martedì 29 luglio 2008

La trisavola

I racconti di Lalla


Lalla ha un blog personale
http://falilulela.blogspot.com/




La trisavola

Era una svagata ragazza, vissuta tra i salotti, un po’ demodé, della Napoli dei nobili. Le avevano insegnato a ricamare su tele impalpabili di batista bianco, ricami preziosi, punti infinitamente piccoli e precisi. Poi, mentre ricamava, le avevano insegnato il francese, ma solo quello necessario per servire un tè - tra un comment ça va? e un aujourd’ hui il fait froid - in modo impeccabile: la teiera riscaldata a dovere, l’acqua che non doveva prendere bollore, i tovagliolini inamidati con cura, il piattino con il limone tagliato a fettine, il bricco del latte, lo zucchero in zollette. Poi le avevano insegnato a fare l’inchino, a tacere al momento giusto (cioè quasi sempre), a dare ordini alla servitù, a accordare i cappelli con gli abiti, a scegliersi un corredo, a dire le preghiere. L’avevano educata a dovere: ora zia Fefè la riteneva pronta per il matrimonio.Aveva diciassette anni Elena, e, nell’ultimo inverno, una costipazione ostinata non le aveva dato tregua. A nulla erano serviti gli impacchi bollenti di semi di lino sul torace, a poco lo sciroppo del medico di corte, a qualcosa le preghiere di zia Fefè a san Gennaro. Ma quando il medico aveva parlato di infiammazione polmonare, in famiglia si era pensato di mandarla in Abruzzo, nel paesino tra le montagne dove viveva la sorella di zia Fefè. L’aria, lassù alle pendici del Gran Sasso, era buona e il latte fresco e il formaggio di giornata, uniti alle cure di zia Lietta, l’avrebbero rimessa in sesto.Così, anche se a malincuore, zia Fefè, essendo la nipote orfana di entrambi i genitori, dovette prendere una decisione che, sollecitata dal medico, fu quella di lasciarla partire. La carrozza di famiglia l’accolse nel suo guscio nero, foderato di seta, il baule dalle borchie d’argento venne sistemato a dovere e le cappelliere rotonde invasero il poco spazio rimasto libero. Durante il viaggio occhieggiò, curiosa, dal finestrino alla sua destra. Si era lasciata il mare alle spalle e l’aria pregna di salmastro, ora, profumava di terra e di fieno; filari di vigneti si rincorrevano sulle colline che ondulavano il paesaggio. Campi di grano macchiati di fiordalisi si alternavano a prati gialli di ranuncoli. Il paesaggio si andava inasprendo. Qualche cane da pastore si avventava sulla carrozza abbandonando il gregge che, in larghe chiazze lanose, si spandeva sul prato. Poi, verso sera, mentre le prime ombre si allungavano oblique e le montagne in lontananza ringhiavano, dentate, alla notte, la carrozza imboccò la strada d’accesso al paesino e, dopo pochi minuti, il cocchiere, giunto in una piazzetta delimitata da una chiesa e alcuni palazzi, arrestò i cavalli.Elena scese.Nel piazzale alcune contadine si voltarono a guardarla stupite, impressionate dall’abito che portava, dalla sua bellezza e dai bagagli che il cocchiere stava scaricando. Nei loro occhi brillava la stessa ammirazione che erano solite riservare alla beata Vergine Maria quando veniva portata in processione per le strade del paese, scintillante di ex voto e di divine aureole. Elena, mentre il buio calava sul paese, imboccò, in fretta, il portone che un domestico stava tenendo aperto. Salite le scale, entrò nell’atrio affondando, pochi minuti dopo, tra le procaci forme, ricoperte da trine e merletti, di zia Lietta.“ Lazzare’, ‘a canto si’ bbella “ le ripeteva la zia, continuando ad abbracciarla e a rivolgerle complimenti fino a quando, sottrattasi finalmente alle effusioni dell’anziana signora, Elena, bevuto un brodo ristretto di colombo per rifocillarsi, scivolò tra lenzuola di lino che sapevano di bucato steso al sole e di lavanda, addormentandosi di un sonno pesante come quello di un bambino.
Il mattino successivo, svegliata dal chiarore lattiginoso che filtrava dalle fessure delle imposte, si affacciò alla finestra per ammirare le montagne irte di cime, pietraie e ispidi boschi che il primo sole del mattino strappava alla notte. Nella piazza sottostante, alcune contadine nerovestite si dirigevano verso la chiesa, i fazzoletti calati sulla fronte a nascondere i volti, scuri di sole e di fatica. Elena, le bianche braccia sul davanzale, le osservava curiosa, mentre la camicia le scivolava da una spalla, scoprendo per un attimo il candore della sua pelle. Così lui la vide e così l’avrebbe ricordata per sempre: sul volto, chiaro tra gli scuri boccoli arruffati, tracce di sonno e d’infanzia. Tra i pizzi della camicia, un accenno di seno e bianche braccia di donna. Con un misurato gesto di cavalleria, l’uomo si tolse il cappello accennando un inchino prima di salire sul calesse, che lo attendeva davanti al portone, e partire, a tutta velocità, frustando il cavallo. La corteggiarono tutti i notabili del paese, dal farmacista al dottore, ma l’ebbe lui, così come, fino a quel momento, aveva avuto tutto ciò che aveva desiderato. Zia Fefè tentò invano di indurla a non sposarlo: le disse che avrebbe potuto esserle padre, che era tronfio, arrogante, un ricco nobilastro di paese abituato a cacciare con i contadini e a giocare a dadi con amici simili a lui. Tentò di spiegarle che il matrimonio sarebbe stato per sempre, fin che morte non vi divida, che avrebbe dovuto vivere in quello sperduto paese dove l’aria, anche se pura e frizzante, sapeva di sterco di vacca e le contadine non parlavano nemmeno l’italiano.Fu tutto inutile.Al matrimonio zia Fefè pianse, e non come tutti pensarono di commozione, pianse ininterrottamente, ricordando le parole della cartomante, pronunciate dopo la nascita di Elena: “Sarà bella ‘sta puppella avrà gli occhi di una stella, ma un destino ingrato avrà se tra i monti lei andrà”.In uno scampanio a festa, vestita di pizzo bianco, i capelli sciolti sulle spalle cosparsi di mughetti freschi, Elena salì all’altare al braccio di Ottone, impeccabilmente vestito da un sarto di corte. Poi, per tutto il giorno la piazzetta rimbombò di musica e canti che dalle finestre spalancate del palazzotto si riversarono sulle case e le strade del paese, mentre nel cortile arrostivano, per gli abitanti del paese, i maialini da latte e i capretti allo spiedo. Alla sera, gonfi di cibo e di vino, gli invitati, come una lenta, inarrestabile fiumana abbandonarono la casa, lasciandosi alle spalle tavolate ingombre di avanzi di cibo, tovaglie macchiate e la servitù che, mangiando nelle cucine gli avanzi, ridacchiava scambiandosi scurrilità su quanto stava avvenendo ai piani superiori della casa.Ottone aveva bevuto troppo e, quando Elena uscì dal bagno, pallida come la camicia che indossava e che la faceva sembrare più un’educanda che una sposa alla sua prima notte di nozze, si addormentò sulla sua spalla, la bocca ingorda schiacciata sul suo seno. Si rifece il mattino seguente e, quando uscì dalla camera nuziale, rinchiusa a chiave la porta alle sue spalle, vi imprigionò la sua giovanissima moglie e i suoi primi singhiozzi.Dieci mesi dopo nacque una bambina: pallida, smunta come un fiore di serra. Ottone le dette un’occhiata distratta e, deluso, andò a festeggiare con gli amici. Ci vollero quattro anni e altre due figlie femmine perché l’agognato figlio maschio vedesse la luce.E allora, di nuovo, non si badò a spese. Alla festa per il battesimo venne invitato tutto il paese. Arrivò da Napoli anche zia Fefè con la carrozza piena di regali per la nipote e i nipotini. Ma Elena le sembrò subito strana, quasi sfuggente, i grandi occhi cerchiati da ombre scure, la bocca serrata su segreti inconfessabili. Nelle cucine, ai piani bassi, la servitù era al lavoro. L’abito indossato dalla nipote per il battesimo era un tripudio di pizzi e sete colore del mare. Il cappello, dello stesso colore dell’abito faceva risaltare il profilo deciso, il collo lungo e morbido dal quale pendeva un rubino color cremisi che, a ogni movimento, mandava riflessi sanguigni.Zia Fefè non perdeva d’occhio, nemmeno per un istante, la nipote. La spiava cercando di carpirne i pensieri dall’espressione del volto, ma gli occhi di Elena la sfuggivano, le palpebre che si abbassavano fremendo, come se un raggio di sole le avesse colpite, infastidendola.Elena accoglieva, con l’ abituale grazia, gli invitati, affiancata dalla fida Miuccia che teneva il bambino addormentato tra le braccia, esibendolo come un trofeo davanti agli occhi degli ospiti.
Ottone al suo fianco - l’immancabile sigaro tra le labbra e l’orologio a cipolla, appeso alla catena, che ondeggiava sul panciotto di seta che cominciava a tirare sullo stomaco - faceva il baciamano alle signore, controllando la situazione come il capitano di una nave sul cassero.Poco dopo, dando il braccio alla moglie, precedette gli ospiti nel salone delle feste.La lunga tavola imbandita riluceva di cristalli di Boemia e porcellane di Capodimonte. Su ogni piatto un fiore e un insetto diverso facevano a gara con gli intarsi in pizzo della tovaglia, ispirati anch’essi a fiori e insetti. Dal soffitto a botte, schiere di cherubini paffuti sembravano osservare, maliziosi, la folla degli invitati.Ottone cominciò a brindare alla nascita del figlio maschio già all’arrivo degli antipasti. Il caldo entrava dalle finestre arrossando, insieme alle libagioni e alla interminabile serie delle portate, le guance delle signore e il naso degli uomini presenti. Un cicaleccio senza sosta si alzava dalla tavola imbandita. Gli uomini si allentavano il collo della camicia, e, di nascosto, qualche bottone del gilé. Le donne al loro fianco agitavano i ventagli e mangiavano, spettegolando su quella creatura così diversa da loro, così svagata, e giovane, e bella di una bellezza che, ora, dopo la nascita dei figli, si era fatta più piena, matura rendendola ancora più femminile. Ma dove stava tutto il giorno la bellissima moglie del conte? Le domestiche, interrogate, erano state piuttosto reticenti e nel paese nessuno l’aveva mai vista percorrere una delle strade del borgo, nemmeno accompagnata dal marito o dalle domestiche. Inoltre, aveva sempre declinato ogni invito adducendo scuse risibili: i bambini, l’emicrania, i disturbi della gravidanza. Nemmeno alle finestre di casa era mai stata vista affacciarsi, anche se c’era chi giurava che, il giorno in cui l’aveva fatto, un colpo di fucile, sparato dal marito, l’avesse colpita di striscio a una spalla, là dove, ora, una camelia bianca adornava la scollatura dell’abito che indossava.Elena cercava di trattenere il marito dal bere ulteriormente e più di una volta lo guardò supplice notando che le sue guance, rese un po’ flosce da un’incipiente pinguedine, si facevano sempre più arrossate, quasi violacee, nella sera che, accese le candele, vestiva d’ombre minacciose le stanze.Lui si alzò, invitandola a ballare.Lei si negò, la malinconia che dilagava, incontenibile, negli occhi scuri.Lui ripetè il suo invito, con voce ubriaca di vino e di rabbia.Lei non si alzò, rimase immobile, rimase immobile anche quando lui si portò le mani al petto, quasi volesse strapparsi il cuore con le dita artigliate al panciotto.Poi fu tutto un accorrere e correre di invitati e domestici…Quando arrivò il medico, Ottone, adagiato sul sofà del salotto, non respirava quasi più, e così rimase, paralizzato dalla vita in giù, muto, un occhio chiuso per non vedere e uno aperto per non dimenticare. Elena, silenziosa, la mantellina di velluto color cremisi appoggiata sulle spalle, esce alla solita ora dal portone di casa, spingendo la carrozzella del marito. Sul sagrato della chiesa, alcune beghine la salutano, ossequiose.Mentre il giorno muore silenzioso, il sole tramonta davanti a lei, oltre il bosco di faggi che canta nel vento.