero una persona inquieta. Qualcuno meno avvezzo alle lettere potrebbe anche scambiarla per profondità; ma mi sembra solo inquietudine: parli poco e fai confessare molto. ”
La stanza si riempie rapidamente delle volute di fumo, verrebbe voglia anche a me di prendere una sigaretta. Fino adesso mi ha dato le spalle, con la mano che scosta la tendina, poggiata al vetro della finestra, per guardare fuori. Si volta verso di me e mi dà uno sguardo rapido. Si siede nuovamente sul letto, senza guardarmi.
“Se vuoi saperlo ci sono pensieri più terribili del senso della vita, del gioco dei perché che stai facendo. Sapresti legare una sera come questa a qualsiasi altro brandello di giornata? Sapresti trovare la spiegazione del disagio in cui mi sono trovato per più giorni dopo una discussione apparentemente innocua con uno studente che ho bocciato agli esami del mese scorso?”
“Che vuoi dire? Non ti capisco. E chi ti ha detto che faccio il gioco dei perché?”
Si riavvicina alla finestra. “Decisamente pioverà tutta la notte. Mi faccio un bagno caldo e mi corico.”
“Non mi hai risposto”
“Ma che ne so… sarei ordinario alla Sorbona se il mio eloquio fosse sempre lucido. Magari vieni a sentirmi domani. Sono all’aula Lamberti.”
“Sì, se ho tempo verrò. Ti ringrazio della birra; e della compagnia.”
“Salutami Anna se la rivedi.”
“Non mancherò. Ciao.”
“Ciao.”
Mi accompagna alla porta e mi saluta. Scendo i gradini e mi avvicino al portone, mentre il concierge mi augura buona serata con cortesia. Rispondo con affabilità anch’io.
Fuori, in realtà, non piove quasi più, e mi fermo sul marciapiedi di fronte, per capire dove debba andare. Al mio albergo ci vorrà un chilometro scarso. Mi avvio verso la piazza che si intravede in fondo al viale. I lampioni la illuminano con fermezza, i palazzi sono ben visibili, muti; c’è parecchia gente che cammina.
Filippo. Coinvolgente, profondo. Nel congedarmi è stato ruvido, però, anche un po’ sgradevole. Quella fretta con cui mi ha mandato via, chissà perché.
Ci sono due ragazze che mi affiancano nella strada. Si fermano, una racconta qualcosa di un certo Piero e l’altra ride, prima ancora che abbia finito di ascoltare. E se Filippo avesse fatto la stessa cosa? Si fosse preso gioco di me, da quando gli avevo parlato in birreria, con tutte le mie assurdità?
Non sono pochi i pensieri che mi si accavallano in testa. Oggi mi sono quasi innamorato e fatto fare un sermone da uno sconosciuto. Entrambi mi hanno parlato e cercato di condurre da qualche parte. Si sente ancora la risata della ragazza. Mi volto e vedo che hanno ripreso a camminare. Filippo col suo dire e non dire, si era fatto beffe di me. Addirittura il vangelo, e la concione su cosa era importante nella vita. “Sei un originale … un inquieto … ci vogliono apostoli e non profeti”. Vorrei tornare su da lui. Mi fermo indeciso. Incrocio lo sguardo curioso delle due studentesse. Una mi sorride e mi saluta. Le rispondo, mi è rimasta voglia di parlare. Mi rivolgo all’amica.
“E’ sempre così allegra?”
Ridono entrambe e si allontanano in fretta. Le ho spaventate? Mi specchio nella vetrina accanto il marciapiedi. Riflette me, il lampione di fronte e l’asfalto lucido, reso più nero dalla pioggia.
Sara, ma mi manca davvero? Quel moto di tenerezza di oggi, il desiderio di aprirmi e parlare con lei, c’è ancora? Non è solo il fatto che siamo lontani, che posso desiderarla perché non ho di fronte i suoi occhi?
Né Anna né Sara forse è questo che devo credere.


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Cristalli

Estratto dall'opera Cristalli
di Monica Valentini


Il vento forte fece alzare le foglie secche, raccolte ai piedi degli alberi, in mulinelli gialli, verdi e marroni, per poi farle ricadere piroettando in mezzo alla strada.
Nel quartiere più povero e malfamato della città, vicino ad un sacco di rifiuti, un cane ed un gatto si stavano fronteggiando per accaparrarsi un pezzo di carne putrefatta. Entrambi ridotti a pelle ed ossa, si studiavano guardinghi per scovare un punto debole nell'avversario, prima di scontrarsi ed uscirne vinto o vincitore: il perdente avrebbe rinunciato al magro pasto e molto probabilmente non sarebbe arrivato fino a sera. Ed una volta morto, sarebbe diventato a sua volta pasto per altri animali selvatici.
Un gruppo di bambini stava giocando ai banditi in mezzo alla strada, vestiti di stracci, noncuranti del freddo che gelava le ossa, ripetendo scene di film ed immedesimandosi nel personaggio e se c'era da fare a pugni non si tiravano indietro, picchiandosi a sangue. Era un modo come un altro per dimenticare la fame.
In quel quartiere la polizia se ne stava appostata ad ogni incrocio, in ogni via, perché quello era il regno della delinquenza, della malavita, della degradazione umana.
Il ragazzo chinò la testa alla vista di una pattuglia ed imprecò sommessamente. Per un attimo pensò di cambiare strada e di eluderla come aveva fatto con una precedente, ma era stanco e voleva tornare a casa. Uno dei tre poliziotti di ronda, armato di manganello, con il giubbotto antiproiettile ed il casco in testa, gli si avvicinò e lo fermò.
-Ehi, Mohican. Dove te ne vai in giro con quella fottuta aria da colpevole? Cos'hai combinato?-
L'interpellato fissò i propri occhi in quelli del poliziotto e sorrise con sarcasmo.
-Passeggio. E' forse vietato?-
L'altro serrò le labbra ed alzò il manganello, portandolo sotto il mento del ragazzo.
-Vedi di non farmi girare i coglioni, o ti darò una ripassata che non scorderai per tutta la tua vita di merda!- sibilò tra i denti.
Lo guardò con disprezzo, quindi gli indicò la macchina.
Con aria strafottente, Mohican poggiò le mani sulla volante ed allargò le gambe per la perquisizione. Dentro di sé sorrise divertito, ripensando a quando aveva lasciato i suoi coltelli a Josh prima di seguire la ragazza. Sapeva che sarebbe andata a finire in quel modo: di giorno non si poteva girare per strada senza venire fermati ad ogni incrocio, ma di notte... Di notte sapevano come eludere le pattuglie: le tenebre erano il loro regno.
-E così non hai un cazzo di niente addosso, eh?-
Mohican si girò e sorrise con aria serafica, alzando le spalle e replicando:
-Quello ce l'ho e l'hai anche tastato bene.-
L'uomo impallidì e con stizza soppesò il manganello, sentendo una folle rabbia omicida invadergli il corpo, fino ad ottenebrargli la mente.
-Vattene, stronzo, o giuro che...-
-Che mi ammazzi?- finì per lui, sogghignando. -Via, O'Keeffe, l'hai ripetuto tante di quelle volte che mi ci sono abituato. Se tu avessi sempre accompagnato i fatti alle minacce, il cimitero ora sarebbe pieno solo del mio cadavere! Ci vediamo, sbirro!-
-Maledetto bastardo figlio di puttana!- imprecò con stizza.
Ma prima che potesse avventarglisi contro, uno dei suoi colleghi lo trattenne e cercò di calmarlo. Mohican lo fissò gelido, quindi, con passo sostenuto, riprese il cammino, alzando il bavero del giubbotto dove, sulla schiena, spiccava l’effigie di un lupo.
Alle spalle di un palazzo di sei piani prendeva il via una serie di case abbandonate, fatiscenti, con i muri infiorati da disegni e frasi oscene ed a contatto con queste un grande prato senza alberi, anch'esso lasciato in abbandono. E lì, nell'ultima casa a ridosso del prato, c'era il covo dei Wölfe.
Mohican vi si diresse con passo sicuro ed il volto sorridente, immaginando la faccia di Siegfried alla buona notizia. Entrò in casa e si diresse immediatamente alla botola nascosta che conduceva ad un bunker sotterraneo.
Come iniziò a scendere le scale, undici teste si voltarono contemporaneamente a guardarlo e, dove un attimo prima aveva regnato la confusione più assordante, calò un improvviso silenzio.
I dodici componenti dei Wölfe erano tutti ragazzi tra i diciotto ed i ventitre anni, a parte due, tra cui Josh il loro capo, che si avvicinavano alla trentina. Tra tutte le bande di teppisti che infestavano il quartiere, i Wölfe erano considerati i più efferati ed i più cinici. Il loro nome incuteva timore a tutti, anche al più recidivo dei delinquenti ed essendo il gruppo dominante, venivano odiati e rispettati con freddezza. Da tempo, ormai, esercitavano il dominio su tutti gli altri gruppi e se capitava che qualcuno avesse delle noie da parte di questi, si rivolgeva a loro per ottenere protezione o vendetta.
Il loro potere era totale: per arrivare ad essere i capi indiscussi del quartiere avevano dovuto lottare contro tutte le bande rivali e vincerle ed ora, giunti sul gradino più alto, se ne stavano relativamente quieti, dominando dall'alto tutte le situazioni. Difficilmente qualche gruppo trovava il coraggio di affrontarli apertamente e se lo facevano, i Wölfe li eliminavano subito, non perdendo l'occasione per cementare la loro superiorità e la loro crudeltà, incutendo maggior timore e soggezione negli altri, tanto da lasciar credere che mai nessuno sarebbe stato in grado di detronizzarli.
Al di sopra di loro c'era solo la malavita organizzata, a carattere mondiale ma, a differenza di questa, che agiva di nascosto operando droga, prostituzione, gioco d’azzardo, armi ed estorsioni, i Wölfe agivano senza celarsi, commettendo le più atroci barbarie anche alla luce del giorno.
I nomi dei dodici componenti erano conosciuti da chiunque, soprattutto dalla polizia, che cercava in ogni modo di poterli incastrare e rinchiudere una volta per tutte in penitenziario. Ed era questo, più della loro crudeltà, che invitava gli altri delinquenti a rispettarli: quello di non essere mai stati fermati ed arrestati. Pareva si divertissero a prendere in giro le autorità, commettendo delitti e furti senza lasciare prove o testimoni che potessero incolparli. Per questo motivo la polizia ce l'aveva a morte con loro.
Gli occhi di Mohican si posarono su tutti, quindi inspirò soddisfatto e sorrise. Afferrò il panino che gli offriva Nik e andò a sedersi vicino a Siegfried, che lo guardava con totale distacco.
-Tieni, Mohican. Hai incontrato gli sbirri?- s’informò Josh porgendogli i due coltelli.
Il ragazzo li prese e se li mise in tasca, poi addentò il panino e rispose:
-Sì, O'Keeffe. Mi ha perquisito.-
Karl, l'altro componente più anziano, sogghignò e andò a stendersi sul divano, mormorando con indifferenza:
-Quel fottuto sbirro ha l'aria troppo bellicosa.-
-Già. Penso sia giunta l'ora di dargli una buona ripassata.- propose Japaner, un giapponese di diciannove anni che portava sempre un paio di occhiali scuri e che, di tanto in tanto, si perdeva in concentrazioni antiche di millenni, a testimonianza che, benché si trovasse in occidente, era pur sempre un orientale che amava gli antichi costumi del suo popolo.
-Sì, ma non lui. Sapete che si è sposato da poco?- esordì Peter con un sorrisetto lascivo che non lasciava spazio all'immaginazione.
I Wölfe sogghignarono divertiti e Stefan si alzò dalla sedia, sbadigliando e spegnendo la canna che teneva in mano.
-Scommetto che la mogliettina è una figa capace di seccarti le palle e sai pure dove abita, vero?- osservò ironico.
Il sorriso di Peter non lasciò dubbi in proposito.
Infine Mohican si alzò e, terminando di mangiare l'ultimo boccone del panino, fece tacere tutti.
-Ok!- esclamò. -Qui al mio fianco c'è qualcuno silenzioso, ma che attende una mia risposta e che mi sta fissando con i suoi occhiacci grigi.-
-Dacci un taglio.- l'ammonì Josh, che ben conosceva il carattere di Siegfried.
-Ok, ok! Ho seguito la ragazza.- iniziò ed osservò tutti i presenti, uno ad uno, rimanendo in silenzio quanto bastava per dare più enfasi alla notizia. -So dove abita.- e sorrise compiaciuto.
Siegfried rimase in silenzio, sondandolo con lo sguardo e bastò solo questo a far desistere Mohican da quel gioco.
-Agli alloggi dell'università.-
-Ti ha visto mentre la seguivi?- s'informò Josh.
-No, Cristo! Non mi faccio fregare come un coglione, io!- esplose punto nell'orgoglio.
Siegfried passò una mano in mezzo ai lunghi capelli biondi e si voltò verso Josh.
C'era di nuovo silenzio nel covo: tutti attendevano la decisione del loro capo. Da quando Laura aveva portato la notizia, Siegfried aveva deciso di andare a riprendersi la sorella ed ora che sapeva dov'era, attendeva solo il consenso di Josh.
Ma questi non accennava a volersi pronunciare. Rimase a lungo a fissarlo, chiedendosi cosa fosse successo all'improvviso. Cristo! Ti ho sempre visto duro e spietato con tutti, sempre pronto a vendicarti nella maniera più crudele per un semplice insulto e ti sei dimostrato sempre inflessibile anche quando noi eravamo tentati a lasciar perdere. Che ti succede ora? Perché vuoi tua sorella?
Terminò di fumare la sigaretta ed alzò le mani in segno di resa. Siegfried non fece un cenno; si limitò ad annuire impercettibilmente.
-Non cantar vittoria troppo presto, Dagr!- l'avvisò Josh con tono sprezzante. -Tua sorella l'accoglieremo come una nostra sorella, ma se solo vedo rincoglionirti lei farà dietro-front, chiaro? Non so che cazzo farmene di frocetti rammolliti!-
Siegfried gli lanciò uno sguardo indifferente e tornò a sedersi sulla sedia, giocherellando con il suo coltello a serramanico, con una calma glaciale.

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L'ombra della ginestra

Estratto dall'opera L'ombra della ginestra
di Monica Valentini

Lothar, Captal e Robert si presentarono alla baronessa Jeanne Lahaute, signora di Bordeaux dal giorno della morte del marito e le consegnarono l’epistola redatta da Edoardo III, nella quale dichiarava che il feudo, da quel momento, veniva ceduto al suo primogenito, il principe di Galles, ma che lei avrebbe potuto, con la supervisione di John Chandos, continuare ad amministrare la terra fino alla maggiore età del figlioletto di due anni.
La donna, giovane ed avvenente, non batté ciglio ed invitò i capitani dell’esercito a comportarsi come se fossero a casa loro ed a partecipare al pranzo che si sarebbe tenuto di lì a poco nel gran salone del castello.
Captal non se lo fece ripetere, affamato ed assetato com’era, ma Lothar e Robert preferirono controllare gli alloggi dei soldati. Così, mentre la maggior parte della città si riuniva intorno al desco, Lothar andò ad ispezionare gli uomini, le stalle ed il posto di guardia sul piombatoio.
Lungo il cammino di ronda riuscì a dare uno sguardo al di là delle mura esterne ed all’orizzonte intravide il lembo di mare che penetrava fino alla città portuale, mentre campi verdi, coltivati a vigneti, girasoli, ulivi, granturco, ortaggi, si alternavano ai campi lasciati a disposizione delle greggi, che pascolavano sotto l’occhio vigile di ragazzi e cani pastori. Vicino ad un gruppo di alberi da frutta sorgeva un borgo di case rurali, dove i contadini tornavano la sera, stanchi ed affamati per godersi un meritato riposo. In mezzo al borgo si notava una locanda, che svettava più alta delle altre abitazioni, quasi a ridosso della strada maestra che conduceva al castello e che sicuramente era meta di viandanti e di beoni. Accanto, si innalzava il campanile della chiesa, dove la gente si radunava ogni mattina prima di andare a lavorare nei campi.
Tutto sommato, Bordeaux non era male, anche se l’odore della salsedine non piaceva molto a Lothar, avvezzo più alle montagne che al mare. Ma forse era solo una questione di abitudine.
Salutò alcuni soldati di ronda ed entrò al posto di guardia. Oltre a due militi che sedevano vicino ad un piccolo tavolino, fu sorpreso di trovare un cavaliere che rideva e beveva allegramente con loro. Appena lo videro entrare, i due soldati si alzarono in piedi, salutandolo con affettazione, mentre il cavaliere rimaneva comodamente seduto, continuando a godersi la sua birra, come a voler sottolineare la sua insofferenza alla presenza di altri soldati.
-Buongiorno, signori.- salutò Lothar con fare benevolo.
I due soldati risposero cordialmente e Lothar si portò davanti al cavaliere, lasciando che la luce proveniente dalle feritoie e dalle candele lo illuminasse. Questi alzò lo sguardo sornione su di lui, ma appena intravide i suoi occhi quasi bianchi, scattò in piedi, facendo rovesciare la sedia sopra la quale era seduto.
-Mio Dio…- sussurrò in italiano, sgranando gli occhi incredulo.
-Ma voi siete…- rispose Lothar in tedesco, anch’egli sorpreso.
Si fissarono a lungo, sotto lo sguardo attonito dei due soldati che non capivano cosa stesse accadendo, pronti comunque a sguainare le spade e fu Ludovico a rompere per primo il silenzio, dicendo in inglese:
-Perdonate, messere, non vi avevo riconosciuto.-
-Voi siete… veneziano, vero?- domandò Lothar in italiano.
Ancor più confuso, Ludovico lo studiò come un animale raro, quindi mormorò:
-Come… Come fate a conoscere la mia lingua? Qui nessuno la parla, solo qualche mercante.-
-Sorpreso?- lo prese in giro. -A quanto pare, anche i cavalieri sanno essere eruditi.-
Ludovico chinò appena la testa, imbarazzato, e rispose:
-Non volevo causarvi offesa e se l’ho fatto ve ne chiedo umilmente il perdono.-
-State tranquillo, ho capito che eravate più che altro sorpreso. Come me, del resto. Ma voi… a Crécy eravate dalla parte francese.-
-Sì, dalla parte sbagliata.- ammise con una smorfia, preferendo dimenticare.
Lothar sorrise ed annuì, tornando a parlare inglese per non offendere i due soldati che erano rimasti all’erta per la reazione di Ludovico.
-Continuate pure, io volevo solo guardarmi intorno. Buona giornata.-
Con un cenno della mano salutò e tornò sul cammino di ronda, mentre Ludovico, afferrati i guanti in maglia, lo seguiva incuriosito. Lothar se ne accorse e si girò a guardarlo, per la prima volta alla luce del sole e con un sorriso chiese:
-Qualcosa non va, messere?-
-Be’… Abbiamo combattuto contro, mi avete gentilmente graziato ed io volevo solo ringraziarvi.-
-L’avete già fatto. Ludovico, vero?-
-Sì. Lothar?-
-Jawhol.-
-E’ stato un onore.- ammise portando la mano sul cuore.
-Anche per me. Non ho dimenticato il vostro gesto durante il combattimento.-
Ludovico ripensò al momento in cui, avendo preso coscienza che Lothar aveva perso la barbuta e si batteva solo coperto dal camaglio, aveva con un gesto tolto anche il proprio elmo per essere alla pari, atto che gli era valsa la stima del Principe Nero e dello stesso Lothar.
-Quando incontro un cavaliere mio pari, so riconoscerlo. Voi mi avete addirittura battuto e non esito a mettere la mia vita al vostro servizio.- rispose Ludovico accennando un inchino.
Lothar esitò un istante, studiando il cavaliere che aveva di fronte come a voler sondare la sua sincerità, quindi gli si avvicinò posando una mano sulla sua spalla e propose:
-Devo ancora mangiare: volete farmi compagnia?-
Gli occhi di Ludovico brillarono e, con un sorriso che avrebbe fatto invidia al sole, annuì e con lui si avviò verso il salone del castello.

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Il Condottiero

Estratto dall'opera Il Condottiero di Monica Valentini

Barberino del Mugello, maggio 1501
Passeggiò nervosamente avanti e indietro nella tenda da campo, sotto l’occhio sempre vigile di Michelotto, ben consapevole che contro Luigi XII e contro i Brevi papali non poteva niente: Firenze gli era interdetta. Ma sapeva pure che la Toscana era pronta a cadergli tra le braccia, dilaniata da guerre intestine troppo a lungo protratte e che gli era sufficiente bluffare per farla capitolare.
Che fare?
-Gli Orsini e Vitellozzo vogliono marciare contro Firenze, incuranti del veto.- commentò girandosi verso Michelotto.
-Lo vedo. I loro rancori personali non devono toccarti.-
-Non mi toccano, difatti. Però mi sono necessari.- aggiunse portando la fialetta di profumo alle narici.
Michelotto lo osservò in silenzio, mentre le candele inondavano la tenda di odore di cera e giocavano con le ombre sulle pareti smosse da un lieve vento primaverile.
-Piombino… Se solo riuscissi a piegare la Signoria ai miei voleri, potrei marciare tranquillamente verso la mia vera meta.-
-Gli Appiano non sospettano nulla?-
Cesare piegò le labbra in un sorriso e socchiuse gli occhi splendidi, puntandoli sul suo capitano.
-Nulla.-
Si fermò all'improvviso, udendo rumori fuori della tenda ed un attimo dopo Vitellozzo si precipitò all'interno, stravolto e con gli occhi sgranati.
-Monsignore...-
Cesare si indispettì per un simile comportamento e lo guardò con distacco, disapprovando la sua tenuta sporca e disordinata.
-Ebbene?- domandò con tono secco.
-Eccellenza, ho saputo che Sua Santità il papa ha posto un veto su Firenze: è così? Questo significa che non marceremo contro la Signoria?-
-Talmente ansioso?-
Vitellozzo, uomo rozzo, corpulento, sifilitico e capace di una crudeltà inaudita, accentuata dalla malattia venerea, si buttò in ginocchio pesantemente ed iniziò a piangere come un bambino, provocando disprezzo nell'interlocutore ed allarmando Michelotto, che portò immediatamente la mano all’elsa del pugnale legato in vita.
-Monsignore, ve ne supplico! Sapete bene quale odio io nutra nei confronti di quella città, che mi ha ucciso un amato fratello e capite bene il mio senso di giustizia. Non fermatevi, eccellenza! Firenze è vicina ed ha paura: cadrebbe subito!-
-Non posso.-
-Lasciate che prenda i miei uomini e faccia tutto da solo!-
-Non ancora.-
-Chiedo vendetta!-
-Devi imparare ad avere pazienza se vuoi sopravvivere; ora va', gli eventi matureranno.-
Vitellozzo si asciugò le lacrime e si alzò lentamente, fissando Cesare negli occhi.
-Concedetemi questo favore e sarò disposto anche a morire per voi.-
-Non dipende da me. Staremo a vedere: qualcosa accadrà.-
-Io...-
Esitò un attimo, incrociando lo sguardo periglioso di Michelotto, quindi s'inchinò con deferenza ed infossando la testa canuta nelle spalle se ne andò, lasciando il Valentino disgustato ed irritato.

~

Osservò i tre ambasciatori che gli portavano la risposta di Firenze e si accorse subito che quegli uomini lo stavano studiando per carpire i suoi pensieri più reconditi. Sorrise tra sé e sé e giocherellò con la fialetta di profumo.
-Benvenuti al nostro modesto campo. Mettetevi pure comodi, monsignori e passiamo senza indugio agli affari: non amiamo le perdite di tempo.-
I tre uomini presero posto sulle sedie e Pier Soderini porse una pergamena iniziando a dire:
-La Signoria vi permette di passare sulle sue terre, come avete chiesto, a patto che non entriate in città fortificate, che procediate a reparti isolati e battiate strade diverse.-
Cesare lo fissò negli occhi ed abbozzò un sorriso, quindi lesse le condizioni.
-Continuate, ve ne preghiamo.- invitò con voce dolce, senza alzare lo sguardo dal foglio.
-La Signoria vi vieta di condurre gli Orsini e Vitellozzo Vitelli. Questa condizione è inoppugnabile.-
-Comprendiamo benissimo.- commentò lasciando la pergamena ed appoggiandosi blandamente contro lo schienale della sedia.
Era notte ormai, eppure il Valentino era fresco come una rosa, pronto a balzare in sella e fare miglia e miglia senza accusare la minima stanchezza. Tutto il suo corpo rivestito di damasco nero a liste dorate emanava una vitalità a stento trattenuta, che sfogava facendo rigirare tra le dita la fialetta di profumo. La luce delle candele giocava sul suo volto mezzo nascosto dalla maschera, facendolo apparire più pallido ed incavato e donando ai suoi occhi di ghiaccio un barlume di umanità. Non portava gioielli, a parte l'anello sul quale era inciso uno dei suoi motti ed unica nota di colore era la piuma bianca sul berretto nero, che gli conferiva signorilità e raffinatezza. Per l'occasione aveva deposto l'armatura, apparendo così in tutta la sua splendida giovinezza.
Ma se tutto il suo essere emanava una fredda arroganza, la sua mente era in continua elaborazione: Firenze lo temeva, questo era certo; ciò nondimeno non poteva toccarla.
-Siamo d'accordo.- proruppe dopo un lungo silenzio, con tono fermo e sprezzante. -Riferite pure alla Signoria che accettiamo, ma a queste condizioni: Firenze deve nominarci suo condottiero; non deve assolutamente concedere aiuti a Piombino; deve mettere nelle mani di Vitellozzo gli ostaggi che egli riterrà opportuni; deve acconsentire al ritorno dei Medici oppure formare un governo di cui noi possiamo fidarci. Potete andare.- terminò alzandosi e mettendo fine all'incontro.
I tre ambasciatori si fissarono sbigottiti e dopo aver mormorato saluti circostanziali se ne tornarono a Firenze con aria preoccupata ed incredula.
Rimasto solo, Cesare si sedette e chinò la testa, meditabondo.
Il giorno dopo levò il campo, continuando imperterrito la sua avanzata sul territorio toscano. Voleva dare l'impressione di marciare contro Firenze, per spremere la Signoria, e poi proseguire per Piombino, sperando che nessuno si accorgesse del bluff. Cercava di riproporre lo stesso gioco fatto con i Bentivoglio, sicuro che anche stavolta avrebbe vinto.
Un nuovo Breve papale gli giunse, intimandogli di tornare indietro, ma l'ignorò, non riuscendo a staccare gli occhi dalla città che aveva davanti. Gli sarebbe bastato allungare la mano e Firenze sarebbe caduta come un frutto maturo, senza sprecare un solo uomo. Ma non poteva: era pura follia sfidare Francia e Roma contemporaneamente.
Per la prima ed ultima volta in vita sua chinò mestamente la testa, astenendosi dal prendere Firenze, sperando almeno di piegare la Signoria con le condizioni poste in atto.

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giovedì 22 novembre 2007

Altern Life

Estratto dall'opera Altern Life di Deborah Maccelli

ADDIO BLOG
Nuoce gravemente alla salute

Caro blog Oggi ho ritrovato un vecchio articolo, che a suo tempo proprio non mi ero filata, e che parla proprio di te. Della tua forma cartacea per essere sinceri, ma poco cambia infondo.
Lo ammetto, come blog mi permetti di interagire con altre persone, ma ormai siamo talmente tanti a tenere questo pseudo-narciso-diario che oggi, nemmeno quello del buon vecchio V Anarchy, è più visitato come un tempo; a Te poi non ti si fila nessuno. ' Nel rumore di 1000 voci si trova il vero silenzio. 'L'alternativa per essere visibili è pagare profumatamente. Dice aiuti e parecchio risultare tra i primi sui motori di ricerca o magari infilare qualche banner su siti tosti.Già ma per cosa, per far sapere i miei pensieri alla gente, convincere qualcuno di qualcosa?Hei non faccio mica politica !!! Ognuno se la canti e se la suoni come vuole, non mi interessa.Io penso a me, alla mia salute e che la mia pancia sia sempre piena, ed è un lavoro già abbastanza faticoso, per preoccuparmi di altro.Ed a proposito di salute, caro mio, senti che dicono i cervelloni proprio su di te.Questa ricerca, condotta dalla Glasgow Calendonian University, dimostrerebbe che sei dannoso; causeresti mal di testa, insonnia, problemi digestivi, disagi sociali e chi sa che altro.Che flagello, accidenti! E io che ti usavo come sfogo e distrazione a fine giornata. Figurarsi. Infondo però non è che abbiano scritto una bestemmia. Rimuginare da soli sui propri guai non è salutare, non lo è proprio. Anche perché, che tipo di soluzione puoi sperare di trovare parlando tra te e te. Sì, qualche volta qualcuno butta là un messaggio, tipo quello di Margio della scorsa settimana: 'per risolvere tutti i tuoi problemi, e tutti i problemi del mondo, basta una sola cosa: sesssso'. Un vero genio!!!No, hanno ragione i saputelli della Glasgow Calendonian University, sei un loop di problemi irrisolti, e alla fine il sistema-uomo sbrocca.
E poi, diciamocela tutta, io sono una tipa moderna, faccio il lavoro del futuro, sono proiettata verso il domani mentre tu bello mio, anche in questa forma, anche se su internet e altre cretinate, sei il trapassato remoto.Forse è anche per questo che mi affascinavi tanto. A volte vorrei scriverti con penna e calamaio, fare il pane in casa e spostarmi a piedi per potermi riappropriare del tempo, senza rincorrerlo continuamente.Ma ora si cambia vita e si approda nel meraviglioso Metaverso. Sì, per un po', magari per sempre, te ne vai nel cassetto virtuale e ci resti. Mi dispiace per i pochi fedeli che ogni tanto rispondevano ai miei topic; lo ammetto, magari come blogger non ero granché e trascuravo un po' la mia creatura, ma ormai la decisione è presa : Vi saluto, e se volete prendervela con qualcuno, questa è Anna che mi ha parlato di una nuova comunity. Lei ha perfino una mezza storia con un certo Rajputs. Figuriamoci. Cara ragazza, ma esageratamente tuttologa, e non voglio che continui a farsi bella della sua posizione nella realtà-virtuale. Lei fa tutto, sa tutto, ha un'opinione su tutto, rompe i coglioni per tutto e soprattutto non si sta mai zitta. Parla, parla, parla, non ascolta mai ed è fantastica quando chiede un consiglio e non ti fa nemmeno aprir bocca. Ormai la frequento quasi esclusivamente in chat; almeno lì posso parlare con altri mentre lei fa i suoi soliloqui. Basta solo che ogni tanto le risponda…' hai proprio ragione ' oppure ' non potevi dir meglio '. La cogliona, nemmeno se ne accorge. Ogni tanto però tira fuori qualcosa di interessante, come questa volta. Haaa … Ecco… Vedi… questo è il tuo potere, farmi parlare, soprattutto delle cose che non sopporto e che magari nemmeno sapevo di non sopportare.Ma ora basta, si va per il nuovo mondo, dove tutto è possibile e non ci son limiti, paure o pericoli. Un bacio ai pochi adepti.Posta un commento / iscriviti / autenticati / invia ad un amico
Ok colleghiamoci.
Mi pare si chiamasse Altern Life. Sì, deve essere quello di cui parlano tutti, dove puoi vivere una vita intera parallela alla reale. Diventi un personaggio o meglio un avatar, con tanto di casa, lavoro, superpoteri…tutto normale insomma. Voglio proprio vedere di che si tratta. http://www.alternlife.met/E vai si parte.Per prima cosa registriamoci.Forte, il nome lo scelgo io ma il cognome lo devo scegliere tra una lista esistente. Evidentemente si comporranno delle relazioni già con la scelta del cognome. Mi sento eccitata come una ragazzina e tutto solo per un gioco sul web. Però mi attira parecchio. Ok contegno, procediamo.Bene, adesso scegliamo il nick…vediamo…fatarmata…no troppo violento, in fin dei conti son qui per ciattare non per spaventare qualcuno.E poi magari, potrei cambiare tutto di me, perfino il sesso. Durante le mie chiacchierate potrei fingermi un uomo.Sarebbe Forte. Quindi ci vuole qualcosa di davvero anonimo. Vediamo un po’.Anna usa una parola, di una lingua strana, che vuol dire libertà, ma non andrei a cercare chissà cosa.Qualcosa di semplice. Magari di etnico. No meglio di no, di che sa.Ah ci sono, AngelHeart. Infondo sono un tipo angelico e come nome dovrebbe essere piuttosto rassicurante e sicuramente privo di indicazioni sul sesso dell’avatar. Sì, mi piace, vada per AngelHeart. Di sicuro nessuno lo sta già usando.Ok cominciamo.
Registriamoci : Nome AngelHeart Cognome Writer Data di nascita : 30/09/xxxx
Ed infine l'e-mailE ora comincia il bello. Devo scegliere il mio aspetto, il mio sesso … hei ma posso essere anche un animale. Forte. Sono veramente carini. Sembrano dei mostriciattoli tridimensionali.Sinceramente ci sono dei cliché spaventosi. La ragazza e il ragazzo della porta accanto: dei fichi secchi e belli vestiti molto casual…un classico, parecchio noioso. Poi che c'è. I tipi da discoteca, altrettanto standard. No, proprio no. Son vestiti come delle parodie di se stessi. Vediamo. E questi scoppiatoni. Sembrano usciti da un rave party. Per fortuna ce ne sono altri, molti altri.Haaa uffa. Tra tutti questi personaggi son indecisa.Non so che scegliere, ma la bestiolina mi attira parecchio. Sì, vada per Furry. Ha delle orecchie niente male. Sembra una coniglietta sexi, ma con le palle. Tutto il contrario di me. Mi piaci piccola. Gira gira però sempre femmina resto. Eccoci, adesso dovrei mettere i miei dati, vero nome e così via. Non ci penso proprio.Usiamo la fantasia. La nazionalità però la metto corretta. Voglio parlare con italiani almeno all'inizio. OK registrata finalmente. E le carte di credito che ci fanno? Ah sì giusto, per vivere in altern life usi del denaro finto, ma che può essere incrementato con ‘frusciante’ VERO. Furbi sti tizzi. Se devi comprarti casa, procurarti accessori particolari e altro servono soldi.Adesso non manca altro che scaricare il programma e si parte.Ok installato, ed è anche leggero. Dove ho messo il casco e la cintura.Accidenti alla precisione che non ho! Eccolo, e ci sono anche i guanti. Perfetto, immersione completa.Vediamo che succede.
Welcome in your first day in altern life
Mmm notevole. Un mondo virtuale veramente ben realizzato. I colori però sono troppo accesi per i miei gusti. Abbassiamo il colore dal visore. Ecco, già meglio. Una vera città in piena regola, con tanto di cestini per i rifiuti. Se cammino che succede. Niente!! Come, ma se mi sto muovendo, perché non cambia la prospettiva? Ma dove sba…accidenti non ho acceso la cintura. Che scema. Il programma come fa a registrare i miei movimenti se non li traduce tramite le informazioni prese dalla cintura. Muovi l'anca e muovi il personaggio. Scemotta! Ok ora si.Forte, va un po' a scatti ma non è male. Devo essere nella piazza principale. Sì, c'è il municipio e una bella fontana d'acqua azzurrina. Bella fantasia davvero. Trovare oggi una fontana con tanto d’acqua zampillante in una piazza …questa sì che è fantascienza.Alberi, foglie e un bel PROFUMO! Accidenti, anno pensato anche ad attivare la cognizione sensoriale secondaria. Complimenti. Vediamo come interagisce con il tatto, viste le premesse magari funziona a dovere. Vediamo, cosa posso toccare? Magari se metto una mano nella fontana. Riprodurre la sensazione tattile del bagnato; accidenti non è affatto facile, complimenti. Questi sanno fare il loro mestiere accidenti. Mi rode ammetterlo ma son veramente abili nella percezione sensoriale. I personaggi però sono un po’ legnosi nei movimenti, che vuoi pretendere. È già troppo quel che c'è. Devo pur trovargli un difetto.Inoltre, per non obbligare alla pedana rialzabile, hanno strutturato tutta la realtà virtuale in pianura. Questo non è sbagliato. Chi vuol farsi una passeggiata in salita che si colleghi a Montain.met. Si leva la voglia di pendenze e salite. Programma più faticoso e noioso non esiste. E pensare che c'è gente che ancora oggi passa le proprie vacanze a scalare montagne simili a quelle simulate, con tutta la fatica annessa, per non parlare del pericolo inutile che si corre.Che razza di Notasck. E questo messaggio che roba è.Che cretino, almeno fammi arrivare. ‘Ignora e vai avanti’.Vediamo se trovo Anna. Avere un mentore magari non è male.Ecco una cabina del telefono, un tocco di preistoria ormai.Il ‘cerca amici’ dovrebbe essere attivabile da lì, almeno dovrebbe.Beh potrei sempre attivare il comando diretto invocando il menù, ma per ora voglio stare al gioco.Eccolo qui: Per contattare un amico scrivere il suo nick dopo aver digitato il numero verde 158158 usando la tastiera virtuale.Numero verde?
Edit->Guide Line -> Green Number
"I numeri verdi sono utilizzabili per avere servizi gratuiti all'interno del gioco"
Mmmm, ottimo visto che ancora non ho un soldo, fatta eccezione per gli spiccioli in regalo a chi si registra. Chiamiamola. Il suo nome è Uhuru Smith, credo.Proviamo.

Maggiori informazioni http://stores.lulu.com/debbystefy
Vai al sito http://www.alternlife.it/Thriller.html

UNA CITTA', UN GIORNO

Estratto dall'opera UNA CITTA' , UN GIORNO di Giovanni Anello


UNA CITTÀ
Una città... una di quelle che riconosci da lontano. E’ una donna esperta, abile a sedurre e in grado di appagare ogni tuo desiderio.Forte apparentemente e fiera, ma anche fragile e molto incostante, per tanti indecifrabile.Superba fino alla più cieca violenza, ma capace anche di estrema misericordia nei confronti di chi le appartiene. E’ una donna che ora ti ama e subito dopo ti respinge, lasciandoti un senso di vuoto e di non appagamento, fino a che ti stanchi e te ne allontani. Pur nell’assenza, lei ha però lasciato una traccia ormai indelebile sui sentieri nascosti della tua vita. Nulla ci puoi fare, fra dieci, venti, forse cinquant’anni, tu tornerai a cercarla e solo allora capirai quanto l’hai amata di un amore disperato.Per questo chi è nato in questa città e ha deciso di allontanarsene, prima o poi ci torna, per il bisogno di incontrare ancora, anche solo una volta, il primo amore, colei che si è amata un tempo e che ha lasciato dentro ricordi incancellabili.Ricordi di suoni mediterranei e di oriente, di aromi e di fragranze che si mescolano inesorabilmente con gli effluvi puzzolenti delle strade, che insieme impregnano i muri delle case, i vestiti ed anche il midollo dei suoi abitanti.Esalazioni pungenti della città che colpiscono chiunque si addentri nell’intricato dedalo dei suoi vicoli, come l’odore delle balate trasudanti di sole fetido, quando scendono le ombre dietro i fabbricati e chiudono i mercati di quartiere. Odori e sensazioni che sapevano, un tempo, anche di mare e che per forza influenzavano l’umore e il passeggiare della gente. Quella gente che una volta, tanti anni fa, andava a “La Marina” a passeggiare sul lungo marciapiede che fiancheggiava la costa, per lasciarsi bagnare dagli schizzi del mare che si infrangeva sulle pareti della banchina.Quella gente che, seduta ad osservare il mare, ascoltava il ritmo regolare delle onde e sulla base di questa misura costruiva, giorno dopo giorno, l’armonia della propria esistenza.Poi, improvvisamente, venne la guerra e piovvero bombe sulla città. Era il mese di maggio del 1943.Tragico mese di maggio, terribile profeta di nuove sciagure, non sei pago di aver sfregiato per sempre il volto di questa città? Perché mai vorrai colpirla ancora?Molti funerali furono celebrati quel mese, in tanti piansero i cadaveri sepolti sotto le macerie delle povere case crollate davanti al porto, ma nessuno pensò di celebrare, allora, un funerale per la morte del mare.Alla fine della guerra, fu deciso di seppellire il mare là dove era stato colpito senza alcuna pietà, tumulandolo sotto i cumuli di detriti dei bombardamenti e alzandogli dinanzi un paravento di cemento, quasi a voler nascondere il defunto e così togliere in fretta l’abito del lutto, ancora troppo recente.In tal modo la città iniziò a fare a meno del mare, la città “tutto porto” si trasformò in una città tradita, privata della sua identità, quella che la natura le aveva assegnato in dote. Una città senza più il suo mare, presa in giro dai suoi stessi abitanti, che si sono fatti beffe di quella posizione così privilegiata, tra l’azzurro mare da un lato e le verdi colline dall’altro.In quell’altra parte della città, dove si ripete un simile sberleffo, qualcuno ricorda ancora il profumo degli agrumeti, coraggiosamente aggrappati agli ultimi lembi di quella terra ancora non rubata dal cemento: profumi di zagara e di mandarini che si espandevano sulla città, circondata da una corona di montagne divenute in pochi anni solo un ammasso di povere pietre, arse dal fuoco. Tra queste due burle urbane, tra il mare e la montagna, questa città posa le sue fiacche membra, protagonista di una bizzarra commedia, in cui ogni abitante interpreta una parte che ancora molti, purtroppo, hanno voglia di interpretare.Città multistrato, fatta di meccanica e di umanità sovrapposta; città trafficante di imbrogli, speculatrice di sopravvivenza umana, sempre in guerra con la legalità, capace di indignarsi di fronte all’illecito ma che un attimo dopo gli fa da albergo, emblema della schizofrenia di chi vuole riscattarsi dalla miseria, ma allo stesso tempo si compiace dei propri dolori.Una città che accetta uomini e cose provenienti da ogni continente e li mescola disordinatamente senza grazia. Brandelli di umanità disperata, facce multi-etniche che si confondono in un arcobaleno di volti ed espressioni.Città superba, che ambisce a diventare metropoli europea ma che, invece, si accontenta dell’apprendistato. Un tirocinio prolungato, che si trascina da troppi anni, frenato dalla pigrizia di tutte quelle città del mondo dove il sole brucia qualsiasi cosa, persino la voglia di rivalsa. Città oziosa e indolente, dove un’ora di orologio non è quasi mai fatta di sessanta minuti, da sempre abituata alle modifiche imposte dal tempo, dalla rotazione ininterrotta dei conquistatori che hanno abitato le sue terre. Invasioni protratte per secoli, che malgrado tutto hanno lasciato in eredità la vera ricchezza di questa città: un patrimonio raro di mescolanze culturali, artistiche e architettoniche che ben la distinguono fra le altre città del mondo. È però un’eredità acquistata a caro prezzo, pagata con una moneta di riscatto che è costata ad alcuni sangue e sudore, ma che altri invece hanno preferito lasciare in debito, accumulando per secoli montagne di interessi mai pagati e che oggi sono diventati i caratteri di una popolazione: l’incapacità di difendere la propria terra, di difendere il proprio patrimonio artistico, l’incapacità di restare fedeli alla propria storia.Una storia gloriosa, iniziata nell’ottavo secolo prima di Cristo ad opera dei Cartaginesi, passata più tardi ai Romani, poi agli Arabi, ed ancora ai Normanni, quindi agli Aragonesi, e così via, fino all’Unità d’Italia.Dimentica del suo passato, alla fine questa città ha lasciato un’impronta maligna sul carattere di molti suoi abitanti, che oggi difficilmente può essere cancellata, come se un nuovo “peccato originale” fosse indelebilmente impresso nell’anima di coloro che hanno la ventura di nascere e di vivere in questa città. Resistono per fortuna gli “eroi”: persone normali, che sopravvivono al carattere di questa città, persone che hanno puntellato il percorso di una storia antica e moderna, con la determinazione che richiedono le scelte decisive, quelle che restano scolpite nella storia con la forza ed il coraggio di non tradirle mai: il coraggio di scegliere definitivamente, senza che le infinite contraddizioni di questa città possano in qualche modo scalfire la consapevolezza di aver fatto la scelta migliore, anzi l’unica che poteva essere fatta, in questa città che si chiama Palermo. (continua.....)

ALFREDO
La sveglia del professor Mantovani era puntata alle cinque e mezza, ma negli ultimi cinque anni quella sveglia non aveva più suonato perché, immancabilmente, il dito del professore premeva il pulsante del vecchio orologio pochi istanti prima che questo facesse sentire la suoneria.Così, anche quella mattina, il silenzio della via Resuttana non venne disturbato dall’irritante campanello di quell’antica sveglia.Per il professor Alfredo Mantovani, partecipare al crepuscolo mattutino era diventato un bisogno irrinunciabile: un’oasi di quiete che negli ultimi anni lo aveva aiutato a placare i tumulti dell’anima e ad ascoltare, per quanto credesse di poter fare, il silenzio di Dio.Da qualche mese, però, le mattine del professore erano diventate meno serene del solito. Giunto alla soglia dei sessantatré anni, anche per lui era arrivato il momento in cui ognuno inizia a riepilogare la propria vita e si rende conto all’improvviso di essere giunto a quell’età in cui vengono emessi i primi verdetti.Come ogni mattina il professore preparava la caffettiera. Con la schiena poggiata sull’unica sedia rimasta in cucina, anche quella mattina prese il contenitore della miscela, un vecchio barattolo di Nutella adibito al nuovo uso dopo che i figli l’avevano avidamente svuotato, ma questo era accaduto molti anni prima. Svitò con le dita affusolate il coperchio di plastica e versò con un cucchiaino la polvere nera nel filtro della moka.Mentre eseguiva quel rito mattutino, quasi gli si materializzò dinanzi un’immagine di se stesso, appena dodicenne, nella sua vecchia casa di Meda, mentre beveva il latte tiepido da una tazza colorata, ricordo della sua infanzia, e poi l’immagine di suo padre, che parlava a bassa voce per non svegliare il fratello più piccolo, e quella della madre, che gli preparava il giaccone più pesante per ripararsi dal freddo.Le voci gli rimbalzavano in testa, provenienti da chissà quale stanza della sua memoria.– Mamma, sto andando a zappare, con questo maglione sentirò troppo caldo…– Portalo Alfredo, ascolta tua madre…Nonostante fossero passati cinquanta lunghi anni dall’ultima volta che aveva accompagnato suo padre ai campi, Alfredo riusciva a ricordare ancora l’odore acuto del petrolio con il quale il padre preparava i lumi per la notte e il rumore sordo del calpestio degli stivali in gomma dura. Il professor Mantovani, figura alta, snella, un volto ricamato da un buon numero di rughe sapienti, impreziosite da un’aureola di capelli grigi che gli conferivano un aspetto piuttosto signorile, era figlio di contadini. I suoi genitori l’avevano fatto studiare ed incoraggiato all’insegnamento. Al termine dei suoi studi era diventato professore di lettere in una scuola media di Milano. Era felice, anche i suoi genitori erano contenti del loro figlio. Ogni mattina si alzava molto presto per prendere la prima corriera che lo portava da Meda al Terminal degli autobus di piazza Luigi di Savoia, davanti la Stazione Centrale. Erano anni felici, quelli. (continua....)

ANTONIO
Antonio non aveva dormito bene quella notte e quel poco di sonno che era riuscito a raggranellare era stato disturbato da un pensiero che lo aveva assai tormentato. Questo gli accadeva in realtà frequentemente, ma per motivi assai diversi, molto comuni tra gli adolescenti che durante le notti sperano degli amori impossibili. Svegliatosi dalle urla intimidatorie della madre, quel giorno Antonio si era alzato dal letto con il fermo proposito di non andare a scuola. Ma purtroppo, non avendo ancora un carattere così volitivo, come ogni mattina Antonio si vestì di tutto punto, fece un’abbondantissima colazione a base di latte, biscotti e Bondì Motta, ed uscì da casa con lo zaino sulle spalle.“Chi se ne frega delle ultime interrogazioni” pensava, mentre a piedi già si incamminava verso la fermata dell’autobus. Antonio era il secondo ed ultimo figlio di una famiglia come ce ne sono tante a Palermo, appartenente a quel ceto favorevolmente propenso al consumo, grazie al quale il sistema economico di questa città, fondato prevalentemente sul commercio, riesce a sopravvivere. Quando nacque, suo fratello era già troppo grande. Per questo, non potendo condividere con lui i giochi dell’infanzia, era cresciuto affettivamente come se fosse figlio unico, dividendo i primi anni della sua vita con i personaggi dei cartoni animati giapponesi. Era abbastanza alto di statura, più alto di molti suoi coetanei, capelli nerissimi e un po’ pacchionello, ma non in modo esagerato; aveva quel po’ di ciccia sufficiente a creargli un celato complesso di inferiorità nei confronti dei suoi compagni. Frequentava il quarto anno dell’Istituto Tecnico Commerciale “Duca degli Abruzzi”.Non aveva brillato tutto l’anno, come del resto non aveva fatto in quelli precedenti, accontentandosi del “sei politico” in tutte le materie. Nel corso della sua pur breve esistenza aveva infatti assunto uno stile di vita molto diffuso tra i giovani della sua età, finalizzato esclusivamente al raggiungimento di un obiettivo minimo indispensabile: la promozione. Nessuna ambizione ad eccellere, nessun desiderio di competere: se qualcuno dei compagni di classe voleva emergere, Antonio era il primo a farsi da parte.Per raggiungere questo obiettivo minimo, Antonio utilizzava una pratica cognitiva abbastanza elementare, accompagnata però da una buona dose di furbizia, basata sulla collaudata formula “minimo sforzo - minimo apprendimento”.Si era presto stancato delle raccomandazioni che, sin dal primo giorno di quell’anno scolastico, avevano fatto i professori, tipo l’importanza di “studiare al quarto anno, soprattutto per arrivare al quinto e presentarsi l’anno dopo, agli esami di stato, con una buona media”.Non aveva importanza per lui diplomarsi con un bel voto, semplicemente perché pensava di aver già deciso cosa fare da grande: arruolarsi nell’Esercito e fare il militare di carriera: “tanto prendono a tutti”, diceva. (continua....)

ADRIANA
Adriana pensava che la vita, finalmente, stava offrendo anche a lei un po’ di fortuna. Non era mai stata molto generosa nei suoi confronti la vita, almeno fino a quel momento.Perfino quella volta che tutte le ragazze del bairro l’avevano tanto invidiata per il fidanzato italiano, anche quella volta, il “colpo di fortuna” così sbandierato alle amiche si era in poco tempo rivelato una beffa, abilmente mascherata da buona sorte.“Se si sblocca la situazione, questo lavoro lo mollo, finalmente!”Il tempo passava, le auto schizzavano incuranti di lei e della bambina. Adriana iniziò a preoccuparsi, non per se stessa ma per la sua creatura e così un’ansia latente la colse impreparata. Dovettero passare più di 10 minuti, ma infine l’autobus arrivò. Adriana fece segno all’autista, quindi con qualche difficoltà salì sui gradini con il passeggino tra le braccia.Si accorse che tutti i posti erano occupati. Si diresse verso l’obliteratrice per timbrare il biglietto. “Speriamo di trovare posto…”Come se qualcuno avesse ascoltato il suo pensiero, immediatamente un ragazzo dell’ultima fila si alzò per farla sedere. Adriana lo ringraziò e si sedette.Quel giovane si offerse persino di timbrarle il biglietto. “Però, che gentile…” pensò.Il ragazzo rimase in piedi, accanto ai due sedili. “Forse lei è una sua amica…”, pensò Adriana, osservando la giovane fanciulla seduta di fianco.La bimba si era appena svegliata. – Oi pequena… Con un movimento della mano fece scattare la cinghia del passeggino, liberò la bambina e la prese in braccio. – Che bimba deliziosa, come si chiama? – chiese la ragazza.– Silvia. – rispose Adriana, lieta che anche quella graziosa ragazza si complimentasse per la bambina.– Oh… – fece la ragazza porgendole un dito – ciao Silvia! Da dove vieni tu? Come sei abbronzata…– Veniamo dal Brasile – si limitò a dire Adriana, in un italiano quasi perfetto, nonostante i pochi anni di permanenza in Italia.Non voleva essere più precisa circa le sue origini, anche se ebbe la percezione che la ragazza seduta al suo fianco fosse davvero molto simpatica. D'altronde perché avrebbe dovuto dirle che erano originari di Salvador de Baia, che era arrivata in Italia da due anni e che la bambina era il frutto di una convivenza nata da pochi anni, ma già finita? (continua...)

UN GIORNO
Un giorno, non uno qualunque, non uno di quelli che, appena passato, ti dimentichi facilmente.Era un giorno di primavera, un sabato in apparenza uguale a tanti altri, un altro sabato da abbandonare nella fonderia dei ricordi, dove il crogiuolo del tempo fonde in un’unica dimensione la memoria di quasi tutta una vita. Quel giorno, invece, si preparava ad essere ricordato per sempre, intrecciando le sorti di un gruppo di uomini, le cui vite si sarebbero fatalmente scontrate contro un muro di vento, alimentato dall’odio bestiale di altri uomini. Dopo quasi cinquant’anni dai bombardamenti americani, un altro tragico maggio di bombe si preparava a diventare, per Palermo, lo spartiacque della storia.Era il 23 di maggio del 1992.Vito, Antonio e Rocco aspettavano con gli altri in aeroporto che l’aereo toccasse terra. Si coglieva una certa tensione, normale per una scorta che doveva tutelare la vita di una persona così importante. Quando si aprì il portellone dell’aereo, gli agenti erano già in posizione con le armi spianate, pronti ad intervenire qualora fosse stato necessario.Gli agenti della scorta non rimasero affatto sorpresi quando Giovanni, appena sceso dal velivolo, chiese di guidare lui stesso la Croma blindata. Lo chiedeva spesso e ogni volta che accadeva i poliziotti avevano un motivo in più per stare all’erta. Giovanni e Francesca dovevano passare un bel fine settimana a Palermo e quel breve viaggio, da Punta Raisi al capoluogo, doveva essere semplicemente una tranquilla passeggiata, un piacevole trasferimento verso la città, dove più tardi avrebbero trascorso la serata in compagnia dei lori più cari amici.Le tre auto si avviarono rapidamente verso l’autostrada, a sirene spente.La prima Croma, marrone come il colore della terra, procedeva in testa alla colonna con Antonio, Rocco e Vito alla guida. La seconda Croma, dal colore di una colomba, avanzava tranquilla, con i coniugi fianco a fianco che parlavano di cose normali, come una qualsiasi coppia di sposi, protetti da Giuseppe, il loro angelo custode senz’ali che stava seduto sul sedile posteriore. Chiudeva il corteo una terza Croma, azzurra come il più bel cielo di Sicilia. Paolo, Gaspare ed Angelo scrutavano attentamente la strada che intanto scorreva liscia come l’olio, cercando di percepire qualsiasi minimo segnale di pericolo. Ma il boia, avvolto nel suo mantello di fiamme minacciose, stava ben nascosto nelle viscere della terra, dentro un cunicolo scavato sotto l’autostrada.Alle 17,59 di quel giorno, le speranze, le delusioni, le gioie e i dolori di quegli uomini, si schiantarono sull’asfalto, esploso con violenza pochi metri prima di uno svincolo autostradale. (continua...)

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