mercoledì 26 settembre 2007

Alcuni paragrafi del secondo capitolo del libro : Mapasa - Viaggio intorno all'uomo (disponibile in integrale su www.lulu.com)

2.1 LA LOGICA COME GUIDA

Come avete già potuto notare la mia mente è pragmatica. Ancor più che un concetto scientifico, ciò che guida tutti i miei ragionamenti è la logica.

Logica intesa come connessione congruente di elementi considerati provati , che quindi alla fine è parente stretta dell’intelligenza.

La logica è l’unico mezzo che ho trovato possibile per individuare soluzioni che non mi lascino nell’irrequietezza.

La cosa sembra scontata. Chi, in realtà, prende decisioni illogiche ? Ai nostri occhi solo un pazzo. Quindi in realtà tutti noi, normalmente, quando ci prendiamo il tempo di pensare alle cose, assumiamo decisioni logiche, quello che forse è mediamente maggiore in me è solamente l’intensità e profondità della logica che provo a mettere nelle mie costruzioni mentali.

Nei miei pensieri mi sforzo di non abbandonare mai la logica, non mi accontento di trovare spiegazioni preparate da altri o da me che sembrano avere un senso, se tali spiegazioni non collimano con la logica generale che mi sono costruito, allora mi concentro nel modificare la spiegazione o le logiche precedenti.

Sarò forse a corto di idee, ma non vedo altro mezzo che l’utilizzo della logica.

2.2 LA LOGICA ASSOLUTA

Il provare a sostenere che possa esistere una logica assoluta e indiscutibile, è come sostenere che possa esistere la verità assoluta o la giustizia assoluta. Non esiste la logica assoluta, in fondo la logica non è altro che rette che uniscono dei punti, ciascuno può avere i propri punti e unirli in modo diverso. Capita infatti spesso che non condividiamo le idee di altri, ma le capiamo, noi stessi in momenti diversi cambiamo sovente opinione sulle stesse cose, ma non per questo siamo sempre illogici nel farlo, molto più spesso abbiamo invece cambiato di logica.

Sembrerebbe molto fragile costruire la casa dei nostri ragionamenti su fondamenta così poco stabili, ma è così. Il nostro cervello non è un hardware con un software che una volta immessi gli stessi dati arriva sempre alla stessa risposta, al contrario può contenere le più disparate informazioni e assemblarle in modo originale ogni volta.

Questo dà a ciascuno di noi, quella straordinaria, bellissima e maledetta caratteristica dell’essere unici e originali.

L’importanza di accettare che non esista una logica assoluta è elevata, infatti il passo successivo è quello di capire che la nostra logica non è la sola e non è la giusta in senso assoluto .

E’ chiaro che qualcuno potrebbe iniziare a sconfortarsi, non riusciamo a trovare una spiegazione certa alle nostre origini, non riusciamo a fissare dei paletti di ragionamento, e allora …?!?

Ciò che dobbiamo abituarci a fare, è ragionare non in modo statico ma dinamico, non dobbiamo cercare una casa piantata nel terreno ma una nave nell’oceano.

Ciascuno di noi ha immagazzinato delle informazioni diverse, dà un valore ad alcune sfere di ragionamento in modo differente, tende a scordare alcune informazioni, ha molteplici e differenti punti di elaborazione sia consci che inconsci , ecc.. , diventa quindi difficile poter pensare a un meccanismo matematico e sicuro di elaborazione.

La logica quindi è in continua evoluzione e cambiamento, ma presa nel momento specifico in cui se ne fa uso, rappresenta il solo e unico mezzo utilizzabile in alternativa al caso .

La logica è speculare al funzionamento del cervello, non a caso è lì che si elaborano i ragionamenti. Si creano interconnessioni che sono vere localmente e che possono essere unite con altre che di volta in volta si presentano, ma che non si fissano in modo veramente definitivo e sono sempre in evoluzione. Questo ci consente di poter avere una flessibilità e adattabilità molto elevata, ma ne va in parte a discapito la stabilità e congruenza nel tempo.

L’accettare il fatto che la logica sia diversa da persona a persona e mutevole nel tempo, ha tra le varie conseguenze la necessaria accettazione e tolleranza verso altre logiche, che se vogliamo subito tradurre in “scienza sociale”, vuole dire anche libertà individuale, rispetto degli altri e democrazia ( nonostante tutte le limitazioni che possa avere quest’ultima).

Le correlazioni logiche che si creano all’interno del cervello non sono tutte legate tra di loro come potrebbe esserlo una catena infinita, sono invece più simili a differenti spezzoni di catena dove varie maglie sono unite tra di loro. Altrove vi sono altri spezzoni di catena che possono contenere anche elementi già presenti in altri spezzoni ed elementi “nuovi”. Il legame logico non è continuo, alcune menti superiori riescono a legare molti elementi tra di loro ed a costruirsi una logica complessa e congruente, altri riescono solo ad unire pochi elementi e spesso in modo differente di volta in volta.

Facendo questi ragionamenti, mi sorprendo quando penso che nelle scuole non si insegna alcuna tecnica per poter ricercare e migliorare la capacità di interconnessione logica degli elementi. Si vuole riempire il cervello presupponendo che questo funzioni “ab origine” già bene. Ma quanto siamo vanitosi !?

Passiamo ora ad alcune riflessioni di e su Kant connesse a questo argomento.

Per Kant non esiste una ragion pura, ma una ragion pratica dettata dal ragionamento. Kant arriva a concludere che l'etica non è fondabile razionalmente ma che è un imperativo categorico che ogni io deve darsi liberamente …e fino a questo punto sono d’accordo, ma poi … le regole etiche ed estetiche sono le stesse in ogni individuo ed egualmente la loro applicazione: qualunque individuo purché razionale, nella stessa situazione, avrebbe fatto la stessa cosa e considerato bella una certa opera… e su questo non concordo. Nel cervello non esistono ragionamenti complessi innati che prescindono dalla cultura acquisita post nascita, quindi, a parte una tendenza alla logica legata al come il cervello è fisicamente strutturato e funziona, non ritengo che con gli stessi input qualunque individuo razionale arrivi alle stesse conclusioni. Il concetto di Kant può riavvicinarsi al vero se aggiungiamo a “qualunque individuo purché razionale” … e con la stessa formazione logica razionale …” avrebbe fatto la stessa cosa …”.

Molti sforzi verso l’individuazione di una ragione assoluta sono sotto un certo punto di vista un tentativo di evitare un sistema di decisione democratico, ossia a maggioranza .

Nei secoli scorsi, e anche attualmente è stato fatto un notevole sforzo per trovare nelle origini dell’uomo una logica assoluta che sia incontestabile, sforzo vano se lo consideriamo in senso assoluto, ma molto fruttuoso nella pratica, vediamo ancora oggi come molti centri di potere riescono a direzionare le masse su supposte logiche assolute o naturali.

2.3 MEMORIA ED INTELLIGENZA

Semplificando molto il concetto, la memoria dovrebbe essere la capacità di conservare dati e l’intelligenza la capacità di metterli assieme eventualmente in modo originale creando una nuova entità o collegamento.

Il cervello è organizzato in modo da avere sia parti dedicate all’elaborazione che parti dedicate alla memorizzazione, quando nasciamo abbiamo in pratica già un apparato in grado di elaborare e un bello spazio “libero” dove poter memorizzare i dati. Non è ancora completamente noto come avvenga l’elaborazione dei dati e nemmeno tutti i risvolti della memoria, è però, a mio parere, evidente come la parte di apprendimento la faccia da padrone in tutto questo processo. Sotto questo punto di vista ci si potrebbe paragonare a un computer che ha tutte le possibilità di elaborare e memorizzare dati e informazioni, ma se non vi si caricano programmi e dati, il tutto rimane vuoto, una potenzialità latente.

Personalmente attribuisco molta importanza all’apprendimento, alla cultura e quindi alla memoria in particolare. E’ sicuramente vero che tutte le parti del cervello interagiscono tra loro in modo continuato ed evolutivo, quindi la memoria è influenzata dai processi elaborativi e viceversa, ma l’apprendimento sia di informazioni che di logiche evolute di elaborazione è la parte che ritengo più importante in prospettiva di una visione dell’uomo come entità in grado di evolversi e adattarsi sia a nuove situazioni fisiche che mentali.

Il fatto che anche quello che noi spesso consideriamo intelligenza è in realtà cultura acquisita, quindi memoria, non deve essere considerato di “qualità” inferiore, ma anzi è una bella opportunità per quasi tutti di poter raggiungere grandi livelli intellettivi anche se non dotati di un buonissimo motore elaborativo.

Le dimensioni e caratteristiche di elaborazione del cervello umano negli ultimi 200 millenni sono cambiate pochissimo, la sua cultura moltissimo, se osservassimo uno dei primi uomini sulla terra potremmo pensare che egli sia stato molto meno intelligente di quelli che osserviamo oggigiorno, in realtà la differenza è nella cultura, quindi alla fine ritengo logico di affermare che la differenza tra cultura ed intelligenza è molto lieve.

Non è un caso che nella misura del quoziente d’intelligenza , una volta risposto alle domande, per attribuire il punteggio si debba parametrizzare le risposte all’età della persona rispondente.

E’ bellissimo vedere un bambino che crescendo riempie la sua testa di dati e di ragionamenti, una materia vergine che lentamente viene scolpita, piccoli rivoli di semplici pensieri che domani diverranno fiumi di idee complesse.

Quando più avanti nel libro affermerò che per me la cultura è tutto, mi intenderò proprio il fatto che solamente una cultura appropriata ci consente di distaccarci dall’animale che è in noi, solamente l’acquisizione di un quantitativo importante di informazioni ci dà la possibilità di andare oltre i limiti dei nostri ancestrali antenati.

Il fatto che nel cervello non vi siano posizioni dettagliatamente definite dove memorizzare e unire i dati, anche se c’è un certo grado di specializzazione, è probabilmente una delle cause per le quali si arriva a reazioni-risposte diverse a fronte di uno stesso input.

Anche l’illogicità di comportamento delle persone potrebbe forse in parte essere spiegata in questo modo.

Se, infatti, pensiamo al fatto che i nostri pensieri, di volta in volta, possano prendere un cammino diverso all’interno del cervello, non sembra difficile pensare che le risposte a certi input siano, di volta in volta, parzialmente o totalmente differenti e che alcune risposte date dallo stesso individuo non siano collegate logicamente ad altre precedenti o successive dello stesso individuo.

Nel cervello non si prende sempre la stessa strada e non si compie sempre lo stesso processo intellettivo, è quindi normale che, anche a fronte di uno stesso input, si possa arrivare a diversi output.

2.4 CERVELLO E COMPORTAMENTI

Al centro di questo libro c’è l’uomo, quindi è molto importante capire come agisce.

Vi sono varie discipline scientifiche che studiano il comportamento umano, da quelle che concentrano i propri studi sul funzionamento del cervello in se stesso a quelle che si concentrano sull’output, ossia sul comportamento finale stesso.

E’ chiaro che è estremamente interessante sapere come funziona il cervello, quindi è importante il lavoro svolto dagli psicologi cognitivi e dalle neuroscienze. Il risultato dei nostri ragionamenti non può prescindere dal funzionamento dell’hardware che li elabora.

Non meno importanti sono gli studi che si concentrano sul solo risultato, il comportamento .

La psicologia, ha appunto, lo scopo di studiare il comportamento degli individui nei loro processi mentali.

Il fatto che ciascuno di noi sia diverso nell’hardware, nel software e nei dati memorizzati fa sì che, alla fine, ciascuno di noi sia diverso nei propri ragionamenti; non solo, abbiamo visto nel paragrafo precedente, che spesso siamo diversi anche verso noi stessi.

Personalmente, considero questa diversità tra individui un aspetto positivo, visto che l’alternativa sarebbe quella che fossimo tutti uguali come tanti computer dello stesso modello, ma comporta chiare difficoltà in altri ambiti. In particolare, nel momento della vita in comune delle genti sorge la necessità di individuare regole comportamentali uniformi.

E’, comunque, importante capire che, anche tenendo conto dei risvolti sociali, idealmente, non si dovrebbe cercare l’uniformità di pensiero, ma il rispetto e tolleranza da e verso gli altri .

La diversità è un dato di fatto e anche un bene.

La situazione ideale quindi potrebbe essere quella in cui ciascuna persona, mediante una corretta cultura, fosse messa in grado di effettuare i propri ragionamenti, poi, proprio grazie alla propria intelligenza, cultura e tolleranza, riuscirebbe a mediare i suoi obiettivi con quelli degli altri individui.

E’ chiaro che, se uno degli elementi appena accennati viene a mancare, le possibili alternative, meno belle ma che possono garantire una stabilità sociale, diventano: l’uniformazione della cultura, il fatto che le decisioni vengano prese non da tutti e la coercizione.

Il cervello ha una struttura di base abbastanza semplice, poi utilizzando questi componenti di base riesce a realizzare parecchie funzioni. Si può intravedere un certo parallelismo con la materia stessa, anzi, se andiamo a ritroso nella ricerca dei materiali di base del cervello, non possiamo che trovarvi della semplice materia.

All’interno del cervello avvengono sia funzioni consce che funzioni inconsce, in effetti le cose delle quali siamo consci sono solo quelle sulle quali sta lavorando la memoria di lavoro. E’ come se lo specchio di casa fosse solo in una certa stanza, ma non in tutte, in particolare si trovasse in quella dove c’è la luce.

E’ chiaro che il fatto che il nostro cervello compia elaborazioni per le quali noi non prendiamo decisioni consce ha svantaggi, ma anche vantaggi. Se, infatti, è vero che, evitando di compiere tutte le volte un ragionamento complesso, ci si alleggerisce di carico di lavoro, d’altra parte subire certi tipi di ragionamento ai quali non partecipiamo veramente, o comunque non ne siamo consci, ci toglie parte del controllo sulle nostre azioni .

Tutti noi abbiamo vissuto esperienze nelle quali il comando delle operazioni è stato preso dalla nostra parte inconscia e che, alla fine, ha agito in modo diverso da come avremmo voluto se la gestione fosse stata fatta dalla parte cosciente. Si pensi, per esempio, agli attacchi d’ira.

Ma è anche vero che parecchie attività indispensabili alla vita vengono compiute egregiamente dalla parte inconscia del nostro cervello. Si pensi a quelle che comunemente vengono attribuite al così detto “spirito di sopravvivenza”.

Le nostre funzioni inconsce sono spesso quelle più legate alla nostra parte di animalità, quindi, sotto un certo punto di vista, potremmo pensare che siano di qualità inferiore, in realtà, oltre a consentirci di vivere, ci consentono anche tutta una serie di emozioni. In altri termini, nell’evoluzione dell’uomo vi sono parti che sono maggiormente connesse con la propria “base” di solo animale, ma non per questo sono inutili o tantomeno da disprezzare, sono alcuni dei componenti di un intero che ha senso proprio nel suo insieme e che alla fine può sopravvivere anche senza la parte culturale successiva, mentre, probabilmente, non potrebbe farlo se vi lasciassimo solo quest’ultima. Le nostre emozioni più brutte, ma anche quelle più belle, si appoggiano su una struttura mentale che ha base animale, nonostante si possa aggiungere cultura e logica a piacimento, mi sembrerebbe un errore madornale pensare di annullarne il motore primordiale di base.

Vari psicologi hanno cercato di individuare nella parte inconscia dell’uomo una sedimentazione di ragionamenti, paure od avversioni createsi soprattutto durante la fase iniziale della vita, a mio parere, la cosa sembra sensata.

Vediamo, quindi, che potremmo parlare di due tipi di razio umana: una prima legata ai ragionamenti consci sui quali spesso ci sentiamo di aver compiuto lo sforzo massimo di elaborazione, e una seconda dove un qualche tipo di ragionamento deve pur esservi, ma sulla quale, non essendo conscia, non riusciamo a darne un vero e proprio giudizio.

E’ chiaro che, nonostante ci possa essere stato un elevato impegno, anche nei ragionamenti consci non c’è garanzia di risultato positivo, ma, comunque, possiamo dire che sono il massimo potenzialmente ottenibile in base alle nostre capacità mentali, la nostra cultura ed il tempo dedicatovi.

E’ altrettanto evidente che i ragionamenti inconsci non sono, a loro volta sbagliati, a priori, anzi, come abbiamo visto, da un lato si tratta spesso di capacità elaborative utilissime alla sopravvivenza derivanti dal nostro essere animali, ma anche la sedimentazione di ragionamenti o avversioni vissute in tempi precedenti, quindi non possono essere definite negative di per sé. E’ chiaro che alcune esperienze vissute in giovane età possono marcare i nostri comportamenti e definire il nostro carattere per tutta la vita, ma tali caratteristiche possono essere sia positive che negative. In particolare, per quelle che alla fine consideriamo negative, sarebbe bello e opportuno che mediante il ragionamento conscio, le si potesse rimodellare, ma questo non è sempre facile o possibile. E’ anche vero che per alcuni ragionamenti o reazioni più animalesche che il nostro cervello fa, ne desidereremmo avere un maggiore controllo, ma è altrettanto vero che, essendo alla base del nostro meccanismo animale, non sono veramente gestibili, ne possiamo però spesso controllare l’output comportamentale.

Ritornando per un attimo alla meccanica del funzionamento del cervello, vediamo che tale comprensione ci aiuterà molto a capire meglio i nostri ragionamenti e i nostri comportamenti, questo, però, non ci deve far pensare che un giorno scoprendo tale meccanica di funzionamento avremo trovato una chiave di definizione della logica umana, piuttosto, avremo compreso una chiave di interpretazione della meccanica di funzionamento della stessa.

Ricordiamoci, peraltro, che siamo animali che stanno evolvendo i propri pensieri, capire la meccanica di funzionamento del cervello non ci dirà di certo cosa è bene decidere per il nostro futuro, ricordandoci comunque anche che forse l’unica cosa importante è un “intorno” del presente più che un lontano futuro o passato.

Come abbiamo visto, il cervello umano è fondamentalmente un contenitore vuoto che può essere riempito, la parte importante è proprio quest’ultima, quindi le esperienze e la cultura, e ,lasciatemi dire, solo in seconda analisi, il funzionamento fisico.

E chiaro che l’uno non può prescindere dall’altro, ma un cervello vuoto è un bel pezzo di hardware utile per la vita fisica e animalesca, una mente piena consente da un lato di poter sfruttare al meglio il meccanismo animale che è in noi, e dall’altro di spingere il pensiero nelle sue forme più elevate o elaborate che dir si voglia.

In ogni vita umana si compie un bellissimo, ma per alcune parti difficilmente reversibile, processo di formazione del cervello. La parte iniziale ha una grande importanza su quello che verrà successivamente, l’intensità, profondità e qualità del lavoro farà la differenza.

Nella prima fase di formazione i rischi di creare danni, che risiederanno poi nella parte inconscia del cervello, sono elevati, ma diventa estremamente difficile riuscire a capire quali esperienze potranno essere positivamente formative oppure negativamente limitative . In quella fase, il cervello è così malleabile ed è così poco deterministico, che diventa quasi impossibile evitare qualunque tipo di “danno”.

In una seconda fase assume molta più importanza la fase culturale vera e propria, è da questo momento in poi che più che le esperienze valgono le informazioni. Il carattere sarà già piuttosto definito sia per questioni innate che per esperienze iniziali, ma la cultura sarà invece in buona parte da acquisire.

In base a quello che abbiamo detto, la formazione del cervello può anche essere vista come l’accensione di un fiammifero, l’esperienza di provare certe fortissime emozioni giovanili potrà essere fatta una sola volta, “buona la prima !”. Di primo amore ce n’è solo uno, bello o brutto che sia.

Secondo alcune teorie, nel cervello non facciamo che scoprire cose, ma molto spesso prima di scoprirle le dobbiamo creare. E’ come se creassimo un pacco regalo che poi un giorno apriamo.

Se, infatti, è vero che vi sono situazioni ed emozioni che sono caratteristiche dell’uomo in quanto animale evoluto, ve ne sono altre che sono legate al nostro sviluppo culturale. Certi tipi di pensieri ed emozioni se non abbiamo un background di precedenti pensieri, non siamo in grado né di averli né di interpretarli. E non è dato a tutti provarli.

Un uomo sapiens che non fosse introdotto all’interno di una collettività non proverebbe cordoglio per la morte di un suo simile, non sarebbe malinconico nel vedere soffrire un bimbo malato di AIDS, non passerebbe tutta la sua vita a rimpiangere la fine di un rapporto amoroso con la propria compagna, o, almeno, non proverebbe tutti questi sentimenti nella stessa misura, intensità e forma nelle quali li prova una persona civilizzata di oggi.

Se è vero che noi siamo il frutto di una evoluzione fondamentalmente intellettiva di altri animali, il “crescendo” dell’intelletto che oggi è legato in buona parte a una vita sociale e civilizzata, ci dà sempre maggiori possibilità e varianti di sfruttamento delle potenzialità del cervello.

E’ vero che tutti i nostri pensieri e sentimenti sono probabilmente riconducibili ad alcune grandi famiglie che sono, in linea di massima, già presenti anche in altri mammiferi, ma è anche vero che all’interno di questo range di base noi possiamo definirne nuovi e di intensità molto diversa.

Dentro il cervello si elaborano numerosi pensieri, ma, poi, solo alcuni diventano azioni e comportamenti, se infatti tutti noi facciamo i più disparati pensieri, irrealizzabili e alcune volte immorali anche per il nostro giudizio, solo una parte di essi viene poi realizzata o, comunque, induce qualche comportamento esterno.

Il pensiero è probabilmente la zona dove la libertà è massima, qualunque tipo di cosa può essere pensata e, sotto un certo punto di vista, anche per quelli che poi giudichiamo negativi, non dobbiamo vergognarcene, infatti il pensiero stesso ha una meccanica e sequenza mediante la quale prima dovrà essere elaborato poi, successivamente, giudicato, pensare il contrario è come se volessimo giudicare un film prima di vederlo: impossibile !

Quindi, pensare liberamente alle più svariate cose non è solo un esercizio della nostra libertà, ma è anche il naturale risvolto del nostro meccanismo mentale.

Il pensiero e il giudizio del pensiero sono due parti separate.

E’ chiaro che se facciamo numerosi pensieri, che ai più possono risultare negativi o censurabili e riteniamo che quello che pensiamo sia corretto, allora ci troviamo in conflitto con la maggior parte delle persone e rischiamo di avere comportamenti esterni che possono, a loro volta, essere in conflitto con le altre persone.

Chi ha numerosi pensieri “negativi” , come per esempio potrebbe esserlo quello di pensare di uccidere altre persone, ha una forte potenzialità di arrivare ad avere comportamenti negativi, se, infatti, è vero che la produzione dei pensieri è, per sua natura, molto libera, è anche vero che una elevata produzione di pensieri “negativi”, fa pensare a una mente propensa alla negatività, in altri termini, una mente “non negativa” normalmente istrada la produzione di pensieri all’interno di un corridoio già discretamente limitato. E’ come se, a forza di giudicare negativo un certo pensiero, dopo un poco la mente smetta addirittura di proporlo al giudizio. Propone molte idee e opzioni ma già autolimitate.

E’ quindi vero che, in fondo, se non c’è un comportamento negativo come output non ci sono motivi per ritenere negativi certi tipi di pensieri, ma è anche vero che, sequenzialmente, prima viene il pensiero poi l’azione, e che se il pensiero produce solo o, comunque, molti pensieri negativi, allora vi sono buone probabilità che vi siano poi comportamenti negativi. Il “controllo qualità” seleziona solo ciò che esce dalle linee produttive.


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Lontano nel tempo

- Oggi è il primo giorno di primavera. - annunciò Soledad.
Era il 21 settembre 1976. Soledad e i suoi genitori, Andrés e Matilde Bianchi, stavano facendo colazione nel salotto della loro villa, nel quartiere Palermo di Buenos Aires.
Sei mesi prima, il 24 marzo, i comandanti in capo dell’esercito, generale Jorge Rafael Videla, della marina, ammiraglio Emilio Eduardo Massera e dell’aviazione, brigadiere Orlando Ramón Agosti, con un colpo di stato avevano destituito la presidentessa Isabelita Perón instaurando una giunta militare, di cui Videla era stato designato presidente. I golpisti avevano dichiarato lo stato d’assedio, sciolto il parlamento, rimosso i membri della Corte Suprema di Giustizia, sospeso la costituzione e le attività politiche e sindacali. Il nuovo governo militare aveva ottenuto l’appoggio, in alcuni casi entusiasta, in altri rassegnato, di molte forze politiche e dei mezzi di comunicazione ed era stato riconosciuto ufficialmente dalla maggioranza dell’episcopato argentino e da quasi tutte le altre nazioni.
Dall’inizio del secolo in Argentina c’era stato un continuo alternarsi di regimi civili e dittature militari, per cui l’ultimo golpe non aveva suscitato particolari preoccupazioni tra la popolazione. Tanto più che il governo presieduto dalla vedova di Juan Perón, succeduta al marito nel 1974, era stato fortemente indebolito da una grave crisi economica e da una guerriglia interna scatenata da due gruppi armati: i Montoneros, che si ispiravano alle idee socialiste di Perón, e l’Esercito Rivoluzionario del Popolo, che rappresentava la sinistra più radicale. Un ampio settore della società, costituito soprattutto dalle classi imprenditoriali e più abbienti, riponeva molte aspettative nel Processo di Riorganizzazione Nazionale elaborato dalla giunta, i cui obiettivi principali erano debellare il terrorismo, ripristinare la sicurezza e l’ordine sociale, difendere i valori della morale cristiana e risanare l’economia.
- Posso andare a studiare a casa di Luisa dopo le lezioni? - chiese Soledad.
- Va bene ma non fare tardi. - le raccomandò suo padre.
- Prometto che rientrerò prima delle cinque.
Andrés nutriva una grande fiducia nella figlia, che si era sempre dimostrata ubbidiente e giudiziosa. Soledad frequentava il liceo classico ed era il suo orgoglio. Aveva diciotto anni, tratti delicati, la carnagione chiara, lunghi capelli castani lisci e uno sguardo dolcissimo.
Andrés e Matilde erano funzionari statali e come milioni di loro connazionali avevano origini italiane: le loro famiglie erano emigrate in Argentina dalla Lombardia negli anni ’20. I genitori di Andrés, partiti con scarse risorse da Meda, a Buenos Aires avevano aperto una piccola fabbrica di mobili, grazie alla quale avevano potuto far studiare i loro due figli fino alla laurea. Il padre di Matilde, invece, un ingegnere nato a Erba, aveva fondato una delle più rinomate imprese edili della capitale.
Soledad si alzò e diede un bacio ai genitori.
- Io scappo altrimenti perdo l’autobus. - disse correndo fuori dalla stanza.
Mentre Soledad si recava a scuola, in un appartamento di un elegante condominio del quartiere Retiro Gustavo Gutiérrez, colonnello dell’esercito, faceva colazione con la moglie Susan e il figlio David, di cinque anni.
Gutiérrez aveva quarant’anni, lineamenti marcati e occhi e capelli corvini, ereditati dai suoi antenati spagnoli. Sua moglie, di dieci anni più giovane, aveva i capelli biondi, la pelle diafana e gli occhi azzurri.
- Stasera guardiamo la televisione insieme? - chiese David al padre.
- Non è possibile. Oggi devo fare gli straordinari e tornerò a casa tardi, quando tu sarai già a letto.
- No! - esclamò David mettendo il broncio.
- Niente capricci. Non li tollero.
- La mamma dice che tu fai un lavoro importante.
- Molto importante. Do la caccia ai cattivi e li catturo, come gli sceriffi nei film di cowboys.
- Non entrare nei particolari. - intervenne Susan - Il bambino è troppo piccolo per capire e l’unico risultato che ottieni è di spaventarlo.
Sul volto dell’ufficiale apparve un’espressione di disgusto. L’uomo maledisse il giorno in cui si era innamorato di sua moglie. L’aveva conosciuta sei anni prima, in occasione di un corso di addestramento negli Stati Uniti, in Florida. Era stato un colpo di fulmine per entrambi e dopo tre mesi si erano sposati. Susan apparteneva a una facoltosa famiglia cattolica dell’alta borghesia. Di una bellezza eterea, sembrava una fatina buona e gentile. Già durante la luna di miele, però, si era tramutata in una perfida strega. Ipocrita e moralista fino a rasentare il fanatismo, faceva delle tragedie interminabili per una semplice parolaccia. Per lei le apparenze venivano prima di ogni altra cosa. Con la nascita David, nove mesi dopo le nozze, era diventata ancora più intransigente e insopportabile. Per evitare le lamentele della moglie Gutiérrez in casa doveva costantemente reprimere il suo temperamento irascibile e impetuoso. Per fortuna aveva il lavoro. In ufficio era libero di essere se stesso senza censure e poteva sfogare sui sottoposti la rabbia accumulata tra le pareti domestiche.
Il colonnello si pulì la bocca col tovagliolo.
- Io vado. - disse scagliando il tovagliolo sul tavolo.
Poi si alzò di scatto e con passi rapidi uscì di casa.

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lunedì 24 settembre 2007

Leopold Blumij o i giorni del Blumij a Bairentagrado, I capitolo




Apertura
Luglio 1944

Leopold Blumij. La prima volta che lo vidi avevo circa sei anni, frequentavo la prima elementare e giocavo spesso nei dintorni del fiume Bairenta a calcio insieme ai miei compagni di classe. Era all’incirca la metà del 1944 ed eravamo un bel gruppetto… C’era il Marinelli, capetto del gruppo, quello esperto nel rubar le merende agli altri, c’era il Leporini che tutti chiamavano il genio, non tanto per le capacità intellettive, quanto per la sua abilità nel mescolare polveri magiche e farle scoppiare. Era un segreto, lo aveva appreso da un tedesco di passaggio, diceva lui, e non lo voleva proprio confessare a nessuno. C’erano il Barletta e l’Onofri, i due più grassottelli e incapaci, che di solito nelle partite finivano in difesa, e c’era il Gallaccini, l’unico di origini non proletarie della classe, e l’unico che, avendo il pallone, decideva quando e come si giocava. Anche se di solito, in realtà, non ti faceva pesare la quantità degli anni futuri che avresti dovuto lavorare sotto di lui o per lui; semplicemente vigeva un accordo: il Gallaccini aveva diritto a comporre le squadre a suo piacimento, purché fossero eque, il Gallaccini giocava sempre e comunque attaccante e non andava mai in porta, terza e ultima regola, chiunque tirasse la palla fuori dal campo, dovunque finisse, uno degli altri doveva andare a riprenderla. A tutti i costi. E quel giorno toccava a me andarla a riprendere, era il ventiquattro del mese e il calendario mentale del Marinelli parlava chiaro, toccava a me. Nonostante ci fossi andato anche il diciannove e il ventidue, toccava a me, il calendario parlava chiaro e nessuno osava metterlo in dubbio. Solo che la palla non era finita sull’argine, non era finita nei pressi del ponte come al solito e nemmeno verso la fattoria dei Barletta, era finita dove mai, mai, proprio mai, avevamo osato spingerci: davanti alla porta di casa di Leopold Blumij.
Era un personaggio strano per noi, di quelli che da bambino ti fanno paura da quanto ci fantastichi sopra; mi ricordo ancora di quando il Marinelli, appoggiato sulla mia schiena, spiava la finestra della casa e sbalordito giurò di averlo visto levarsi la maschera da uomo per presentarsi ai suoi occhi con sembianze di pesce. C’aveva le squame ti giuro, ripeteva sudando, c’aveva le squame, te lo giuro sulla mia famiglia, me lo ricordo ancora. Dopo averlo visto sotto le sembianze di grosso pesce ci fu chi iniziò a raccontare, come il Leporini, di averlo visto cibarsi di mosche e cavallette ingurgitando dosi improbabili di vino e acquaragia, ma a questo in pochi credettero. Solo che il calendario parlava chiaro, stava a me andare in bocca all’uomo pesce e prendere il pallone, e il cuore batteva così forte che credevo di farmela addosso. E tutti, Barletta ed Onofri compresi, forti del coraggio di chi non deve far nulla se non sfottere, cominciarono a cantare le canzoncine a presa di culo che ti fanno trasalire, che ti fanno ritrovare la forza delle azioni eroiche, la forza di muoverti dall’immobilità dei secondi e delle risatine che passano per agire. Sulle note delle varie prese di giro iniziai a mormorare ve lo faccio vedere io chi è che ha paura e lentamente presi ad avvicinarmi allo steccato. Nitida, chiara, vedevo la palla finita tra le poche erbacce del giardino, tutto sommato curato, della casa. Agguantai la cima dello steccato nel silenzio assoluto degli astanti e scavalcai, con il cuore ormai in gola che tempestava di tamburi le mie orecchie. Quatto, quatto, felino, mi avvicinai alla palla, senza guardarla, ma voltandomi di continuo per ispezionare tutta la zona d’ombra che avevo alle spalle. Tre metri, mancano solo tre metri. Mi volto e vedo le facce attonite degli amici, faccio segno che va tutto bene, nessuno in giro, dalla casa silenzio. Uno, due passi, lenti, mancano solo due metri. Un metro. Mi volto, con la solita paura di esser preso alle spalle dal pericolo incombente.
“La palla”
Mi giro lentamente con il cuore in gola, chi ha parlato, chi mi troverò davanti, un uomo con le sembianze di pesce, avrà la sua maschera da uomo, vorrà mica mangiarmi?
“La palla” diceva cortese Leopold
Un uomo, avevo davanti solo un uomo.
Lo guardai in silenzio e lui, sorridendo, mi porse la palla. La teneva nella mano destra, che mani grandi, riesce a tenere la palla in un palmo, nella mano sinistra una bottiglia di vino aperta e ammezzata. Presi la palla, in silenzio, non riuscii a dire proprio nulla, rimasi immobile, attorno era tutto silenzio.
“Beh, ciao e cerca di marcare meglio quel pivello, guarda che non è mica bravo come dice di essere.”
E si avviò in casa.
Rimasi qualche secondo stordito, a capire se ero ancora vivo, e perché ero stato risparmiato dalle grinfie malvagie del mostro. Mi voltai, Marinelli cominciava a schiamazzare e a fare finta che la mia impresa nulla avesse di storico, dicendo cose tipo Allora, ‘sta palla?! Così che mi avviai verso il campo, palla in mano. Feci due gol quel giorno, ed in compenso il Marinelli non ne fece nemmeno uno, rimediandosi anche una sbucciatura su di un mio intervento critico.
Leopold Blumij. L’uomo-pesce.

Fu la prima volta che lo vidi, quella, e tornai a casa con un che di adrenalina e paura miste, ma abbastanza convinto di aver visto solo un uomo. Sapevo che mia madre e mio padre lo conoscevano, quindi andai da mia madre e le chiesi che opinione ne avesse. Dio, che non ti ci veda mai parlare con quel senzadio! mi disse. Mia madre era molto cattolica, come del resto tutte le donne del paese; mio padre, quando gli feci la stessa domanda, mi prese da una parte, si guardò intorno con l’intenzione di rivelarmi un segreto, e mi parlò all’orecchio Sei grande, vero, ormai? Possiamo parlare da uomo a uomo, vero? Bene, Leopold è un compagno, è uno di noi, ma shhhh! Non dire niente di niente a nessuno, mi raccomando…
Certo non potevo ben capire cosa significasse “compagno”, ma compresi che aveva qualcosa a che fare con Leopold e mio padre e che quest’ultimo ne dava una buona accezione. Feci cenno di sì con la testa, anche se in realtà quello che avevo appreso era ben poco. Di notte, infatti, sognai mio padre e Leopold Blumij ubriachi sul nostro “campo da gioco” che mangiavano il Gallaccini su di una tavola imbandita levandosi di quando in quando la maschera da uomo e masticando un po’ di carne nobile e un po’ di cavallette. Mi svegliai di soprassalto che mio padre sia anche lui un uomo pesce? Sono compagni, mio padre è uno dei loro e tra i loro c’è anche l’uomo pesce…
In preda ai dubbi, di primo mattino, saltando la colazione, vestendomi con le stesse cose del giorno prima, andai al campino e stetti un quarto d’ora buono ad osservare la casa. La casa dell’uomo-pesce. Sono uno di quelli, si dei servizi segreti, si, una spia, di quelle bravissime, che non si fanno mai prendere, che sanno sempre come fare, sono agilissimo, nemmeno un marines mi vedrebbe. Mi avvicinai, cercando di ostentare sicurezza, solo che questa volta non avevo nemmeno una palla da recuperare, non avevo un motivo se non un’indagine in corso. Sempre più vicino. Sono una spia, la spia, la migliore spia italiana. Arrivato allo steccato. Che dico italiana, sono la migliore spia del mondo, di tutto l’universo. Mi arrampico, tanto per vedere meglio.
“Ehilà, giovanotto, che ci fai lì?”
…come spia non valgo un corno…
“Dai, vieni, entra!”

Così, su due piedi, uno non sa mai cosa fare, per cui si affida all’istinto, e da bambino questo era sicuramente predominante in me…mi ritornarono in mente le parole di mia madre…e poi quelle di mio padre… poi quelle del Marinelli… andiamo, pensai…

Leopold Blumij mi aveva già preceduto in casa, davanti al fuoco sfogliava un libro con fare intellettuale. Mi avvicinai lentamente, con la curiosità che muove le gambe e la prudenza che cerca di trattenerle, e mi sedetti vicino a lui. Lo scrutavo, nella sua espressione assorta, nei suoi occhiali dalla modesta montatura che cercavano di nascondere due occhi piccoli e incisivi, scrutavo la sua folta barba dalle dense sfumature rossastre. Mi guardai intorno, la casa traboccava di mensole e di libri, ma in tutto l’ambiente regnava un’aria di spoglia, umida e semplice umiltà. In un angolo del soggiorno uno strano manifesto rosso con un elenco di regole dattiloscritte, appena sotto alcuni quadri di persone con il pungo sinistro alzato o la mano destra posta a mostrare un qualche radioso futuro.
“Ebbene sono io, Leopold Blumij, l’uomo pesce, giovanotto. E adesso? Che dici, me la levo la maschera da uomo?”
…scherza, certo, sta scherzando… ma i suoi occhi erano piuttosto severi…

“Lo so che mi chiamate così, per cui… vuoi vedere o no le mie squame? Sono belle, sai? Specie quando la luce ci si infrange sopra…”
“Tieni, ho appena finito di preparare uno sformato di cavallette, ne vuoi un po’?” e mi porse una fetta.
Io non sapevo proprio cosa dire, ero timoroso e piuttosto silenzioso. Non so che tipo di volto gli stessi mostrando, forse difensivo, fatto sta che non riuscì più ad essere serio, mi dette una forte pacca sulle spalle e si mise a ridere:
“Oh, oh oh, mi fai morire con codesta faccia! …cos’è, ti hanno tagliato la lingua?! Dai, vai dai tuoi amici adesso e digli che hai conosciuto l’uomo pesce, ah ah ah ah ah!”
Mi misi a ridere anch’io e così, per un po’, ridemmo del nulla, come succede tra vecchi amici, come succede negli attimi di rilassata poesia che, talvolta, la vita riesce a donarti.
Non è affatto facile ridere del nulla. E non è nemmeno cosa da poco. Ho conosciuto, una volta, una persona che si allenava quotidianamente per riuscirci, ma con l’unico risultato di ridere per l’intera durata della giornata sviluppando degli addominali da massima categoria di pesi del pugilato. Ma questa è tutt’altra storia.Quel giorno me ne sgattaiolai via dalla casa di Leopold Blumij rasserenato, che l’incubo dei bambini non incombeva più sull’estate calda e piena ancora di calci da dare al pallone, Gallaccini permettendo.

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