martedì 19 febbraio 2008

Caramelle calde

Estratto dall'opera "Caramelle calde " di Arduino Boar


Il più è la luna

Pensieri appena nati, dolcemente soavi e leggeri nell'aria come ali di farfalle, al momento di prendere forma compiutamente si scioglievano nella gigantesca luna rossa adagiata sugli ultimi alberi, sulle ultime case all'orizzonte, occupando il centro della terra.
Niente pareva avere più significato. Ogni sentimento, ogni pensiero era preso nella magia del chiarore rossastro dell'immane palla luminosa, mentre alle finestre delle case, come immersi in tanti buchi neri sui muri, si stagliavano le sagome degli uomini che si affacciavano per cogliere la prima frescura della sera estiva, restando rapiti dallo spettacolo.
Anche Gina aveva aperto la porta del balcone della sua stanza e si era affacciata, rimanendo affascinata dalla luna rossa. Intorno, tutto era cambiato. Il Mincio emergeva dall'ombra come una lamina d'oro, esaltando sulle sponde le macchie scure degli alberi che lambivano le acque. Il bosco si perdeva nella massa scura agitando i misteri di paure ataviche dell'animo umano per le tenebre. Come se i sentieri si chiudessero e le piante diventassero mostri notturni, capaci di inghiottire quanti avessero osato violarne la sacrale impenetrabilità.
E proprio i misteri della notte riportarono Gina alla luna di un'altra estate. Una luna piena che aveva illuminato gli ardori dei sensi al finire di un giorno che non poteva ripetersi perché lui, Alberto, non era più di questo mondo terreno.
Il ricordo le metteva un senso d'angoscia, coprendo d’incertezza quella serenità che credeva di aver riconquistato nel nuovo rapporto con Paolo. Ma Alberto era saldamente ancorato nella memoria che si spalancava sul paesaggio lunare, tornando a ricreare ed a far rivivere i momenti sublimi che li avevano uniti, senza confini, senza limiti, compiutamente, alimentati dal verbo eterno del piacere.
Durante il pomeriggio, come spesso avveniva d’estate, si erano allontanati lungo i sentieri nei campi. Ma entrambi avvertivano che quel giorno tutto doveva accadere. Il desiderio di appartenersi li aveva vinti. Rotolati nell'erba del sentiero, ai piedi di un salice, avevano continuato a baciarsi, a spogliarsi, a baciarsi ancora. Ad accarezzarsi ed a baciarsi, finché ogni pudore era caduto e nudi ed amanti avevano congiunto i loro corpi.
Si erano abbandonati fino a sciogliere nel piacere caldo e lento il turbinio dei sensi, delle passioni e delle emozioni che scoppiavano dentro. Fino a che erano tornati a percepire le immagini della campagna nella calura che avvolgeva i corpi perlati di sudore, mentre lo scorrere del tempo addolciva i loro sentimenti. Ed il sole ormai basso allungava le ombre dei salici a lenire i corpi amanti.
Prima che il buio li cogliesse, rendendo difficile il ritorno con il togliere ogni riferimento al paesaggio, si erano incamminati, viandanti del piacere, appoggiandosi l'una blandamente all'altro, scambiandosi ad ogni passo l'uno sull'altra il fardello del corpo, grave per il carico d'amore che li sovrastava e legava passi e pensieri.
Un sentiero che avrebbero voluto fosse quel tramonto, quello spazio magico indefinito come il desiderio nel variare delle atmosfere e dei colori, fuori del tempo. E più si avvicinavano alle case dei bovari, più si faceva forte e prevalente il presentimento che quella sarebbe stata l'ultima occasione di stare insieme in quell'estate.
Come avrebbero resistito alla lontananza? Come opporsi ad un destino che li voleva divisi, languire anziché vivere?
Improvviso il sole era scomparso all'orizzonte e nel cielo terso ad oriente appariva, appena sopra le case e le cime degli alberi, la luna piena, avvolgendo ogni cosa nel magico biancore. Ed in breve gli occhi si erano abituati a quella lenta magia dove tutto appariva immobile, luminoso e trasparente sì che si distinguevano sul sentiero imbiancato anche i ciuffi d'erba.
Erano vicini ad un pagliaio. E una frenesia folle, accresciuta dalla luna, si impadroniva sempre più di loro, al punto che Alberto sollevando Gina sulle braccia la spingeva come un peso inerte nell'antro dorato ricavato con le balle di paglia.
In un lampo si denudavano e cominciavano a baciarsi con voglia pazza in tutto il corpo, come se non si fossero mai toccati e fosse quella la prima volta.
Le bocche avide si cercavano, si prendevano, cercando spazi ed emozioni, correndo mai sazie sul collo, sul dorso, sui seni ed indugiando sul ventre, mentre le gambe di Gina si aprivano come ali di gabbiano per un volo magico, alto nell’azzurro.
Ogni volta Alberto riprendeva a baciarla sulla bocca, sul collo, sui seni. Ogni volta per accertarsi che quel suo ansimare fosse di vita, fosse voglia di piacere.
Ed ogni volta che ricominciava a baciarla sulla bocca, sul collo, sui seni, sul ventre, ogni volta la vedeva per la prima volta. Per la prima volta le labbra toccavano quella pelle di seta, candida come la luna, innocente come i germogli della primavera e sulla quale le ombre lunari della sera indicavano i sentieri più segreti del piacere che egli coglieva, dimenticava e tornava a cogliere senza fine.
Ed egli aveva fermato le labbra all'ombra del pube e con le braccia levava divaricando verso il cielo le gambe lunghe di lei, distese come ali in volo, tuffando la bocca mai sazia nelle tremule e turgide labbra vaginali, come a suggerne il gaudio che ne usciva. Indugiando a lungo. A lungo abbandonandosi a quel piacere folle senza mai finire di scoprire il segreto ed i confini di tanto gaudio.
Fin che la lingua scivolò, cadde, si tuffò nel tondo foro anale fermandosi ad assaporarne tutto il gusto pieno inusitato sapido e grasso della carne.
E più non si staccava da quel sapore carnoso pregno ed acre, antico e nuovo, incisivo e mordente, diffuso ed incancellabile, più i sensi si inebriavano perdutamente. E con i sensi, ogni spazio mentale, mentre nelle vene il sangue pulsava vertiginosamente, animando quelle ali candide di gabbiano che si aprivano leggere nella notte senza tempo del piacere.
Ed ogni volta che la punta della lingua, arrotolata come un cuneo, spingeva nell'orifizio, ogni volta i sospiri diventavano suoni, ogni volta lei aveva un sussulto, un gemito, un'implorazione. Ogni volta or più accesi or più languidi ripeteva irripetibili e mai uguali, un sussulto, un gemito, un'implorazione.
Si presero con furia, perdutamente.
Perdutamente fino ad essere esausti mentre il mondo cambiava intorno e la beatitudine li avvolgeva, caduto ogni pudore, per dare spazio alla superba esaltazione del piacere ed allo scoprire insieme i percorsi della carne.
La luna già era alta nel cielo, sopra le loro teste, quando riprendevano il cammino, ormai vicini a casa.

Anche la luna rossa non era più adagiata sulla terra ed era salita all'orizzonte quando Gina, rientrando dai ricordi nel presente, avvertì che la memoria d’Alberto tendeva a rifiutare il nuovo rapporto con Paolo. Allontanare Alberto dalla sua memoria, però, era come tagliare la sua infanzia e adolescenza. Si conoscevano così bene che intuivano l'un l'altro i modi e i gesti, le inflessioni della voce, le parole e perfino i pensieri. Coetanei erano cresciuti insieme nella stessa casa, il Palazzotto. Una costruzione quadrata di mattoni a vista, imponente e massiccia che si ergeva ben visibile nella campagna sulle rive del Mincio a pochi chilometri da Mantova.
Alberto era il figlio del giovane veterinario toscano che il padre di Gina aveva chiamato per aiutarlo nella cura e nell'allevamento dei cavalli.
La vicinanza li aveva condotti a cercare insieme le esperienze della vita giorno dopo giorno, anno dopo anno.
A volte si univano a loro altri ragazzi del luogo. Insieme avevano formato un gruppo per giocare nel tempo libero fuori casa. Avevano anche delle parole d’ordine e quando si incontravano, per salutarsi, uno diceva: ”Caramelle calde” e l’altro rispondeva: “Polenta fredda”.
C’era in quelle parole un significato recondito che forse a loro sfuggiva o non tentavano di approfondire, anche se non mancava di creare una certa atmosfera irreale. Le caramelle calde erano la dolcezza e la gioia in cui erano cresciuti bambini. La mamma di Alberto era solita prepararle sciogliendo, in un filo d’olio d’oliva bollente, dello zucchero ancora misto a melassa e lasciando raffreddare in modo che l’amalgama si compattasse. Ancora calde le tagliava in tanti pezzetti e le distribuiva ai ragazzi. La polenta fredda, era la polenta avanzata per il giorno dopo, che i contadini poveri avvolgevano in un tovagliolo e si portavano nei campi per consumarla a mezzogiorno e poter continuare a lavorare la terra fino a sera.
Era come se attraverso quelle parole cogliessero il messaggio della vita, gioia e dolore, ricchezza e miseria, luce e tenebra. Un chiaro richiamo alla realtà del quotidiano in cui la dolcezza e la gioia si contrappongono ai momenti in cui il calore del fuoco e della vita svanisce e l’equilibrio interiore non trova le condizioni per comunicare all’esterno e sentirsi realizzato, senza la dolcezza e l’affetto di un pugno di caramelle calde e la calda atmosfera del focolare di una polenta fumante, intorno ad un tavolo nella sfera dell’intimità familiare.
Gina ed Alberto avvertivano di essere dei privilegiati e si avvicinavano con rispetto ed umiltà al mondo della fatica contadina.
La loro vitalità esplodeva soprattutto nella stagione calda, mettendo a dura prova chiunque avesse voluto seguirli. Ore di cammino, di movimento e di giochi non riuscivano a stancarli ed al ritorno per rimettersi in sesto bastava un’immersione nell’acqua, resa tiepida dal sole, dell'antico vascone di pietra, un tempo abbeveratoio per i cavalli in sosta prima di essere attaccati alle carrozze.
Erano cresciuti liberi ed insieme. Una stagione dopo l'altra e soprattutto le lunghe estati delle campagne lussureggianti di verde e di frutti nelle quali, oltre a correre e giocare, avevano imparato l’ozio estremo, quando tutta la vita dell’universo pareva ad un tratto fermarsi, immobile nel tempo e nella calura. Tale e tanta pareva la pigrizia del solleone, quanto era il caldo insopportabile, senza un filo di vento nella dorata atmosfera ineguagliabile, irripetibile, imprevedibile e magica della campagna.
Erano inseparabili. I percorsi nei campi erano ogni anno nuovi, ogni anno diversi, seguendo le rive ombrose dei fossati con i loro misteri e tutta la vita animale e vegetale presente nella pianura.
Era come immergersi nei colori più strani e vari, tra acquitrini, fango, piante ed erbe selvatiche. Un mondo di magie e di silenzi nella maturità della natura che si manifestava quasi umanizzandosi. Rane, saltarelli, rospi, lucertole, ramarri, come avvertivano i loro passi sul terreno, restavano per qualche attimo sorpresi e stando il più possibile ritti, poggiati sulle zampine posteriori, li osservavano, per poi sgusciare nell'erba alta o saltare in acqua.
Quei rumori di vita campestre, il canto del cuculo lontano e di qualche passerotto solitario, erano i soli rumori, le sole voci che accompagnavano il loro andare ed oziare. Ed erano anche, crescendo, la risposta alla curiosità, alla voglia di entrare in una dimensione sempre più ampia e completa della vita.
Come le zolle scure della terra si aprivano per dare vita alle erbe ed alle piante, germinando le foglie ed i frutti, così mutavano anche i corpi di Gina e di Alberto, dando origine a sensazioni nuove e trasformazioni fino all'avvertimento che quell'affetto fraterno che li univa era mutato in qualcosa che inesorabilmente li attraeva e nello stesso tempo per paura li respingeva, rendendoli diversi.
Così erano diventati ragazzi, avvertendo nella crescita le sensazioni e le trasformazioni che sanciscono le differenze tra maschio e femmina. Quando l'attrazione reciproca diventa invasiva, facendo scoppiare il cervello ed incidendo le carni con mille aghi. Rapporti un tempo facili e consueti diventavano proibitivi e quasi impossibili.
Alberto si era fatto lungo ed ossuto ed il suo volto aveva perso i lineamenti dolci dell'infanzia lasciando spazio ad un naso tagliente e diritto. Gina era ugualmente cresciuta in altezza e si era fatta una creatura meravigliosa ed esplosiva, mettendo in evidenza, come d'improvviso, le forme femminili, i glutei pieni e rotondi che spingevano in fuori come frutti vogliosi di maturare.
Il suo volto appariva di una bellezza mutevole che la memoria non riusciva a fissare in via definitiva. A ciò contribuiva il fascino intenso degli occhi già pervasi d’una dolce sottile sensuale malinconia che variava d’intensità. Una sensualità profonda che nulla – gioia, paura, passione, dolore – pareva in grado di cancellare dallo sguardo e che ella comunicava spontaneamente..
Per la prima volta percepivano interiormente le diversità del sesso, che fino a quel momento avevano colto negli aspetti ed elementi esteriori. La percezione era così intensa che al solo sguardo il respiro diventava affannoso e nel petto sentivano un dolore lancinante.
Prima di arrivare al giorno della prima volta si chiedevano nel segreto del loro animo se ci fosse un modo meno doloroso di frequentarsi e se mai quel turbamento potesse aprire presto una via diversa alla felicità di stare insieme ed al toccarsi senza quell’imbarazzo profondo, senza il senso esasperato del pudore, senza quel torpore acerbo che si mescolava nel sangue e bruciava nella testa, rendendoli impacciati e paralizzando quasi i loro movimenti.
Comprendevano che fino ad allora il riso ed il gioco avevano coperto l'attenzione fisica dei sensi e che il forte sentimento che li univa non era più amore fraterno o amicizia, ma un'attrazione irresistibile, epidermica. E quando casualmente venivano a contatto o anche soltanto si sfioravano, un brivido correva per tutto il corpo, come una rivoluzione del sangue, travolgendo ogni possibilità di reazione e di pensiero. Un pomeriggio Alberto aveva dovuto fermarsi ed era bastato che si toccasse per scoprire che era diventato uomo.
Quasi ne aveva provato umiliazione. Poi la notte, il silenzio e la solitudine sarebbero divenute le dolci compagne di una piacevole abitudine, conseguenza di un desiderio che cresceva e che il tempo avrebbe maturato.
Gina nascondeva il suo vero sentire col riso e con parole lontane. Così rispondeva al mutamento delle sensazioni ed all’imbarazzo che penetrava in lei come una puntura dolorosa ed inevitabile, mentre cresceva alla radice del desiderio la curiosità di conoscere quel non ben definito piacere che la turbava.
Quel riso acutizzava le ferite interiori di Alberto che diventava rosso in viso come di fuoco e si ammutoliva allontanandosi da lei per udire la sua voce che lo chiamava quasi implorandolo di restare.
Tutto era diverso nella fantasia e nel sogno, quando la realtà era ancora al di fuori del breve spazio dei due metri quadrati del letto, quando egli indugiava nell'immagine di Gina che gli appariva così vicina che sarebbe stato impossibile non toccarla, accarezzarla, entrare nelle pieghe segrete sotto quella vestina a campana, così fragile e leggera che ad ogni movimento pareva sollevarsi e rivelargli la fine di un desiderio straziante.
Gina, pur prendendo piena coscienza della passione crescente, non faceva nulla per evitare atteggiamenti e movenze che le appartenevano naturalmente e che mettevano a disagio Alberto. Qualche spintone, una mano sulle spalle o sulla testa, una carezza sul volto, facevano parte del gioco e, se pure lei aveva a volte l'impressione che quelle poche decine di centimetri di cotone che la dividevano da Alberto e dall'essere toccata potessero cadere e dar luogo ad un contatto più intimo, tuttavia si abbandonava al caso, quasi non stesse a lei decidere come e quando.
Istintivamente credeva in una naturale protezione per una femminilità che ancora doveva crescere pienamente, che ancora doveva percorrere segrete vie interiori prima di manifestarsi compiutamente.
Rimanevano liberi i percorsi della fantasia ed il gioco dei pensieri fra le dita disegnando incontri e contatti lontani da un reale accadimento.
Lo spazio del letto diventava grande come l'arenile del mare dove il corpo rotolava senza peso verso l'acqua. Sentiva Alberto come sospeso nel respiro dell'aria premere con le mani sulla vulva. E pareva incerta se trattenere quel piacere simile allo spasimo o sfuggire ad esso.
Anche le parole che uscivano dalla loro bocca non ubbidivano al bisogno di comunicare la passione febbrile che li rendeva incerti ed impacciati. Solo la fantasia dilagava in mille direzioni, senza che l'uno trovasse il coraggio di dire all'altra sensazioni e desideri, troppo grandi per essere narrati.
Nella realtà un muro invisibile di cristallo si parava tra i due, una forza misteriosa magnetica li respingeva come poli contrari, quando poteva essere il momento, quando tutto, proprio tutto avrebbe potuto compiersi.
Così le estati passavano e la ripresa della scuola catturava completamente ogni interesse esteriore. Erano arrivati al primo anno della scuola media superiore e si erano proposti di far bene seguendo le raccomandazioni dei genitori. Anche per non sfigurare loro che in fondo provenivano dalla campagna.
Non erano più nella stessa classe. Ma il pensiero li teneva uniti in ogni momento del giorno. Soprattutto la sera la loro presenza si dilatava dolcemente nell'aria che respiravano attraversando i muri della casa e diventando reale al punto che avevano l'impressione di potersi toccare.
I discorsi non andavano oltre i temi scolastici ed al commento dei fatti del Palazzotto. A tratti, in silenzio, si guardavano intensamente negli occhi senza osar manifestare l’amore segreto. Ma ormai era chiaro, l’attesa aveva consumato il suo tempo e la fine dell'anno scolastico, superato da entrambi brillantemente, sarebbe stata anche la fine della loro pena.
Arrivò il giorno in cui tutto doveva accadere.
Quel giorno di estate torrida si erano inoltrati nelle terre prendendo il cammino che si accompagnava ad un fosso pieno d'acqua, proveniente da un'insenatura del Mincio, dove si formava un ampio acquitrino tra ciuffi e riviere d’erbe rigogliose, che i due cercavano per la sua folta vegetazione quando la calura era insopportabile.
L’aria pareva disfarsi sotto il sole creando un velo sottilmente nebuloso. Pensieri, immagini, cose e desideri, tutto pareva ricoprirsi di quel velo evaporando verso l’alto, sospeso in un movimento lento che non aveva fine. Ed in quell’apparente immobilità ogni cosa sembrava immutabile, eterna.
Si erano seduti sulla riva dell'acquitrino, mettendo istintivamente a bagno i piedi per attingere una qualche frescura.
L'aria era pregna di un odore acre di erbe, foglie ed acque ferme, con un pungente sapore di marcio che evaporava nell'atmosfera penetrando nel respiro degli uomini e della natura, nell'epidermide, nella carne, esasperando i sensi.
Era questo l'elemento concreto di richiamo alla terra, alla campagna ed alla calura che tutto univa nel piano immobile ed assolato, nell'assenza totale del minimo percettibile spirare di vento. “Cuora”, così i contadini chiamavano quella melma odorosa profonda stagnante nel letto delle acque pesanti e ferme che impregnava l'aria.
Poche erano state le parole fra i due durante il percorso. C'era dappertutto un silenzio disteso e piano. Solo a lunghi intervalli un cuculo si faceva ascoltare da lontano, fin dove gli occhi non arrivavano, oltre la fine del sentiero, oltre gli alberi che si vedevano appena in fondo la campagna al di là della cava dei pesci.
Quel cuculo sembrava davvero un'immaginazione che ad ogni estate si ripeteva senza che nessuno riuscisse o avesse mai la voglia di scovarlo. Anche il canto delle cicale pareva emanare dai loro pensieri, come se tutto quel mondo, vissuto insieme per anni, fosse dentro di loro e niente venisse da fuori.
Un passero solitario dai rami sopra le loro teste si accingeva ad attraversare i campi ancora dorati dopo la raccolta del grano. Con il suo volo goffo pareva come rimbalzare a tratti su un filo teso ed invisibile. Ogni volta, ad ogni rimbalzo, quel volo sembrava vano, senza una destinazione. Ogni volta la spinta delle ali generava faticosamente un tuffo nel vuoto come fosse l'ultimo, tanto era l'abbandono e l'immobilità intorno.
Nessun pensiero, nessuna immagine sublime pareva venire dalla calura. Il caldo scioglieva ogni desiderio ed occupava le fibre dei tessuti, impotenti a liberarsene.
Come assoluta era l'impotenza della natura che generava in loro una tensione sempre più forte e che ad un tratto sarebbe scoppiata e li avrebbe travolti, cancellando ogni indecisione, ogni immobilità, ogni percezione del caldo soffocante.
Soprattutto nulla era più grave del respiro dei corpi immobili e tesi nell’incertezza di un desiderio che occupava ogni spazio del cielo e dell'atmosfera. E di quel desiderio universale di congiunzione, penetrante, lento e senza fine, i due si sentivano parte, pronti a rompere il velo immutabile che li separava, in attesa di un segno, un segnale affinché tutto potesse incominciare ad accadere.
Un segno, mentre erano seduti pietrificati in silenzio da un tempo indefinito. Un segno che rompesse quegli attimi tra l'essere ed il non essere, tra l'accadere dell’evento ed il non accadere.
Gina, muovendosi, sfiorò con la spalla nuda, per un attimo di secondo, la spalla nuda di Alberto. Un tocco lieve, il contatto delle pelurie adolescenziali. Ed attraverso quel contatto la comunicazione dei mille messaggi che si affollavano nelle loro menti ed invadevano ogni spazio della carne salendo al livello della pelle. Appena si toccarono, quei piccoli peli si drizzarono ritti, pungenti come aghi, intrecciando una rete inestricabile che univa fatalmente il loro desiderio. Era il segnale.
Uno sfiorare di epidermidi. Un contatto magnetico. Tanto era bastato per comunicare e far sì che i peli delle braccia come tanti piccoli elettrodi fermassero quel gesto. Il segno. Una scossa elettrica, un'emozione improvvisa, divenuta subito totale.
Pochi attimi in cui le barriere dell'universo cadevano. Cadeva il muro del pudore che sembrava inamovibile, aprendo la grande scatola magica dell'impossibile. E tutto finalmente si manifestava ed accadeva.
Istintivamente, improvvisamente l'amore era cominciato, la magia dei pensieri e dei sentimenti si intrecciava nel gioco delle dita, delle carezze, dei baci. Nel colore pallido appena roseo della pelle dei corpi amanti che il sole rendeva incandescenti.
L’immobile incantesimo si era spezzato, travolgendo ogni incertezza e timore. Palesemente l'amore si mostrava nella calura estiva in piena luce, nel luogo dove estate dopo estate, anno dopo anno, era nato e cresciuto.
Le mani dapprima erano incollate sui fianchi, immobili come paralizzate legate ai corpi tesi e irrigiditi. Anche i pensieri erano fermi fra le dita legnose.
Un attimo lungo senza fine in cui anche il respiro si era fermato. Finché le lingue toccandosi si legavano insieme. Un attimo. E le mani di Alberto cominciavano a frugare nei seni, sui fianchi, scendendo nelle vie segrete e mai osate del piacere e la sentì viva fluida ricca carnosa tremante pulsare più calda dei raggi del sole infuocato sopra gli alberi, sopra le teste ed i corpi imperlati di sudore. Sopra i pensieri.
Le mani avevano imparato il suono delle carezze.
Si abbracciavano forte con tutta l'ansia e la passione, increduli, quasi qualcuno potesse dividerli, mentre le bocche si cercavano avidamente e le labbra nella furia inceppavano le une sulle altre ed i nasi cozzavano contro.
Erano rotolati nell'erba alta contro il tronco di un salice che impediva loro di finire in acqua. Continuando a baciarsi, a spogliarsi, a baciarsi ancora. Ad accarezzarsi ed a baciarsi, abbattendo ogni limite che si frapponeva al desiderio. Abbandonando ogni pudore della mente. Congiungendosi.
Finché mancò il respiro, finché un urlo trovò spazio per uscire e liberare i polmoni che riprendevano a respirare sollevandosi come antichi mantici di cuoio. Finché lentamente alla fine l'afa si era fatta risentire con il suo peso ed il sudore sulle carni diveniva lenimento per i corpi, lentamente alla fine dell'amore.
Tutto era avvenuto intensamente e con trepidazione, come se qualcuno potesse arrivare d'improvviso e fermarli, fermando le loro vite e dividendoli per sempre.
Gina appariva illuminata da una nuova bellezza. La bellezza di chi con la forza dell'amore e della femminilità aveva trovato il mondo che cercava attraversando il mare dei turbamenti e delle passioni sulla nave del piacere e del desiderio. “Tellus quaesita per undas”.
Ma un sentimento come di paura per una felicità finora sconosciuta si faceva strada e pur nell'immane calura d'improvviso la sua pelle era percorsa da brividi di freddo, mentre lo sguardo malinconico diventava irrequieto cercando fra le braccia di Alberto un rifugio a quel disagio.
Ed era come se i corpi si aggrappassero l'uno sull'atro in una scalata sulla roccia, un’arrampicata divenuta improvvisamente affannosa, mentre le braccia scorrevano sui fianchi come corde sulla parete più alta della montagna. Carezze dure, forti, avvolgimenti che bloccavano il respiro fin quasi a soffocare, fino a chiedere una pausa, un attimo di libertà.
Tutto diveniva confuso, sospeso nel vuoto di quella parete di corpi che si sovrastavano vicendevolmente. Finché Gina lo sentì improvvisamente e nuovamente ancora dentro, imperioso, perfino imbarazzante. E più avrebbe voluto uscire dalla stretta più il suo corpo si inarcava legandosi a quei fianchi duri che la percuotevano inesorabilmente.
Era come bloccata, come se continuasse ad arrampicare, legata alla roccia dura e spigolosa della parete. Legata inconsapevolmente al suo desiderio di piacere. Prigioniera delle sue stesse braccia. Impegnata con tutte le forze. Finché riuscì infine a sollevarsi in un grande e lungo respiro, profondo come un baratro, elevato come la cima della montagna, un respiro che empiva tutta l'aria e che pareva ripetersi perdendosi come l'eco, cento volte di terra in terra, di vetta in vetta, sempre più piano, sempre più lontano. E più cercava di respirare, più lo sentiva penetrare nel ventre, percuoterla dalle radici vulvari dei sensi fin nella mente e nello spirito.
E più il respiro diveniva languore, gemito, implorazione, e più ancora il corpo diveniva leggero e l'arrampicata un volo d'uccelli sulla vetta del monte più alto.
Il piacere caldo e lento, fuori dal tempo, il turbinio dei sensi, delle passioni e delle emozioni dominavano ogni fantasia, spasimo e sospiro. E piano piano tornavano le immagini della campagna, mentre la calura avvolgeva i corpi perlati di sudore ed il tempo addolciva i loro sentimenti.
Erano tornati il sorriso e le carezze, dolcemente, mentre il sole ormai basso allungava le ombre dei salici a lenire i corpi amanti nella sera.
Sulla via del ritorno, viandanti del piacere, camminavano lentamente, legandosi con le braccia ai fianchi ed appoggiandosi l'una blandamente all'altro, sì che i corpi fluttuavano ad ogni passo come sull'onde del mare nell'ora bruna del tramonto.
Era stato questo l’inizio travolgente dell’amore di Alberto. Gina non poteva ingannare i sentimenti continuando a vedere Paolo come se il suo passato non le pesasse. Inoltre un recente evento straordinario, vissuto alla Sacra di San Michele, la induceva ad una profonda riflessione e cambiamento.
Doveva chiarire i suoi sentimenti e, lasciando la luna al suo cammino, si ritirò nella stanza per scrivere la lettera che meditava già da alcuni giorni.
Sentiva di dover mettere in gioco l’amore di Paolo, aprendo nuovi orizzonti, nuovi lidi del pensiero. Un rischio che doveva correre. Forse il rischio della solitudine.

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