martedì 24 luglio 2007

" Propensione per le tempeste " di Riccardo Gavioso


Lo so, avete senz'altro ragione: le prefazioni sono già
abbastanza fastidiose quando precedono un romanzo,
figuriamoci quando si antepongono a un racconto... Ma,
poiché ho bisogno del vostro aiuto, l'unica cosa sensata da
fare mi pare quella d'invocarlo
Ebbene, è successo: mi sono convertito allo
sperimentalismo. Ero rimasto uno dei pochi a ritenere che se
qualcuno aveva inventato la punteggiatura, tanto valeva
usarla e possibilmente al posto giusto - sempre ammesso che
esista. Ero anche disposto a promuovere una grande
sottoscrizione popolare con cui finanziare una disperata
operazione a cuore aperto per allungare la vita al congiuntivo
e, in pericolosi slanci di passatismo letterario, preferire l'uso
di un trattino o di un paio di virgolette per il discorso diretto.
E invece mi sono convertito. Quello che segue è un
racconto sperimentale. Un racconto interattivo.
A questo punto vi aspetterete di trovare nelle pagine
che seguono pulsanti in rilievo con cui saltare dove vi
aggrada e spezzare la linearità della narrazione,
estemporanee finestre aperte su supporti figurativi e
musicali, o almeno la possibilità di scegliere - secondo gusti,
inclinazioni e umore del momento - tra una terna di finali
diversi...
Nulla di tutto ciò.
Continuate pure a dedicarvi al vostro ormai desueto
mestiere di lettore, si tratterà semplicemente di far lavorare
l'immaginazione come al solito... forse un po' più del solito.
Spiego: il racconto che sottopongo al vostro giudizio,
pur scritto e pensato in modo del tutto tradizionale, è stato
volutamente privato di qualsiasi riferimento temporale e
spaziale che vi obblighi a preferire un'ambientazione
piuttosto che un'altra.
Perché mai, mi chiederete? ... ma perché narra la
storia di un uomo perseguitato dal potere. La storia di un
uomo che si macchia dell'imperdonabile peccato di credere
che il proprio paese possa vivere una stagione migliore di
quella che vive e delle tante che l'hanno preceduta; di un
uomo che dalla base punta un dito accusatore verso il vertice,
certo che nessun vertice possa sostenersi senza il supporto
della base.
Converrete che le possibilità di scelta sono
geograficamente sconfinate e cronologicamente illimitate.
Dai giorni nostri, al secolo scorso (più indietro non vi
consiglio d'andare perché il lavoro di vaglio, per quanto
accurato, non è stato in grado di eliminare alcuni particolari
che potrebbero stridere con un'ambientazione in epoche
troppo remote) dal nostro paese alle più desolate lande
boreali o australi, dai totalitarismi imposti nell'interesse delle
classi più abbienti, a quelli sarcasticamente esercitati in
nome di quelle meno abbienti. Da regimi morti e dimenticati,
a quelli morti e che purtroppo sarà difficile dimenticare, a
quelli che godono - ancora e a maggior ragione " purtroppo "
- di ottima salute. E cerchiamo di non farci irretire da quelli
che celano le loro rozze fattezze dietro le sfavillanti
maschere della democrazia.
Io vi lascio a questa scelta e al racconto, con la
speranza che un giorno a chi leggerà questa premessa non
resti altra possibilità che quella di risalire ad anni lontani,
come a noi sembrano oggi lontani quelli in cui questo potrà
avvenire.


Il professore era invecchiato lentamente, come i pochi
che accettano d'invecchiare, e lentamente aveva imboccato il
portone di casa, curvo sotto il peso di una sporta che,
nonostante la giornata festiva, il negoziante di fronte gli
aveva messo tra le mani al termine della sua breve
passeggiata.
Rabbrividì nell'ombra dell'andito, bruscamente
privato di quell'inatteso sole primaverile, così carico
d'aspettative perfino per chi come lui, aveva imparato a
vivere con lo stretto indispensabile anche da un punto di
vista poetico. La tendina della portineria era tirata, e non
avrebbe avuto senso indugiare: la piccola donna doveva
essere in giro a sbrigare qualche commissione o a cercare in
quale bettola fosse finita la madre.
Amava quella ragazzina maturata dall'alcolismo dei
genitori, che accudiva al caseggiato con la spensieratezza di
una quindicenne e la solerzia di una donna matura. Amava la
sua giovinezza così bistrattata e si divertiva a immaginare
che qualche bioccolo di questa rimanesse attaccato alle
scabre pareti grigie su cui talvolta rimbalzavano attutite le
sue risa.
Salì le scale e, entrato in casa, uscì subito sul balcone.
La signora gli parve ancor più attraente del solito:
eterea negli svolazzi floreali di un vestitino primaverile,
appariva e spariva nelle grandi porte-finestre del palazzo di
fronte, pungolando con garbo la donna che l'aiutava nelle
pulizie.
Un sorriso gli affiorò sulle labbra, e annaspò qualche
secondo prima d'accorgersi che l'umore della donna non era
quello abituale. Che rabbia, proprio quella mattina che
avrebbe avuto così bisogno di confidarsi con lei... proprio
quella mattina che solo un suo consiglio...
Poteva aver fatto qualcosa che l'aveva irritata? ...
non ricordava. O forse lei già sapeva, e la sua espressione
doveva essere letta come segno di biasimo? ... difficile, ma
non impossibile.
Si allontanò dal balcone: con le donne era questione
di trovare il momento buono, e quello non lo era di certo. E
poi con tutto quel che aveva da fare...
Si avvicinò al tavolo della cucina e vi posò con
delicatezza la spesa. Indugiò quindi un attimo, considerando
se fosse il caso di cambiarsi d'abito, ma si accontentò di
sistemare la giacca sulla spalliera di una sedia e di arrotolare
le maniche della camicia.
Aperto uno stipo, recuperò un canovaccio e lo distese
con cura sul tavolo. Estrasse poi da un involto di carta
marrone quattro anguille di medie dimensioni e le allineò
sulla tela grezza. La luce accendeva sulla loro pelle riflessi
iridescenti, e ci volle qualche secondo prima che si decidesse
a pescare in un sacchetto tre cipolle, un sedano, una bella
carota, prezzemolo e limone.
Erano anguille mezzane, abbondanti per quattro
porzioni... sorrise per l'ennesima volta di quella debolezza
che andava avanti da anni: aveva appreso i segreti dell'arte
culinaria quando i suoi sforzi erano premiati dall'appetito di
tre persone e, in seguito, si era convinto che adattare le
quantità degli ingredienti a quello di una sola avrebbe
comportato difficoltà che andavano al di là di una semplice
operazione matematica e avrebbero compromesso la riuscita
dei suoi piatti.
O certo, era una balorda fissazione frutto del vivere
appartato e degli anni. Una tra le tante cui si era affezionato
per la capacità di ricreare intorno a lui una parvenza
d'ambiente famigliare... Da qualche anno era solo: i figli si
erano lasciati attrarre dalle lusinghe di altri paesi, e questo,
vista la situazione del suo, non gli era dispiaciuto; la moglie
da quelle di un altro uomo, e questo non poteva non
dispiacergli ancora almeno un poco.
E poi quell'innocente tributo alla memoria di
complicità lontane era limitato al pranzo domenicale, e mai
si sarebbe spinto verso l'alienante confine di una tavola
apparecchiata per quattro. Ne era certo, ma, mentre stava
appoggiando sul fuoco una pentola piena d'acqua, non riuscì
a trattenere un altro sorriso: l'unica consolazione che ci può
venire dall'isolamento è quella di non essere costretti a
giustificare i propri comportamenti, a patto di non offrire
ricetto a un'identità speculare che, pedante e importuna, sia
sempre pronta a rinfacciarci le nostre debolezze.
Tornò al tavolo, munito di coltello e, sbucciato il
limone, con dita agili si mise a trinciare le verdure. Aveva
quasi ultimato l'operazione, quando la similitudine gli si
presentò con la nettezza dei tagli che avevano sminuzzato
una grossa carota, e riportò il suo sguardo verso l'angolo
dell'incerata dove aveva posato i pesci.
Propensione per le tempeste.
Dal giorno precedente quelle parole si prestavano a
definire il suo comportamento; da millenni quello delle
anguille che, nel periodo della riproduzione, preferiscono per
la discesa dai fiumi al mare - calata, la chiamano i pescatori -
le notti oscure e burrascose dei primi mesi invernali. Anche
il professore si era sgravato, pur sapendo che, una volta
schiuse le sue uova, la tempesta si sarebbe scatenata
fulminea e impietosa...
Mise a bollire le verdure con sale e pepe e, mentre
tagliava le anguille a rocchi lasciandoli uniti da un lembo di
carne, si chiese che cosa l'avesse spinto a farlo... La stupidità
che arriva con gli anni? La saggezza che matura con gli anni?
Forse, e più semplicemente, una distrazione; un brutto tiro di
quella sua testa balzana che gli sarebbe costato molto caro...
Prese una pentola e vi depositò uno strato di anguilla,
cui sovrappose le verdure cotte col limone, poi un secondo
strato di anguilla e altre verdure.
L'articolo era uscito il giorno precedente: l'unico
modo di far sentire la propria voce da quando l'avevano
privato della cattedra. A onor del vero, non era stato
giubilato, ma esautorato in modo subdolo, come un dirigente
cui vengano lentamente sottratti compiti finché, schiacciato
dal peso dell'inutilità, finisca per dare le dimissioni...
Versò nella pentola l'acqua di cottura delle verdure, la
coprì, e la mise a bollire adagio.
Certo l'articolo era stato il più duro di quelli scritti da
quando aveva preso a collaborare saltuariamente con giornali
che, di anno in anno, si erano fatti sempre meno numerosi e
più o meno clandestini: assottigliati dalla diminuzione dei
lettori, chiusi per insormontabili difficoltà economiche o
comprati da qualche lacchè del padrone. Ma la sola forza
delle parole non sarebbe stata sufficiente a cacciarlo in un
simile guaio: per rendere accettabile il rischio di beatificare
un altro martire, il famoso fiuto politico di quel dio che il
paese si era accaparrato in chissà quale svendita della
mitologia, doveva essere fuorviato dalla stizza, sopraffatto da
un umanissimo rancore personale.
E il tutto non gli era costato nemmeno troppa fatica:
di lì a poco la sua vita sarebbe cambiata - e certo non in
meglio - per colpa di un piccolo corsivo... Scosse la pentola,
la girò con tocco esperto, ma si guardò dal frugarla col
mestolo sapendo che avrebbe finito per spappolare ogni cosa.
Anche quel corsivo avrebbe disfatto ogni cosa,
eppure si era raccomandato più volte, per evitare che un
banale errore del compositore lo uniformasse al resto dei
caratteri: " ...ci dovrà rispondere della sorte - e solo il nostro
affetto per le famiglie non ci fa propendere per un termine
più triste - dei nostri amici. Ci dovrà rispondere della follia
di aver trascinato il paese sul baratro della guerra civile. Ci
dovrà rispondere delle atrocità cui, da una parte e dall'altra, si
sono lasciati andare individui ubriacati dalle vertigini che
salivano da quel baratro. E, tanto per cominciare, ci deve
spiegare cosa mai se ne farà di una donna così giovane. "
Attacco " ad personam ".
Evidente allusione sessuale.
Sarcasmo.
Oh come se l'era gustato quel bel corsivo in corpo
dodici: ambrosia per il suo palato raffinato...
Alzò il coperchio della pentola, assaggiò il brodo, lo
corresse di sale e di pepe, sorrise soddisfatto di quel sapore
destinato ai mortali e, notando che i rocchi non si erano
ancora separati, decise di prolungare la cottura di qualche
minuto.
Non aveva alcuna giustificazione: al tiranno forse
puoi dire che uccidere la democrazia è il peggiore dei
crimini, perché significa privare della propria vita la totalità
dei propri simili; un crimine più efferato dell'omicidio, che
colpisce una persona, o dell'olocausto, che annienta una
categoria di persone. Questo forse si può dire, e l'accusato
può accontentarsi di foraggiare qualche penna e farti
rispondere che non si è impossessato della vita di nessuno,
ma che ha migliorato quella di tutti. Ma provati a
evidenziarne un difetto fisico, o nel portamento, o nel gusto,
o addirittura spingerti a adombrarne la virilità...
Mise un piatto a scaldare vicino al fuoco, tagliò il
pane in grosse fette e le avvicinò alla pentola per asciugarle
senza arrostirle.
Aveva paura? Difficile dirlo: gli era rimasto così
poco. che non aveva molto da perdere. Ma se, una volta
defalcato dalla contabilità della sua vita, quel poco avesse
finito per sembrargli il tutto...
Ritornò sul balcone. Attraverso le finestre ora
scorgeva solo l'affaccendarsi della donna rallentato
dall'assenza della padrona. Fu tentato di scendere ignorando
la pentola che reclamava le sue cure ma, se anche avesse
avuto fortuna, sarebbe certamente andata come la volta che
incontratala dal pizzicagnolo all'angolo e richiesto di un
parere su quale formaggio gli sembrasse più appetibile, vinto
dal fascino di piccoli difetti che la distanza gli aveva sempre
precluso, aveva finito per assistere impotente all'incespicare
delle proprie parole e all'intromissione di una signora grassa
e petulante.
Che sentimento il suo: la più frugale delle
infatuazioni, neanche un dialogo a creare sottintesi o
malintesi, forse l'unico vero amore...
Si affrettò verso i fornelli per aggiungere aceto forte e
qualche cucchiaio di conserva di pomodoro. I rocchi si erano
separati, ancora pochi bollori e la cottura sarebbe stata
ultimata.
Fu in quel momento che udì bussare alla porta.
Nella desolazione della sua vita sociale quel rumore
suonò come nome e cognome, sempre ammesso che la
repressione possa averli.
Solo tre persone, notò inizialmente deluso. Poi si
convinse che, tenuto conto della sua età e della sua indole
notoriamente pacifica, era un numero che poteva soddisfare
le sue velleità rivoluzionarie. Quanto al grado, i compiti
politici e il vestire borghese avrebbero reso impossibile
quantificarli, ma il capitano era stato uno degli amici di suo
figlio e la sua famiglia era approdata in città dallo stesso
piccolo paese da cui provenivano loro. Erano passati diversi
anni, ma quei baffi curati non potevano cancellarne
l'espressione bonaria, anche se il suo sorriso appariva meno
spensierato di un tempo. Ma certo non erano più i giorni in
cui dava saggi d'agilità scalando alberi che mettevano
vertigini, ora l'agilità doveva impiegarla tutta per
destreggiarsi nei dedali del potere...
Il professore si voltò per controllare la pentola che
barbugliava sul fuoco.
- Anche di Domenica... - disse, tornando a fissare due
occhi cerulei.
- Professore, lei ha fatto di tutto per rovinarci la
domenica - gli rispose il capitano, puntellando il suo tono
affabile con un secondo sorriso, questo decisamente più
riuscito.
- Ma cosa vuole che siano poche righe per chi certo
non ha amore per la letteratura. -
- Guardi, professore, sono davvero amareggiato: non
avrei mai creduto di dover arrivare a questo. Mi ha stupito...
(CONTINUA)
per finire di leggere il racconto e scaricare gratis l'intero libro


lunedì 16 luglio 2007

"L'Ospite" Romanzo di Giorgio Bompiani

Qui puoi sapere di più questo libro. E di seguito puoi leggere il primo capitolo


1. L’arrivo

L’esile fiammella improvvisamente si accese anche se molto debole.

Mario gradualmente riprese la coscienza di sé grazie al dolore che provava in tutto il corpo. La sua mente cominciò a cercare di prendere contatto con la realtà esaminando lentamente ed accuratamente le sensazioni che provenivano dal corpo dolorante.

Si rese anche conto della strana assenza di rumori e di luce.

A questo punto aprì gli occhi e sì, un po’ di luce c’era.

Pensò che doveva essere quasi l’alba e si rese conto di essere all’aperto, disteso su un terreno erboso e deserto e questo spiegava il silenzio.

Con un po’ di angoscia cominciò allora a domandarsi cosa faceva di notte in mezzo alla campagna.

Si gira nel letto stranamente duro ed aprendo gli occhi vede la stanza illuminata da una leggera luminescenza verde.

Si mise a sedere e pian piano il dolore che provava in tutto il corpo si attenuò. In particolare la diminuzione del mal di testa gli andava restituendo la lucidità.

Ora ricordava: stava tornando a casa dopo un viaggio in macchina. Era in autostrada ed era il tramonto di una brutta giornata piovosa e temporalesca, anzi era in corso un violentissimo nubifragio.

-“Non ero particolarmente nervoso o distratto nella guida, le liti con Francesca come quella della mattina mentre partivo, purtroppo sono routine e non mi impressionano più di tanto.
Ma se ho avuto un incidente dov’è l’autostrada? e la macchina? Se fossi stato sbalzato fuori in un incidente passando la notte sotto la pioggia, dovrei essere fradicio. Invece ho i vestiti asciutti, ho solo questo strano dolore ma nessuna ferita anzi ho anche un po’ d’appetito e soprattutto molta sete.”

Dopo qualche minuto Mario fu in grado di alzarsi in piedi e non sapendo che fare, istintivamente cercò in tasca il cellulare per telefonare alla moglie.

Francesca gli rispose subito con un tono di voce che denotava grande agitazione:

–“Mario, ma dove sei? Che è successo? Quante volte in 20 anni ti ho chiesto di non farmi stare in ansia? ma a te importa solo di te stesso. La polizia stradale ha trovato la tua macchina colpita da un fulmine ma tu per fortuna non c’eri. Non potevi farmi sapere qualche cosa? Non ti immagini cosa ho passato?”

– “Aspetta Francesca non aggredirmi, sono in mezzo ai campi da qualche parte e sto bene ma non ricordo niente, devo essere svenuto. Non so dove sono, l’autostrada non si vede e tu mi domandi perché non mi sono ricordato di farti rapporto! Ma io sono preoccupato e spaventato, ma ti rendi conto della mia situazione?
Comunque non stiamo a fare polemiche il telefono è scarico e sta per perdere il segnale. Ti chiamerò quando arriverò da qualche parte.”

–“Mario, mi dispiace, sono stata io a scaricarlo. Ti ho chiamato tanto, ha squillato tutta la notte, lo sai che quando non ho notizie mi agito.
Pietro e Giovanni non andranno a scuola voglio che mi siano vicini, ho avuto tanta paura, ma come è possibile che tu non sappia dove sei? Hai chiesto a qualcuno? Ma andavi forte? Non sarà che ti sei addormentato al volante come quella volta che a momenti ci rimettevamo la pelle?
Richiama appena puoi che ti vengo a prendere. Fammi sapere se .....”

La comunicazione era caduta di colpo e Mario suo malgrado, si sentì quasi sollevato.

Era sposato con Francesca donna molto energica da una ventina d’anni, la sua pigrizia e la poca voglia di affrontare continue discussioni lo avevano gradualmente indotto ad appoggiarsi a lei per tutte le questioni pratiche della vita.

Di Francesca erano infatti tutte le scelte fondamentali come quella di abitare in campagna. Mario come sempre non aveva contrastato il desiderio di Francesca preferendo adattarsi allo spostamento giornaliero in macchina da casa al suo ufficio in centro.

–“Già Francesca”, pensò, “quando fa così non la sopporto, non si sa ancora che è successo e lei già dà la colpa a me tanto per non rimanere indietro.
Mi fa quasi rabbia doverle riconoscere la qualità di sapersi organizzare di fronte agli imprevisti. Ha un senso pratico istintivo ed efficiente e trova sempre le soluzioni.
Per questo forse mi farebbe comodo che fosse qui anche lei, ma pensa che tormento mi darebbe per evidenziare le mie colpe e dirmi cosa devo fare.”

–“E adesso che faccio? a chi domando? non c’è nessuno. Se almeno avessi una maledetta batteria di ricambio, ma no Francesca è contraria.”

–“A che ti serve se hai il caricabatteria in macchina?”

–“Se per una volta avessi fatto di testa mia ora non sarei in un guaio del genere, maledizione!”

Mentre Mario era assorto in questi pensieri la luce dell’alba aveva cominciato ad illuminare il paesaggio. Notò allora e riconobbe una collina con un profilo caratteristico che conosceva bene: la costeggiava ogni giorno sul lato sinistro percorrendo l’autostrada.

Scostando la pesante tenda vede il profilo della collina.

Alla fine della collina c’era il ponte e dopo il fiume, vicino alla riva destra il piccolo centro residenziale dove Francesca lo “aveva obbligato a vivere”, pensò con rabbia.

Ora che sapeva dov’era e si sentiva più tranquillo tornava infatti ad essere risentito contro Francesca.

Mario si costrinse a non preoccuparsi più di tanto per non vedere l’autostrada.

-“Andrò a piedi, ci vorranno un paio d’ore.”

E si incamminò in direzione del fiume con la collina sulla destra.

Durante il cammino vide bestiame al pascolo e contadini al lavoro in lontananza. Troppo lontani per pensare di andare a chiedere informazioni. Fortunatamente non faceva freddo e non c’era traccia del nubifragio della sera precedente.

Tuttavia soffriva molto per la sete e si sentiva sfinito. Mentre si domandava se avesse abbastanza forze da investire in una lunga deviazione per chiedere un po’ d’acqua ai contadini che aveva visto, si imbatté in un fontanile per abbeverare il bestiame.

Finalmente poté dissetarsi a volontà bevendo direttamente dalla cannella da cui sgorgava acqua freschissima. Ora si sentiva bene ed, a parte il naturale appetito, non avvertiva più alcuna sofferenza residua di quanto gli era accaduto. Riprese quindi il cammino di buon passo.

Arrivando al fiume Mario si fermò perplesso. Si era aspettato di vedere l’autostrada che traversava il fiume sul suo splendido ponte ad una sola arcata. Invece alla sua destra proprio alle pendici della collina su cui si era orientato c’èra un ponte molto ardito sì, ma completamente diverso.

Il ponte era molto stretto, ad una sola carreggiata, e poggiava su arcate alte e slanciate costruite con blocchi di pietra e disposte su due ordini sovrapposti. Pur restando sbalordito non gli rimase che raggiungere e percorrere la strada bianca e polverosa che passava sul ponte.

Mentre camminava, istintivamente per distrarsi da cose come la sparizione dell’autostrada e del ponte di cemento che ricordava benissimo, tornò a rimuginare i suoi rancori verso Francesca. Le colpe di Francesca erano un terreno solido e ben conosciuto, lì si muoveva a suo agio e senza incertezze.

Traversato il ponte, senza ancora incontrare ne’ passanti ne’ mezzi di trasporto, vide in lontananza il centro residenziale in cui abitava: “Il colle delle querce”.

Mario, pur non vedendo le querce che avevano dato il nome al piccolo centro, cominciò a seguire a passo spedito la diramazione della strada che sembrava dirigersi là.

La sua biblioteca è di legno elegantemente intagliato ed invece di libri contiene fascicoli legati con laccetti multicolori.

Man mano che si avvicinava notava altri particolari che apparivano strani. Ricordava benissimo la linea elettrica che deturpava il paesaggio, ma non riusciva a vederla. Vicino all’abitato, che appariva più piccolo di quanto ricordasse, c’erano alcune tettoie all’interno di un grande recinto in cui pascolavano numerosi cavalli.

–“Strano che non l’abbia mai visto prima, eppure avevo cercato un maneggio per fare un po’ di sport”, si disse Mario.

Ma arrivando a casa sua la vide di un colore diverso, senza la parabola della TV e le imposte verdi che ricordava di aver lui stesso appena ridipinto. Il muro di cinta non era interrotto dal solito cancello a due larghi battenti ma da una porta di legno relativamente stretta dipinta di verde che ancora odorava di vernice.

Mario non riusciva più a costringersi ad ignorare queste differenze con il suo patrimonio di ricordi e cominciava a provare un vago senso di panico.

Immaginò di essere stato in coma a lungo, ma allora come era finito in un campo vestito esattamente come ricordava di essere prima di quel misterioso incidente? Ed il cellulare ancora carico? E poi Francesca gli aveva confermato che era trascorsa solo una notte.

Come era stato possibile fare tutti quei cambiamenti in una notte?

Nella sua situazione la cosa più ovvia era quella di prendere contatto con gli abitanti di quella casa che avrebbe dovuto essere la sua, ma mentre cercava invano la serratura o il campanello per suonare, udì uno scatto e la porta si socchiuse.

Claudio aveva dormito malissimo, anzi praticamente non aveva dormito. La sera prima improvvisamente aveva provato come un senso di vertigine e da quel momento si sentiva come se qualcuno lo telelogasse in incognito.

Questa pratica era ora proibita a causa dei gravi inconvenienti che aveva provocato. La Delegata alle Comunicazioni era molto severa in merito e da anni Claudio non veniva a conoscenza di abusi. Per tale motivo non pensava che si trattasse di questo, quanto forse di qualche adolescente inesperto.

Poi a tratti gli sembrava di percepire una corta melodia che si ripeteva ossessivamente per dieci o quindici volte e poi faceva una lunga pausa.

Era certo di non sentirla con le orecchie ma in via subliminale, infatti Teresa accanto a lui dormiva tranquillamente, e quindi doveva esserci qualcuno che lo comunicava insistentemente ma in modo estremamente maldestro.

E perché poi aveva tanta sete? Non ricordava di essersi mai alzato di notte per bere e questa notte era già la seconda volta.

Quando, dopo molte ore, si era finalmente assopito, improvvisamente aveva avvertito una specie di esplosione nella mente ed aveva cominciato a provare un tale senso di angoscia che aveva dovuto alzarsi molto prima delle sue normali abitudini.

Andò infatti alla finestra e, tirando di lato la pesante tenda da notte, vide che stava per spuntare l’alba e la collina oltre il fiume cominciava appena a intravedersi.

Volgendo lo sguardo nella stanza si soffermò sulla figura indistinta di Teresa che dormiva respirando profondamente.

Il respiro pesante di Teresa addormentata da sempre gli dava un senso di tenerezza e decise di non svegliarla per parlarle delle sue strane angosce.

Ancora quella incredibile sete, eppure aveva mangiato come al solito, non riusciva a spiegarsela, anche questo cominciava ad innervosirlo.

Non si sentiva di tornare a letto ne’ di andare al lavoro, così si rifugiò nel suo studio deciso almeno a portare avanti la sua ricerca privata per quella benedetta pubblicazione che sembrava essere sempre più lontana.

Più tardi, ad un’ora decente avrebbe telelogato Daniela, la sua segretaria per informarla. Daniela sapeva essere un filtro ottimo e gli avrebbe indirizzato solo le cose veramente urgenti.

A fronte delle sue grandi responsabilità come Dirigente Superiore della maggiore fabbrica di concetti del Paese, aveva almeno il vantaggio di potersi assentare per recuperare rapidamente quando il suo stato psichico non gli consentiva di essere al meglio.

Gradualmente si calmò, la sua sensazione di angoscioso disagio cominciò ad attenuarsi man mano che si immergeva nello studio dei suoi fascicoli.

Come sua abitudine quando lavorava, si concentrò totalmente perdendo la nozione del tempo e tornando bruscamente alla realtà quando Teresa venne a salutarlo prima di andare all’Università.

Claudio alzò lo sguardo dai suoi fascicoli e vide subito che Teresa, per dirla come scherzosamente facevano fra loro, aveva già indossato la maschera universitaria. Teresa col pensiero era già all’Università, era già al lavoro.

Claudio quindi non disse niente alla moglie del suo malessere e delle strane sensazioni che aveva provato, rimandando alla sera il racconto. Pensava anche che, durante la giornata, avrebbe potuto fare qualche riflessione in merito e forse la sera sarebbe stato già tutto risolto.

Andò avanti così nel lavoro per un tempo che non avrebbe saputo valutare, quando improvvisamente percepì una presenza sconosciuta ed al tempo stesso con qualche cosa di stranamente familiare alla porta del giardino che dava sulla strada.

Meravigliandosi che i due cagnolini di Teresa non si fossero messi come al solito in grande agitazione, si affacciò alla finestra e li vide schiacciati a terra con le orecchie e la coda bassi palesemente impauriti.

Claudio, pur non riuscendo a percepire di chi si trattasse, incuriosito azionò la leva di apertura. Vide la porta socchiudersi adagio e poi vide ... se stesso affacciarsi lentamente e sbirciare all’interno.

"Ludovico" romanzo di Giorgio Bompiani

Qui puoi sapere di più su questo libro questo libro E di seguito puoi leggere il primo capitolo.



1. L’infanzia

Da innumerevoli mesi ormai sono immobilizzato nel mio letto a Newcastle colpito da una improvvisa paralisi. Ripudiato dalla famiglia ed in esilio dalla Patria.

Ogni sera mi domando se non ho raggiunto il massimo della sofferenza che un uomo può sopportare senza uscire di senno, poi in qualche maniera mi addormento, smetto di pensare alla mia situazione e la notte passa, io recupero qualche energia e quando il mattino, al risveglio, mi ripresenta il desolante panorama delle prospettive che mi attendono senza alcun cambiamento, spero che potrò reggere almeno ancora per quel giorno.

Capisco ora molto bene cosa voglia dire “vivere alla giornata” senza alcuna speranza ragionevole che le cose migliorino.

Non potendomi muovere sono costretto a pensare e ringrazio Dio di poterlo fare con la lucidità di sempre. Pensare al passato, in un certo senso è vivere di nuovo la propria vita. E la mia è stata certamente una vita molto dura e piena di cocenti delusioni e di dolorose scelte. Ma è stata la mia vita e non mi sento di rinnegare le scelte fatte, credo che se mi fosse dato di riviverla la vivrei di nuovo nello stesso modo, pagandone di nuovo le terribili conseguenze.

Un uomo, se veramente è tale, deve seguire i principi in cui crede anche se sono scomodi, altrimenti non potrebbe mai essere in pace con la sua coscienza.

Come sono stati brevi gli anni spensierati che ormai quasi svaniscono nel ricordo! Mi sembra un altro quel ragazzo così amante delle letture ed allo stesso tempo tanto curioso del mondo.

Come ero felice per la nuova casa! La casa in cui andammo ad abitare quando avevo quattordici anni, dopo la morte della mia sorella maggiore, Clementina.

Mio padre Domenico, avvocato, aveva bisogno di più spazio per il suo studio e per ricevere i clienti, oltre che per la nostra numerosa famiglia, e così ci trasferimmo in un grande appartamento al secondo piano del bel Palazzo Rondanini in fondo a Via del Corso.

Questo palazzo era vicino a via del Babuino, Via dei Condotti e Piazza di Spagna che erano abitate per molti mesi all’anno da ricche famiglie inglesi molte delle quali erano clienti dello studio di mio padre.

Al palazzo ed al cortile interno si accedeva dalla strada attraverso un portale carraio imponente formato da due grandi portoni a doppio battente, di legno scuro scolpiti a cassettoni.

Ciascuno dei portoni era affiancato da due colonne sormontate da un capitello dorico ed era racchiuso in un arco di foglie di acanto modellate a stucco e sormontato da una grande conchiglia pure di stucco.

Le quattro colonne sorreggevano un balcone lungo e stretto protetto da una balaustra a colonnine panciute su cui, attraverso tre porte-finestre, affacciavano lo studio di mio padre e la sua biblioteca.

A piano terra c’erano stalle per i cavalli e rimesse per le carrozze con accesso dal cortile interno ed alcune botteghe con accesso dalla strada e finestra sul cortile.

L’acciottolio degli zoccoli dei cavalli sul selciato era il sottofondo abituale della nostra vita.

Al primo piano, che chiamavamo mezzanino, abitavano cocchieri, e bottegai. Ai piani terzo e quarto abitavano altri bottegai e servitori che lavoravano nel quartiere.

Nel cortile stazionavano le carrozze, ed il via vai degli stallieri indaffarati era sempre uno spettacolo per me. Le botteghe che affacciavano nel cortile allora mi incuriosivano molto ed ora, nel ricordo, sono motivo di grande nostalgia per un tipo di società ed un modo di vivere che mi sono divenuti estranei.

Quasi al centro del cortile c’era una fontana che ricordo bene perché sul bordo era spesso appoggiata una vaschetta appartenente ad uno strano tipo, una specie di alchimista o di mago, che in una bottega all’angolo, cercava di far comparire immagini su una lastra di vetro armeggiando con certe sue cassette di legno.

Quando usava una cassetta, la copriva con un panno nero sotto al quale si nascondeva anche lui per non far scoprire i suoi trucchi, ritenevo io. Una volta terminato, si drappeggiava il panno nero sulle spalle e attorno al collo, come se fosse una sciarpa, con una mossa caratteristica della mano che ancora mi sembra di vedere.

Poi così conciato e con i capelli dritti se ne andava in giro con atteggiamento serio e compassato riflettendo forse sulle sue formule magiche.

Questa vaschetta a me interessava molto, più delle immagini sul vetro che peraltro non vidi mai, perché il liquido in essa contenuto aveva la capacità di rendere lucidissime le mie monetine da un baiocco. Questi baiocchi così lucidi erano l’invidia dei miei amici.

Nella bottega del sarto quasi ogni sera si radunavano, arrivando ed andando via alla spicciolata, un certo numero di giovanotti che parlavano per ore fra loro a bassa voce dopo aver chiuso la porta sulla strada e che io spiavo a lungo dalla finestra sul cortile.

Io non capivo niente di quanto dicevano, ma ero incuriosito dai loro sforzi per nascondersi. Penso ora che saranno stati forse Carbonari.

La bottega del birraio aveva l’entrata sul Corso, e sotto la sua finestra che dava nel cortile, d’estate si accumulavano i tappi della birra che di tanto in tanto la Sora Orsola, moglie del cocchiere che abitava al mezzanino, raccoglieva impedendomi di appropriarmene e questo mi infastidiva molto.

– “Sora Orsola, che ci fate co ’sti tappi?”

– “Ci’atturo er culo alle galline.”

Allora io mi domandavo perché mai lo facesse e poi concludevo che così forse, togliendo i tappi, avrebbe avuto le uova tutte fresche di giornata e non ci pensavo più.

La Sora Orsola si sforzava anche invano di tener pulite le scale ed il cortile, ed era impresa evidentemente impossibile con tanto movimento di cavalli.

Oltre a questo, in un piccolo recinto, allevava un certo numero di galline con un gallo che ogni mattina dava la sveglia a tutti in concorrenza con i galli del vicinato.

A mia madre, che pure da lei comprava le uova e di tanto in tanto un pollo da arrostire, questo non piaceva e spesso se ne lamentava con mio padre, il quale però lo riteneva normale e, con la sua abituale tolleranza, ne sorrideva.

L’arrotino nella sua bottega stava tutto il giorno a cavalcioni di una sua strana macchina di legno muovendo con i piedi due leve che a loro volta mantenevano in rotazione una grossa ruota nera sempre bagnata da una goccia che cadeva da un recipiente sospeso. Tutte le forbici ed i coltelli del quartiere passavano periodicamente dalle sue mani per tornare ad essere affilati.

A lui non sembrava sufficiente il rumore sibilante che si udiva riecheggiare per tutto il palazzo, specie d’estate, e quindi si accompagnava con il canto di stornelli dialettali.

Alcuni erano dei classici più volte ascoltati, ma a volte si esibiva in sue composizioni estemporanee che commentavano eventi di attualità o pettegolezzi di quartiere. Era una specie di giornale locale.

Quando ci installammo nel nuovo appartamento eravamo già una famiglia di tutto rispetto. Mia madre, Serafina, dopo Clementina aveva avuto mia sorella Felice che allora aveva diciassette anni. Poi me che, come ho detto, ne avevo quattordici, e le mie sorelle Angelina e Francesca che ne avevano dodici e sei.

Venivano poi Virginio e Annibale di quattro e tre anni. Ultimo della nidiata era Bernardo di pochi mesi, nato all’inizio dell’estate.

Con noi vivevano anche Camilla e Francesca che costituivano una modesta ma indispensabile servitù.

In quella casa, dove sento ancora le mie radici dovevano nascere negli anni successivi ancora quattro miei fratelli che ho conosciuto e ricordo solo bambini: Carlo, Roberto, Gaetano e Adriano.

Mio padre Domenico, uomo molto serio e distaccato, era un avvocato conosciuto e ben affermato ed era sempre, anche nell’intimità familiare, molto attento a mostrare un atteggiamento consono alla sua professione forense: era sempre vestito come si deve e non si esprimeva mai in dialetto romanesco ma sempre in perfetto italiano, se non in latino.

Raramente scherzava, come se temesse di minare la sua credibilità professionale. Era sempre molto calmo e posato, non l’ho mai inteso alzare la voce, ne’ con gli estranei ne’ tanto meno con mia madre.

Con noi figli parlava raramente, così si usava infatti ai suoi tempi, ma era sempre informatissimo delle nostre vicende e non perdeva occasione per farcelo capire. Questo era il suo modo di dimostrare affetto.

Nell’ambiente giudiziario romano era molto noto e professionalmente apprezzato, specialmente in Corte d’Appello e trascorreva interamente le sua giornate fra i tribunali e lo studio con i clienti.

Suo unico passatempo nei momenti di riposo era la storia della nostra famiglia che è molto antica. Teneva sempre a portata di mano e leggeva spesso il manoscritto redatto sull’argomento dal fratello di suo nonno, Giuseppe, avvocato anche lui.

Mia madre, Serafina, a diciotto anni nel 1799, aveva sposato mio padre già vedovo e senza figli viventi. Era, ed è, una donna molto energica e risoluta, è stata sempre lei il vero capo della famiglia.

Di educazione molto religiosa è sempre estremamente rigida nei comportamenti e nel giudicare le azioni sue e degli altri. Singolarmente incapace di indulgenza è stata una madre molto severa, direi quasi una madre dura.

Sembrava ritenere che il mostrare affetto verso i figli indebolisse la sua posizione nei loro riguardi. Quando ero bambino il mio desiderio di essere rassicurato sull’amore di mia madre è sempre andato deluso, perché in ogni occasione, immancabilmente, qualche cosa che non poteva essere perdonato era stato commesso da uno di noi figli.

Da adulto, poi, la sua posizione di condanna irriducibile, neanche attenuata dalla comprensione delle mie ragioni e del mio dramma, è stata per me causa di grandi sofferenze. Nella sua concezione della vita e della società è fondamentale apparire allineati al pensiero ed alle regole comunemente accettate dalle persone per bene.

Per lei, inoltre, la missione di educare i figli è da considerare una missione senza fine, anche con i figli adulti ed ormai capaci di affrontare da soli la propria vita. E da qui sarebbero nati non pochi conflitti familiari.

La mia prima esplorazione solitaria del mondo esterno, fuori della protezione della casa e della famiglia, avvenne quando da poco abitavamo a Via del Corso. Sfuggendo all’occhiuta sorveglianza di Felice, mia sorella maggiore, mi avventurai sulla strada incuriosito per le molte persone e carrozze che passavano in direzione di Piazza del Popolo.

La grande piazza era molto affollata, e la gente si raggruppava intorno ad un imponente palco di legno con l’atteggiamento gaio e festoso di chi è in attesa di uno spettacolo. Bambini e ragazzetti si rincorrevano con gran divertimento fra i pali che sorreggevano il palco.

Le carrozze che avevo visto passare, sostavano un po’ appartate, ma schierate di fianco per permettere la vista del palco dai finestrini laterali.

Pensando si trattasse di uno spettacolo di guitti o saltimbanchi, mi feci largo e mi avvicinai. Notai allora che sul palco troneggiava una macchina di legno mai vista e dall’uso per me misterioso.

Mentre cercavo di capire di cosa tutti erano in attesa, dalla Porta Flaminia entrò una processione di incappucciati (quelli che chiamavamo Compagnia della bona morte) al suo seguito c’era un carro aperto scortato dai gendarmi sul quale un frate stava in piedi fra due giovani in maniche di camicia e con le mani legate dietro alla schiena.

La folla si animò cominciando ad emettere grida e fischi mentre si apriva per lasciar passare il corteo.

Il carro si fermò sotto al grande palco e i due giovani salirono la ripida scaletta seguiti dal frate. Quando furono in cima i due si rivolsero verso la folla che rumoreggiava divertita gridando qualcosa al loro indirizzo mentre un uomo incappucciato, comparso improvvisamente con delle grandi forbici, tagliava il colletto delle loro camicie.

A questo punto cominciai a comprendere che la folla gridava qualcosa di simile a “Morte ai Carbonari, viva il Papa!” e mi sentii gelare ricordando quei racconti più volte ascoltati senza troppa attenzione.

Purtroppo non fuggii ma rimasi impietrito ed assistetti in prima fila alla conclusione dell’evento crudelmente sanguinario e che mi impressionò orribilmente al punto che ancora oggi ne ricordo i minimi dettagli.

Io inoltre non capivo perché tagliare la testa ai carbonari, dato che ogni giorno compravamo la loro merce, ma accantonai il problema che apparentemente nessuno si poneva.

Mi impressionò anche molto il calmo coraggio dei due disgraziati patrioti. Non sapevo ancora che, per la loro stessa causa, il futuro mi riservava sofferenze forse anche maggiori.

Quando riuscii a scuotermi ed a reagire, corsi a casa cercando di passare inosservato ed andai a rifugiarmi nel mio abituale nascondiglio fra il letto ed il muro. Per la prima volta questo mio rifugio segreto mi apparve inadeguato ma tuttavia non trovai il coraggio di confidarmi con nessuno.

In quel periodo frequentavo spesso la nostra parrocchia di Santa Maria del Popolo e lì cominciai a conoscere i Monaci Benedettini il rapporto con i quali sarebbe stato tanto centrale per me durante tutta la vita.

Nelle belle giornate, uscendo dalla Parrocchia a volte mi arrampicavo sulle pendici del vicino Pincio, dove erano in costruzione le tre rampe carrozzabili che da Piazza del Popolo portano alla sua sommità sulla terrazza panoramica, anch’essa in costruzione, per completare la passeggiata da Trinità dei Monti.

La strada, ancora appena tracciata, passava sul fianco della collina avanti a Villa Medici. Era un gran cantiere, a quel tempo, ma già si poteva capire la bellezza del progetto a cui avevano messo mano i più grandi architetti.

Quando da Frosinone veniva a stare da noi per un certo periodo mio cugino Francesco, soprattutto d’estate, i confini delle mie avventure si allargavano notevolmente.

Mio padre, nel timore che combinassimo qualche guaio, col pretesto di farci imparare un po’ di geometria, ci mandava a lezione da un certo Suffrani che aveva uno studio da scultore alla Passeggiata di Ripetta, in un posto bellissimo sul fiume non lontano dallo studio di Antonio Canova.

Se studiammo la geometria, non lo ricordo, ricordo solo che comprammo la carta da disegno ed un compasso e che questo signore non combinava mai niente. Passava quasi tutto il suo tempo a fumare in strada intagliando pipe e bocchini di legno con un suo inseparabile coltellino.

Quando voleva ricevere qualche modella di costumi un po’ disinvolti, ed a noi la cosa non sfuggiva di certo, o dedicarsi ai suoi affari, ci lasciava liberi, in cambio della nostra promessa di essere buoni e comportarci bene, ed allora il mondo ci sembrava nostro.

Scesi in strada correvamo a vedere i pescatori sulla riva del Tevere, c’era Borghese il Matto (una celebrità nel genere), Nini Donati e spesso il Gobbo, così lo chiamavano, pittore, amico di Don Ippolito Ruspoli pittore anche lui, che in bombetta, panciotto e maniche di camicia, pescava con la canna.

La Passeggiata di Ripetta, a monte del porto fluviale, era un posto incantato, costeggiava la riva del Tevere fra le due alture in corrispondenza del Mattatoio e dell’Ospedale di S. Giacomo.

Il fiume in quel punto era meraviglioso ed era anche il teatro delle nostre avventure quando d’estate lo traversavamo a nuoto ed andavamo in cerca sull’altra riva di qualche osteria in cui mangiare un boccone.

E proprio in queste osterie dei Prati, fuori della portata delle orecchie dei familiari, parlavamo liberamente delle nostre aspirazioni e progetti per il futuro.

Francesco si professava liberale e certi giorni anche rivoluzionario e comunque si dichiarava avversario irriducibile del Potere Temporale del Papa adducendo motivazioni che in fondo, mio malgrado mi colpivano e in parte già condividevo. Le vicende future della mia vita che mi avrebbero in seguito portato a condividerle pienamente, avrebbero trovato infatti terreno fertile nel mio animo.

– “Ludovico, per favore segui il mio ragionamento.
Se la Chiesa deve governare uno stato, non può farlo che attraverso i suoi uomini e, per la natura stessa dell’uomo, avverrà che sarà solo Stato e non più Chiesa, e per giunta sarà uno stato di cattiva qualità.”

– “Non lo so, Francesco, perché dici che non sarà più Chiesa? e perché poi deve essere di cattiva qualità? Il fatto che chi ci governa attualmente non riesca a risolvere vecchi e nuovi problemi non vuol dire che questo debba essere necessariamente generalizzato.”

– “Ma certo che è così. Non vedi che di fatto la consuetudine ha portato che qualsiasi carica pubblica è appannaggio del clero?
I nostri governanti non sono funzionari eletti dal popolo e neanche nominati dal sovrano, ma sono partecipi della sovranità essendo membri della Chiesa e se questa coincide con lo stato essi finiscono col comportarsi non come amministratori della cosa pubblica, ma come se ne fossero i padroni.
E siccome essi partecipano della sovranità, nessuno è nella posizione di giudicare il loro operato.
E come se non bastasse la stampa non può occuparsi delle faccende pubbliche.”

– “In fondo forse non hai proprio torto, ma ...”

– “Aspetta, fammi finire.
Ormai si è imposto il concetto che solo agli ecclesiastici spetta amministrare un governo di istituzione divina per cui essi soli promulgano le leggi, giudicano nei tribunali, dirigono l’istruzione e reggono la polizia.”

– “Questo non è vero, conosciamo noi stessi tanti funzionari che sono laici.”

– “Si, ma sempre di rango inferiore, hai mai sentito di un laico che fosse ministro, capo di una provincia, ambasciatore, capo del dipartimento del catasto, del Consiglio delle finanze, Consigliere dei supremi tribunali della Rota, della Consulta, della Segnatura, o anche solo presidente o vicepresidente di tribunale, civili e commerciale? Mi puoi spiegare cosa c’entra l’amministrazione del catasto con l’investitura divina?”

– “Si è vero, ma ci sono sempre le professioni liberali aperte a tutti.”

– “Con ben poche prospettive, noi giovani intellettuali dovremo disputarci solo poche posizioni di rilievo, se consideri la stasi del commercio, dell’industria e quanto abbiamo appena detto della pubblica amministrazione.
Certo nel collegio dei cardinali ci sono uomini saggi e pii, ma non saranno sicuramente loro nei posti preminenti. Certamente saranno gli avventurieri a prevalere nell’aprirsi la strada verso la porpora e quindi il potere.
E poi c’è l’altra piaga, il cumulo delle cariche. Guarda lo scandalo del Delegato Apostolico di Civitavecchia, è Presidente del consiglio di provincia, della commissione sanitaria provinciale, della commissione filiale di sanità marittima e polizia dei porti per tutto il litorale mediterraneo, delle commissioni del censo e dei miglioramenti agrari, della Giunta di statistica e della Camera di commercio, sempre da lui dipendono gli uffici pubblici, la milizia, l’amministrazione della casa di condanna, quella dei lavori del porto e dell’arsenale.
Credi che abbia cumulato tante cariche per le sue doti pastorali? o perché è un sant’uomo? o perché nessun altro sarebbe capace di portare avanti così bene quei compiti? O non piuttosto per le qualità opposte?”

Io a fronte di tante argomentazioni rimanevo spesso senza risposte e, tanto per amore di dialettica e per tenere il punto, non mi rimaneva che mettere in dubbio le sue fonti di informazione, ma lui non dubitava mai e proseguiva ancora insistendo:

– “Da tutto questo consegue che necessariamente in uno stato teocratico i cittadini sono di fatto impossibilitati ad avere opinioni politiche diverse dalla posizione ufficiale dell’Autorità, e quindi la libertà è impossibile.”

– “Ma, Francesco, non è vero, cerca di essere obiettivo, con i dovuti modi il dissenso si può esprimere. Le situazioni storte possono essere anche corrette senza distruggere lo stato costituito.”

Ma Francesco, ormai lanciato nella sua arringa, non mi ascoltava più.

– “Per di più ti faccio riflettere sul fatto che uno Stato della Chiesa situato al centro della penisola e che giocando qualche volta sul fatto che è Chiesa e qualche volta sul fatto che è Stato, cambiando e combinando le sua alleanze e tessendo abilmente le sue trame riesce ad impedire l’unione in uno solo di tutti gli Stati Italiani.
E l’Italia? non capisci che non saremo mai una nazione come la Francia o la Spagna se non riusciremo a costruire uno stato unico?
Che finché saremo divisi saremo anche colonizzati e dominati dagli stranieri?
Dovremmo creare in qualche modo un unico stato italiano. Dovremmo anche individuare un sovrano adatto e così illuminato da promulgare uno statuto liberale come primo atto ufficiale.”

–“Si bravo vallo a scegliere un sovrano come dici tu, dove lo trovi? e poi lo statuto che ti riempie tanto la bocca come dovrebbe essere secondo te? Voglio dire quali sarebbero le liberalità da salvaguardare?”

–“Questo sovrano non lo conosco ancora, dovrà essere scelto da tutti e scelto bene. Quanto allo statuto non si può dire a voce, bisogna studiarlo bene a tavolino, ma le liberalità come le chiami ironicamente tu, sono quelle che dico sempre, e poi anche molte altre a cui si dovrà pensare.
Ma tu non chiedere tutto a me, non vuoi contribuire anche tu?”

Io, pur condividendo alcune delle idee di Francesco, mi sentivo, e certamente ero, più contemplativo. Più che alle battaglie per cambiare il mondo ero interessato alle letture e sentivo forte il richiamo della religione.

Avevo grande ammirazione per i Monaci Benedettini di cui invidiavo la cultura. Ero impaziente di raggiungere l’età per entrare nel loro collegio e forse poi di prendere i Voti e dedicare la mia vita al servizio di Dio, come già tanti altri avevano fatto nella mia famiglia.

Capivo bene che una scelta del genere, che era quanto a quei tempi veniva imposto per motivi patrimoniali ai figli minori, mi avrebbe privato dei privilegi di cui godevo come primo figlio maschio in una famiglia benestante, ma io in fondo tendevo ad accedere a privilegi di natura spirituale che consideravo anche maggiori.

La mia poca simpatia per il Potere Temporale del Papa non era un ostacolo al mio slancio mistico, in fondo il mio desiderio di essere Monaco era per me un progetto spirituale e non politico.

In altre parole, applicavo dentro di me la separazione fra i sentimenti religiosi e la posizione politica che altro non era se non quanto poi avrei auspicato pubblicamente con gravi conseguenze per la mia vita: la separazione fra Chiesa e Stato.

Un’altra avventura che vivevamo volentieri era quella di fare lunghissime passeggiate nella campagna romana. Ci ponevamo un obiettivo più o meno lontano, compravamo una scatola di sigari e via, in cammino, fumando e chiacchierando talvolta di cose futili e qualche altra dei nostri progetti per il futuro.

La più bucolica delle nostre mete era la fonte chiamata dell’Acqua Acetosa posta fra i Monti Parioli coperti di vigne ed il Tevere, bellissimo prima della sua entrata in città, ma già colorato del suo tipico giallastro che gli viene dalla confluenza con l’Aniene, poco più a monte. Questa confluenza era da lì facilmente raggiungibile ed era interessante vedere come il fiume cambiasse colore.

Uscivamo dalla Porta Flaminia a Piazza del Popolo e percorrevamo la Via Flaminia sempre dritta fino a Ponte Milvio. Poi non rimaneva che costeggiare la riva sinistra del fiume in senso inverso alla corrente, senza traversare il ponte, passando per i sentieri fra le vigne ed i canneti.

Qualche volta invece traversavamo il ponte e continuavamo a seguire la Via Flaminia, che curvava verso destra e saliva per uscire dalla valle del fiume, arrivando fino ad un’osteria di campagna dove si fermavano a mangiare i cacciatori

Altra meta più mondana, ma più rara perché richiedeva un’intera giornata era la cittadina di Frascati. Uscivamo dalla Porta S. Sebastiano percorrendo la Via Appia e poi la via Tuscolana che gradatamente saliva sulle colline ed in questo percorso eravamo accompagnati dalla vista degli antichi acquedotti.

Francesco ed io avevamo molto affetto reciproco e rispetto l’uno per l’altro, ma le nostre differenti concezioni della Società qualche volta ci trascinavano in dispute molto accese e ricordo che una volta arrivammo fino a Frascati camminando in silenzio ciascuno su un lato della strada e fumando in continuazione e con rabbia. Tornammo a rivolgerci la parola solo dopo aver finito i sigari e la strada.

Qualche volta andavamo anche al così detto Teatro Corea nel palazzo omonimo. Lì si tenevano i giochi di cavallo e di acrobazia delle compagnie più rinomate, e per i ragazzi della nostra età erano una grande attrazione.

Scoprimmo anche il teatro di prosa, ma lo frequentai per poco tempo. Ci fu infatti un attore tanto cane, da disgustarmi per sempre.

Si rappresentava una commedia in cui il protagonista comparve in scena vestito da cacciatore con indumenti perfettamente nuovi, nuovo il carniere e perfettamente nuove, anzi lucidissime, forse di coppale, le scarpe, dicendo testualmente con una orribile voce gutturale: “Nulla in questi paraggi. Questa mane indarno tentai scovare una lepre”. Per me fu troppo e non sono mai più andato al teatro