Apertura
Luglio 1944
Leopold Blumij. La prima volta che lo vidi avevo circa sei anni, frequentavo la prima elementare e giocavo spesso nei dintorni del fiume Bairenta a calcio insieme ai miei compagni di classe. Era all’incirca la metà del 1944 ed eravamo un bel gruppetto… C’era il Marinelli, capetto del gruppo, quello esperto nel rubar le merende agli altri, c’era il Leporini che tutti chiamavano il genio, non tanto per le capacità intellettive, quanto per la sua abilità nel mescolare polveri magiche e farle scoppiare. Era un segreto, lo aveva appreso da un tedesco di passaggio, diceva lui, e non lo voleva proprio confessare a nessuno. C’erano il Barletta e l’Onofri, i due più grassottelli e incapaci, che di solito nelle partite finivano in difesa, e c’era il Gallaccini, l’unico di origini non proletarie della classe, e l’unico che, avendo il pallone, decideva quando e come si giocava. Anche se di solito, in realtà, non ti faceva pesare la quantità degli anni futuri che avresti dovuto lavorare sotto di lui o per lui; semplicemente vigeva un accordo: il Gallaccini aveva diritto a comporre le squadre a suo piacimento, purché fossero eque, il Gallaccini giocava sempre e comunque attaccante e non andava mai in porta, terza e ultima regola, chiunque tirasse la palla fuori dal campo, dovunque finisse, uno degli altri doveva andare a riprenderla. A tutti i costi. E quel giorno toccava a me andarla a riprendere, era il ventiquattro del mese e il calendario mentale del Marinelli parlava chiaro, toccava a me. Nonostante ci fossi andato anche il diciannove e il ventidue, toccava a me, il calendario parlava chiaro e nessuno osava metterlo in dubbio. Solo che la palla non era finita sull’argine, non era finita nei pressi del ponte come al solito e nemmeno verso la fattoria dei Barletta, era finita dove mai, mai, proprio mai, avevamo osato spingerci: davanti alla porta di casa di Leopold Blumij.
Era un personaggio strano per noi, di quelli che da bambino ti fanno paura da quanto ci fantastichi sopra; mi ricordo ancora di quando il Marinelli, appoggiato sulla mia schiena, spiava la finestra della casa e sbalordito giurò di averlo visto levarsi la maschera da uomo per presentarsi ai suoi occhi con sembianze di pesce. C’aveva le squame ti giuro, ripeteva sudando, c’aveva le squame, te lo giuro sulla mia famiglia, me lo ricordo ancora. Dopo averlo visto sotto le sembianze di grosso pesce ci fu chi iniziò a raccontare, come il Leporini, di averlo visto cibarsi di mosche e cavallette ingurgitando dosi improbabili di vino e acquaragia, ma a questo in pochi credettero. Solo che il calendario parlava chiaro, stava a me andare in bocca all’uomo pesce e prendere il pallone, e il cuore batteva così forte che credevo di farmela addosso. E tutti, Barletta ed Onofri compresi, forti del coraggio di chi non deve far nulla se non sfottere, cominciarono a cantare le canzoncine a presa di culo che ti fanno trasalire, che ti fanno ritrovare la forza delle azioni eroiche, la forza di muoverti dall’immobilità dei secondi e delle risatine che passano per agire. Sulle note delle varie prese di giro iniziai a mormorare ve lo faccio vedere io chi è che ha paura e lentamente presi ad avvicinarmi allo steccato. Nitida, chiara, vedevo la palla finita tra le poche erbacce del giardino, tutto sommato curato, della casa. Agguantai la cima dello steccato nel silenzio assoluto degli astanti e scavalcai, con il cuore ormai in gola che tempestava di tamburi le mie orecchie. Quatto, quatto, felino, mi avvicinai alla palla, senza guardarla, ma voltandomi di continuo per ispezionare tutta la zona d’ombra che avevo alle spalle. Tre metri, mancano solo tre metri. Mi volto e vedo le facce attonite degli amici, faccio segno che va tutto bene, nessuno in giro, dalla casa silenzio. Uno, due passi, lenti, mancano solo due metri. Un metro. Mi volto, con la solita paura di esser preso alle spalle dal pericolo incombente.
“La palla”
Mi giro lentamente con il cuore in gola, chi ha parlato, chi mi troverò davanti, un uomo con le sembianze di pesce, avrà la sua maschera da uomo, vorrà mica mangiarmi?
“La palla” diceva cortese Leopold
Un uomo, avevo davanti solo un uomo.
Lo guardai in silenzio e lui, sorridendo, mi porse la palla. La teneva nella mano destra, che mani grandi, riesce a tenere la palla in un palmo, nella mano sinistra una bottiglia di vino aperta e ammezzata. Presi la palla, in silenzio, non riuscii a dire proprio nulla, rimasi immobile, attorno era tutto silenzio.
“Beh, ciao e cerca di marcare meglio quel pivello, guarda che non è mica bravo come dice di essere.”
E si avviò in casa.
Rimasi qualche secondo stordito, a capire se ero ancora vivo, e perché ero stato risparmiato dalle grinfie malvagie del mostro. Mi voltai, Marinelli cominciava a schiamazzare e a fare finta che la mia impresa nulla avesse di storico, dicendo cose tipo Allora, ‘sta palla?! Così che mi avviai verso il campo, palla in mano. Feci due gol quel giorno, ed in compenso il Marinelli non ne fece nemmeno uno, rimediandosi anche una sbucciatura su di un mio intervento critico.
Leopold Blumij. L’uomo-pesce.
Fu la prima volta che lo vidi, quella, e tornai a casa con un che di adrenalina e paura miste, ma abbastanza convinto di aver visto solo un uomo. Sapevo che mia madre e mio padre lo conoscevano, quindi andai da mia madre e le chiesi che opinione ne avesse. Dio, che non ti ci veda mai parlare con quel senzadio! mi disse. Mia madre era molto cattolica, come del resto tutte le donne del paese; mio padre, quando gli feci la stessa domanda, mi prese da una parte, si guardò intorno con l’intenzione di rivelarmi un segreto, e mi parlò all’orecchio Sei grande, vero, ormai? Possiamo parlare da uomo a uomo, vero? Bene, Leopold è un compagno, è uno di noi, ma shhhh! Non dire niente di niente a nessuno, mi raccomando…
Certo non potevo ben capire cosa significasse “compagno”, ma compresi che aveva qualcosa a che fare con Leopold e mio padre e che quest’ultimo ne dava una buona accezione. Feci cenno di sì con la testa, anche se in realtà quello che avevo appreso era ben poco. Di notte, infatti, sognai mio padre e Leopold Blumij ubriachi sul nostro “campo da gioco” che mangiavano il Gallaccini su di una tavola imbandita levandosi di quando in quando la maschera da uomo e masticando un po’ di carne nobile e un po’ di cavallette. Mi svegliai di soprassalto che mio padre sia anche lui un uomo pesce? Sono compagni, mio padre è uno dei loro e tra i loro c’è anche l’uomo pesce…
In preda ai dubbi, di primo mattino, saltando la colazione, vestendomi con le stesse cose del giorno prima, andai al campino e stetti un quarto d’ora buono ad osservare la casa. La casa dell’uomo-pesce. Sono uno di quelli, si dei servizi segreti, si, una spia, di quelle bravissime, che non si fanno mai prendere, che sanno sempre come fare, sono agilissimo, nemmeno un marines mi vedrebbe. Mi avvicinai, cercando di ostentare sicurezza, solo che questa volta non avevo nemmeno una palla da recuperare, non avevo un motivo se non un’indagine in corso. Sempre più vicino. Sono una spia, la spia, la migliore spia italiana. Arrivato allo steccato. Che dico italiana, sono la migliore spia del mondo, di tutto l’universo. Mi arrampico, tanto per vedere meglio.
“Ehilà, giovanotto, che ci fai lì?”
…come spia non valgo un corno…
“Dai, vieni, entra!”
Così, su due piedi, uno non sa mai cosa fare, per cui si affida all’istinto, e da bambino questo era sicuramente predominante in me…mi ritornarono in mente le parole di mia madre…e poi quelle di mio padre… poi quelle del Marinelli… andiamo, pensai…
Leopold Blumij mi aveva già preceduto in casa, davanti al fuoco sfogliava un libro con fare intellettuale. Mi avvicinai lentamente, con la curiosità che muove le gambe e la prudenza che cerca di trattenerle, e mi sedetti vicino a lui. Lo scrutavo, nella sua espressione assorta, nei suoi occhiali dalla modesta montatura che cercavano di nascondere due occhi piccoli e incisivi, scrutavo la sua folta barba dalle dense sfumature rossastre. Mi guardai intorno, la casa traboccava di mensole e di libri, ma in tutto l’ambiente regnava un’aria di spoglia, umida e semplice umiltà. In un angolo del soggiorno uno strano manifesto rosso con un elenco di regole dattiloscritte, appena sotto alcuni quadri di persone con il pungo sinistro alzato o la mano destra posta a mostrare un qualche radioso futuro.
“Ebbene sono io, Leopold Blumij, l’uomo pesce, giovanotto. E adesso? Che dici, me la levo la maschera da uomo?”
…scherza, certo, sta scherzando… ma i suoi occhi erano piuttosto severi…
“Lo so che mi chiamate così, per cui… vuoi vedere o no le mie squame? Sono belle, sai? Specie quando la luce ci si infrange sopra…”
“Tieni, ho appena finito di preparare uno sformato di cavallette, ne vuoi un po’?” e mi porse una fetta.
Io non sapevo proprio cosa dire, ero timoroso e piuttosto silenzioso. Non so che tipo di volto gli stessi mostrando, forse difensivo, fatto sta che non riuscì più ad essere serio, mi dette una forte pacca sulle spalle e si mise a ridere:
“Oh, oh oh, mi fai morire con codesta faccia! …cos’è, ti hanno tagliato la lingua?! Dai, vai dai tuoi amici adesso e digli che hai conosciuto l’uomo pesce, ah ah ah ah ah!”
Mi misi a ridere anch’io e così, per un po’, ridemmo del nulla, come succede tra vecchi amici, come succede negli attimi di rilassata poesia che, talvolta, la vita riesce a donarti.
Non è affatto facile ridere del nulla. E non è nemmeno cosa da poco. Ho conosciuto, una volta, una persona che si allenava quotidianamente per riuscirci, ma con l’unico risultato di ridere per l’intera durata della giornata sviluppando degli addominali da massima categoria di pesi del pugilato. Ma questa è tutt’altra storia.Quel giorno me ne sgattaiolai via dalla casa di Leopold Blumij rasserenato, che l’incubo dei bambini non incombeva più sull’estate calda e piena ancora di calci da dare al pallone, Gallaccini permettendo.
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