Qui puoi sapere di più su questo libro questo libro E di seguito puoi leggere il primo capitolo.
1. L’infanzia
Da innumerevoli mesi ormai sono immobilizzato nel mio letto a Newcastle colpito da una improvvisa paralisi. Ripudiato dalla famiglia ed in esilio dalla Patria.
Ogni sera mi domando se non ho raggiunto il massimo della sofferenza che un uomo può sopportare senza uscire di senno, poi in qualche maniera mi addormento, smetto di pensare alla mia situazione e la notte passa, io recupero qualche energia e quando il mattino, al risveglio, mi ripresenta il desolante panorama delle prospettive che mi attendono senza alcun cambiamento, spero che potrò reggere almeno ancora per quel giorno.
Capisco ora molto bene cosa voglia dire “vivere alla giornata” senza alcuna speranza ragionevole che le cose migliorino.
Non potendomi muovere sono costretto a pensare e ringrazio Dio di poterlo fare con la lucidità di sempre. Pensare al passato, in un certo senso è vivere di nuovo la propria vita. E la mia è stata certamente una vita molto dura e piena di cocenti delusioni e di dolorose scelte. Ma è stata la mia vita e non mi sento di rinnegare le scelte fatte, credo che se mi fosse dato di riviverla la vivrei di nuovo nello stesso modo, pagandone di nuovo le terribili conseguenze.
Un uomo, se veramente è tale, deve seguire i principi in cui crede anche se sono scomodi, altrimenti non potrebbe mai essere in pace con la sua coscienza.
Come sono stati brevi gli anni spensierati che ormai quasi svaniscono nel ricordo! Mi sembra un altro quel ragazzo così amante delle letture ed allo stesso tempo tanto curioso del mondo.
Come ero felice per la nuova casa! La casa in cui andammo ad abitare quando avevo quattordici anni, dopo la morte della mia sorella maggiore, Clementina.
Mio padre Domenico, avvocato, aveva bisogno di più spazio per il suo studio e per ricevere i clienti, oltre che per la nostra numerosa famiglia, e così ci trasferimmo in un grande appartamento al secondo piano del bel Palazzo Rondanini in fondo a Via del Corso.
Questo palazzo era vicino a via del Babuino, Via dei Condotti e Piazza di Spagna che erano abitate per molti mesi all’anno da ricche famiglie inglesi molte delle quali erano clienti dello studio di mio padre.
Al palazzo ed al cortile interno si accedeva dalla strada attraverso un portale carraio imponente formato da due grandi portoni a doppio battente, di legno scuro scolpiti a cassettoni.
Ciascuno dei portoni era affiancato da due colonne sormontate da un capitello dorico ed era racchiuso in un arco di foglie di acanto modellate a stucco e sormontato da una grande conchiglia pure di stucco.
Le quattro colonne sorreggevano un balcone lungo e stretto protetto da una balaustra a colonnine panciute su cui, attraverso tre porte-finestre, affacciavano lo studio di mio padre e la sua biblioteca.
A piano terra c’erano stalle per i cavalli e rimesse per le carrozze con accesso dal cortile interno ed alcune botteghe con accesso dalla strada e finestra sul cortile.
L’acciottolio degli zoccoli dei cavalli sul selciato era il sottofondo abituale della nostra vita.
Al primo piano, che chiamavamo mezzanino, abitavano cocchieri, e bottegai. Ai piani terzo e quarto abitavano altri bottegai e servitori che lavoravano nel quartiere.
Nel cortile stazionavano le carrozze, ed il via vai degli stallieri indaffarati era sempre uno spettacolo per me. Le botteghe che affacciavano nel cortile allora mi incuriosivano molto ed ora, nel ricordo, sono motivo di grande nostalgia per un tipo di società ed un modo di vivere che mi sono divenuti estranei.
Quasi al centro del cortile c’era una fontana che ricordo bene perché sul bordo era spesso appoggiata una vaschetta appartenente ad uno strano tipo, una specie di alchimista o di mago, che in una bottega all’angolo, cercava di far comparire immagini su una lastra di vetro armeggiando con certe sue cassette di legno.
Quando usava una cassetta, la copriva con un panno nero sotto al quale si nascondeva anche lui per non far scoprire i suoi trucchi, ritenevo io. Una volta terminato, si drappeggiava il panno nero sulle spalle e attorno al collo, come se fosse una sciarpa, con una mossa caratteristica della mano che ancora mi sembra di vedere.
Poi così conciato e con i capelli dritti se ne andava in giro con atteggiamento serio e compassato riflettendo forse sulle sue formule magiche.
Questa vaschetta a me interessava molto, più delle immagini sul vetro che peraltro non vidi mai, perché il liquido in essa contenuto aveva la capacità di rendere lucidissime le mie monetine da un baiocco. Questi baiocchi così lucidi erano l’invidia dei miei amici.
Nella bottega del sarto quasi ogni sera si radunavano, arrivando ed andando via alla spicciolata, un certo numero di giovanotti che parlavano per ore fra loro a bassa voce dopo aver chiuso la porta sulla strada e che io spiavo a lungo dalla finestra sul cortile.
Io non capivo niente di quanto dicevano, ma ero incuriosito dai loro sforzi per nascondersi. Penso ora che saranno stati forse Carbonari.
La bottega del birraio aveva l’entrata sul Corso, e sotto la sua finestra che dava nel cortile, d’estate si accumulavano i tappi della birra che di tanto in tanto la Sora Orsola, moglie del cocchiere che abitava al mezzanino, raccoglieva impedendomi di appropriarmene e questo mi infastidiva molto.
– “Sora Orsola, che ci fate co ’sti tappi?”
– “Ci’atturo er culo alle galline.”
Allora io mi domandavo perché mai lo facesse e poi concludevo che così forse, togliendo i tappi, avrebbe avuto le uova tutte fresche di giornata e non ci pensavo più.
La Sora Orsola si sforzava anche invano di tener pulite le scale ed il cortile, ed era impresa evidentemente impossibile con tanto movimento di cavalli.
Oltre a questo, in un piccolo recinto, allevava un certo numero di galline con un gallo che ogni mattina dava la sveglia a tutti in concorrenza con i galli del vicinato.
A mia madre, che pure da lei comprava le uova e di tanto in tanto un pollo da arrostire, questo non piaceva e spesso se ne lamentava con mio padre, il quale però lo riteneva normale e, con la sua abituale tolleranza, ne sorrideva.
L’arrotino nella sua bottega stava tutto il giorno a cavalcioni di una sua strana macchina di legno muovendo con i piedi due leve che a loro volta mantenevano in rotazione una grossa ruota nera sempre bagnata da una goccia che cadeva da un recipiente sospeso. Tutte le forbici ed i coltelli del quartiere passavano periodicamente dalle sue mani per tornare ad essere affilati.
A lui non sembrava sufficiente il rumore sibilante che si udiva riecheggiare per tutto il palazzo, specie d’estate, e quindi si accompagnava con il canto di stornelli dialettali.
Alcuni erano dei classici più volte ascoltati, ma a volte si esibiva in sue composizioni estemporanee che commentavano eventi di attualità o pettegolezzi di quartiere. Era una specie di giornale locale.
Quando ci installammo nel nuovo appartamento eravamo già una famiglia di tutto rispetto. Mia madre, Serafina, dopo Clementina aveva avuto mia sorella Felice che allora aveva diciassette anni. Poi me che, come ho detto, ne avevo quattordici, e le mie sorelle Angelina e Francesca che ne avevano dodici e sei.
Venivano poi Virginio e Annibale di quattro e tre anni. Ultimo della nidiata era Bernardo di pochi mesi, nato all’inizio dell’estate.
Con noi vivevano anche Camilla e Francesca che costituivano una modesta ma indispensabile servitù.
In quella casa, dove sento ancora le mie radici dovevano nascere negli anni successivi ancora quattro miei fratelli che ho conosciuto e ricordo solo bambini: Carlo, Roberto, Gaetano e Adriano.
Mio padre Domenico, uomo molto serio e distaccato, era un avvocato conosciuto e ben affermato ed era sempre, anche nell’intimità familiare, molto attento a mostrare un atteggiamento consono alla sua professione forense: era sempre vestito come si deve e non si esprimeva mai in dialetto romanesco ma sempre in perfetto italiano, se non in latino.
Raramente scherzava, come se temesse di minare la sua credibilità professionale. Era sempre molto calmo e posato, non l’ho mai inteso alzare la voce, ne’ con gli estranei ne’ tanto meno con mia madre.
Con noi figli parlava raramente, così si usava infatti ai suoi tempi, ma era sempre informatissimo delle nostre vicende e non perdeva occasione per farcelo capire. Questo era il suo modo di dimostrare affetto.
Nell’ambiente giudiziario romano era molto noto e professionalmente apprezzato, specialmente in Corte d’Appello e trascorreva interamente le sua giornate fra i tribunali e lo studio con i clienti.
Suo unico passatempo nei momenti di riposo era la storia della nostra famiglia che è molto antica. Teneva sempre a portata di mano e leggeva spesso il manoscritto redatto sull’argomento dal fratello di suo nonno, Giuseppe, avvocato anche lui.
Mia madre, Serafina, a diciotto anni nel 1799, aveva sposato mio padre già vedovo e senza figli viventi. Era, ed è, una donna molto energica e risoluta, è stata sempre lei il vero capo della famiglia.
Di educazione molto religiosa è sempre estremamente rigida nei comportamenti e nel giudicare le azioni sue e degli altri. Singolarmente incapace di indulgenza è stata una madre molto severa, direi quasi una madre dura.
Sembrava ritenere che il mostrare affetto verso i figli indebolisse la sua posizione nei loro riguardi. Quando ero bambino il mio desiderio di essere rassicurato sull’amore di mia madre è sempre andato deluso, perché in ogni occasione, immancabilmente, qualche cosa che non poteva essere perdonato era stato commesso da uno di noi figli.
Da adulto, poi, la sua posizione di condanna irriducibile, neanche attenuata dalla comprensione delle mie ragioni e del mio dramma, è stata per me causa di grandi sofferenze. Nella sua concezione della vita e della società è fondamentale apparire allineati al pensiero ed alle regole comunemente accettate dalle persone per bene.
Per lei, inoltre, la missione di educare i figli è da considerare una missione senza fine, anche con i figli adulti ed ormai capaci di affrontare da soli la propria vita. E da qui sarebbero nati non pochi conflitti familiari.
La mia prima esplorazione solitaria del mondo esterno, fuori della protezione della casa e della famiglia, avvenne quando da poco abitavamo a Via del Corso. Sfuggendo all’occhiuta sorveglianza di Felice, mia sorella maggiore, mi avventurai sulla strada incuriosito per le molte persone e carrozze che passavano in direzione di Piazza del Popolo.
La grande piazza era molto affollata, e la gente si raggruppava intorno ad un imponente palco di legno con l’atteggiamento gaio e festoso di chi è in attesa di uno spettacolo. Bambini e ragazzetti si rincorrevano con gran divertimento fra i pali che sorreggevano il palco.
Le carrozze che avevo visto passare, sostavano un po’ appartate, ma schierate di fianco per permettere la vista del palco dai finestrini laterali.
Pensando si trattasse di uno spettacolo di guitti o saltimbanchi, mi feci largo e mi avvicinai. Notai allora che sul palco troneggiava una macchina di legno mai vista e dall’uso per me misterioso.
Mentre cercavo di capire di cosa tutti erano in attesa, dalla Porta Flaminia entrò una processione di incappucciati (quelli che chiamavamo Compagnia della bona morte) al suo seguito c’era un carro aperto scortato dai gendarmi sul quale un frate stava in piedi fra due giovani in maniche di camicia e con le mani legate dietro alla schiena.
La folla si animò cominciando ad emettere grida e fischi mentre si apriva per lasciar passare il corteo.
Il carro si fermò sotto al grande palco e i due giovani salirono la ripida scaletta seguiti dal frate. Quando furono in cima i due si rivolsero verso la folla che rumoreggiava divertita gridando qualcosa al loro indirizzo mentre un uomo incappucciato, comparso improvvisamente con delle grandi forbici, tagliava il colletto delle loro camicie.
A questo punto cominciai a comprendere che la folla gridava qualcosa di simile a “Morte ai Carbonari, viva il Papa!” e mi sentii gelare ricordando quei racconti più volte ascoltati senza troppa attenzione.
Purtroppo non fuggii ma rimasi impietrito ed assistetti in prima fila alla conclusione dell’evento crudelmente sanguinario e che mi impressionò orribilmente al punto che ancora oggi ne ricordo i minimi dettagli.
Io inoltre non capivo perché tagliare la testa ai carbonari, dato che ogni giorno compravamo la loro merce, ma accantonai il problema che apparentemente nessuno si poneva.
Mi impressionò anche molto il calmo coraggio dei due disgraziati patrioti. Non sapevo ancora che, per la loro stessa causa, il futuro mi riservava sofferenze forse anche maggiori.
Quando riuscii a scuotermi ed a reagire, corsi a casa cercando di passare inosservato ed andai a rifugiarmi nel mio abituale nascondiglio fra il letto ed il muro. Per la prima volta questo mio rifugio segreto mi apparve inadeguato ma tuttavia non trovai il coraggio di confidarmi con nessuno.
In quel periodo frequentavo spesso la nostra parrocchia di Santa Maria del Popolo e lì cominciai a conoscere i Monaci Benedettini il rapporto con i quali sarebbe stato tanto centrale per me durante tutta la vita.
Nelle belle giornate, uscendo dalla Parrocchia a volte mi arrampicavo sulle pendici del vicino Pincio, dove erano in costruzione le tre rampe carrozzabili che da Piazza del Popolo portano alla sua sommità sulla terrazza panoramica, anch’essa in costruzione, per completare la passeggiata da Trinità dei Monti.
La strada, ancora appena tracciata, passava sul fianco della collina avanti a Villa Medici. Era un gran cantiere, a quel tempo, ma già si poteva capire la bellezza del progetto a cui avevano messo mano i più grandi architetti.
Quando da Frosinone veniva a stare da noi per un certo periodo mio cugino Francesco, soprattutto d’estate, i confini delle mie avventure si allargavano notevolmente.
Mio padre, nel timore che combinassimo qualche guaio, col pretesto di farci imparare un po’ di geometria, ci mandava a lezione da un certo Suffrani che aveva uno studio da scultore alla Passeggiata di Ripetta, in un posto bellissimo sul fiume non lontano dallo studio di Antonio Canova.
Se studiammo la geometria, non lo ricordo, ricordo solo che comprammo la carta da disegno ed un compasso e che questo signore non combinava mai niente. Passava quasi tutto il suo tempo a fumare in strada intagliando pipe e bocchini di legno con un suo inseparabile coltellino.
Quando voleva ricevere qualche modella di costumi un po’ disinvolti, ed a noi la cosa non sfuggiva di certo, o dedicarsi ai suoi affari, ci lasciava liberi, in cambio della nostra promessa di essere buoni e comportarci bene, ed allora il mondo ci sembrava nostro.
Scesi in strada correvamo a vedere i pescatori sulla riva del Tevere, c’era Borghese il Matto (una celebrità nel genere), Nini Donati e spesso il Gobbo, così lo chiamavano, pittore, amico di Don Ippolito Ruspoli pittore anche lui, che in bombetta, panciotto e maniche di camicia, pescava con la canna.
La Passeggiata di Ripetta, a monte del porto fluviale, era un posto incantato, costeggiava la riva del Tevere fra le due alture in corrispondenza del Mattatoio e dell’Ospedale di S. Giacomo.
Il fiume in quel punto era meraviglioso ed era anche il teatro delle nostre avventure quando d’estate lo traversavamo a nuoto ed andavamo in cerca sull’altra riva di qualche osteria in cui mangiare un boccone.
E proprio in queste osterie dei Prati, fuori della portata delle orecchie dei familiari, parlavamo liberamente delle nostre aspirazioni e progetti per il futuro.
Francesco si professava liberale e certi giorni anche rivoluzionario e comunque si dichiarava avversario irriducibile del Potere Temporale del Papa adducendo motivazioni che in fondo, mio malgrado mi colpivano e in parte già condividevo. Le vicende future della mia vita che mi avrebbero in seguito portato a condividerle pienamente, avrebbero trovato infatti terreno fertile nel mio animo.
– “Ludovico, per favore segui il mio ragionamento.
Se la Chiesa deve governare uno stato, non può farlo che attraverso i suoi uomini e, per la natura stessa dell’uomo, avverrà che sarà solo Stato e non più Chiesa, e per giunta sarà uno stato di cattiva qualità.”
– “Non lo so, Francesco, perché dici che non sarà più Chiesa? e perché poi deve essere di cattiva qualità? Il fatto che chi ci governa attualmente non riesca a risolvere vecchi e nuovi problemi non vuol dire che questo debba essere necessariamente generalizzato.”
– “Ma certo che è così. Non vedi che di fatto la consuetudine ha portato che qualsiasi carica pubblica è appannaggio del clero?
I nostri governanti non sono funzionari eletti dal popolo e neanche nominati dal sovrano, ma sono partecipi della sovranità essendo membri della Chiesa e se questa coincide con lo stato essi finiscono col comportarsi non come amministratori della cosa pubblica, ma come se ne fossero i padroni.
E siccome essi partecipano della sovranità, nessuno è nella posizione di giudicare il loro operato.
E come se non bastasse la stampa non può occuparsi delle faccende pubbliche.”
– “In fondo forse non hai proprio torto, ma ...”
– “Aspetta, fammi finire.
Ormai si è imposto il concetto che solo agli ecclesiastici spetta amministrare un governo di istituzione divina per cui essi soli promulgano le leggi, giudicano nei tribunali, dirigono l’istruzione e reggono la polizia.”
– “Questo non è vero, conosciamo noi stessi tanti funzionari che sono laici.”
– “Si, ma sempre di rango inferiore, hai mai sentito di un laico che fosse ministro, capo di una provincia, ambasciatore, capo del dipartimento del catasto, del Consiglio delle finanze, Consigliere dei supremi tribunali della Rota, della Consulta, della Segnatura, o anche solo presidente o vicepresidente di tribunale, civili e commerciale? Mi puoi spiegare cosa c’entra l’amministrazione del catasto con l’investitura divina?”
– “Si è vero, ma ci sono sempre le professioni liberali aperte a tutti.”
– “Con ben poche prospettive, noi giovani intellettuali dovremo disputarci solo poche posizioni di rilievo, se consideri la stasi del commercio, dell’industria e quanto abbiamo appena detto della pubblica amministrazione.
Certo nel collegio dei cardinali ci sono uomini saggi e pii, ma non saranno sicuramente loro nei posti preminenti. Certamente saranno gli avventurieri a prevalere nell’aprirsi la strada verso la porpora e quindi il potere.
E poi c’è l’altra piaga, il cumulo delle cariche. Guarda lo scandalo del Delegato Apostolico di Civitavecchia, è Presidente del consiglio di provincia, della commissione sanitaria provinciale, della commissione filiale di sanità marittima e polizia dei porti per tutto il litorale mediterraneo, delle commissioni del censo e dei miglioramenti agrari, della Giunta di statistica e della Camera di commercio, sempre da lui dipendono gli uffici pubblici, la milizia, l’amministrazione della casa di condanna, quella dei lavori del porto e dell’arsenale.
Credi che abbia cumulato tante cariche per le sue doti pastorali? o perché è un sant’uomo? o perché nessun altro sarebbe capace di portare avanti così bene quei compiti? O non piuttosto per le qualità opposte?”
Io a fronte di tante argomentazioni rimanevo spesso senza risposte e, tanto per amore di dialettica e per tenere il punto, non mi rimaneva che mettere in dubbio le sue fonti di informazione, ma lui non dubitava mai e proseguiva ancora insistendo:
– “Da tutto questo consegue che necessariamente in uno stato teocratico i cittadini sono di fatto impossibilitati ad avere opinioni politiche diverse dalla posizione ufficiale dell’Autorità, e quindi la libertà è impossibile.”
– “Ma, Francesco, non è vero, cerca di essere obiettivo, con i dovuti modi il dissenso si può esprimere. Le situazioni storte possono essere anche corrette senza distruggere lo stato costituito.”
Ma Francesco, ormai lanciato nella sua arringa, non mi ascoltava più.
– “Per di più ti faccio riflettere sul fatto che uno Stato della Chiesa situato al centro della penisola e che giocando qualche volta sul fatto che è Chiesa e qualche volta sul fatto che è Stato, cambiando e combinando le sua alleanze e tessendo abilmente le sue trame riesce ad impedire l’unione in uno solo di tutti gli Stati Italiani.
E l’Italia? non capisci che non saremo mai una nazione come la Francia o la Spagna se non riusciremo a costruire uno stato unico?
Che finché saremo divisi saremo anche colonizzati e dominati dagli stranieri?
Dovremmo creare in qualche modo un unico stato italiano. Dovremmo anche individuare un sovrano adatto e così illuminato da promulgare uno statuto liberale come primo atto ufficiale.”
–“Si bravo vallo a scegliere un sovrano come dici tu, dove lo trovi? e poi lo statuto che ti riempie tanto la bocca come dovrebbe essere secondo te? Voglio dire quali sarebbero le liberalità da salvaguardare?”
–“Questo sovrano non lo conosco ancora, dovrà essere scelto da tutti e scelto bene. Quanto allo statuto non si può dire a voce, bisogna studiarlo bene a tavolino, ma le liberalità come le chiami ironicamente tu, sono quelle che dico sempre, e poi anche molte altre a cui si dovrà pensare.
Ma tu non chiedere tutto a me, non vuoi contribuire anche tu?”
Io, pur condividendo alcune delle idee di Francesco, mi sentivo, e certamente ero, più contemplativo. Più che alle battaglie per cambiare il mondo ero interessato alle letture e sentivo forte il richiamo della religione.
Avevo grande ammirazione per i Monaci Benedettini di cui invidiavo la cultura. Ero impaziente di raggiungere l’età per entrare nel loro collegio e forse poi di prendere i Voti e dedicare la mia vita al servizio di Dio, come già tanti altri avevano fatto nella mia famiglia.
Capivo bene che una scelta del genere, che era quanto a quei tempi veniva imposto per motivi patrimoniali ai figli minori, mi avrebbe privato dei privilegi di cui godevo come primo figlio maschio in una famiglia benestante, ma io in fondo tendevo ad accedere a privilegi di natura spirituale che consideravo anche maggiori.
La mia poca simpatia per il Potere Temporale del Papa non era un ostacolo al mio slancio mistico, in fondo il mio desiderio di essere Monaco era per me un progetto spirituale e non politico.
In altre parole, applicavo dentro di me la separazione fra i sentimenti religiosi e la posizione politica che altro non era se non quanto poi avrei auspicato pubblicamente con gravi conseguenze per la mia vita: la separazione fra Chiesa e Stato.
Un’altra avventura che vivevamo volentieri era quella di fare lunghissime passeggiate nella campagna romana. Ci ponevamo un obiettivo più o meno lontano, compravamo una scatola di sigari e via, in cammino, fumando e chiacchierando talvolta di cose futili e qualche altra dei nostri progetti per il futuro.
La più bucolica delle nostre mete era la fonte chiamata dell’Acqua Acetosa posta fra i Monti Parioli coperti di vigne ed il Tevere, bellissimo prima della sua entrata in città, ma già colorato del suo tipico giallastro che gli viene dalla confluenza con l’Aniene, poco più a monte. Questa confluenza era da lì facilmente raggiungibile ed era interessante vedere come il fiume cambiasse colore.
Uscivamo dalla Porta Flaminia a Piazza del Popolo e percorrevamo la Via Flaminia sempre dritta fino a Ponte Milvio. Poi non rimaneva che costeggiare la riva sinistra del fiume in senso inverso alla corrente, senza traversare il ponte, passando per i sentieri fra le vigne ed i canneti.
Qualche volta invece traversavamo il ponte e continuavamo a seguire la Via Flaminia, che curvava verso destra e saliva per uscire dalla valle del fiume, arrivando fino ad un’osteria di campagna dove si fermavano a mangiare i cacciatori
Altra meta più mondana, ma più rara perché richiedeva un’intera giornata era la cittadina di Frascati. Uscivamo dalla Porta S. Sebastiano percorrendo la Via Appia e poi la via Tuscolana che gradatamente saliva sulle colline ed in questo percorso eravamo accompagnati dalla vista degli antichi acquedotti.
Francesco ed io avevamo molto affetto reciproco e rispetto l’uno per l’altro, ma le nostre differenti concezioni della Società qualche volta ci trascinavano in dispute molto accese e ricordo che una volta arrivammo fino a Frascati camminando in silenzio ciascuno su un lato della strada e fumando in continuazione e con rabbia. Tornammo a rivolgerci la parola solo dopo aver finito i sigari e la strada.
Qualche volta andavamo anche al così detto Teatro Corea nel palazzo omonimo. Lì si tenevano i giochi di cavallo e di acrobazia delle compagnie più rinomate, e per i ragazzi della nostra età erano una grande attrazione.
Scoprimmo anche il teatro di prosa, ma lo frequentai per poco tempo. Ci fu infatti un attore tanto cane, da disgustarmi per sempre.
Si rappresentava una commedia in cui il protagonista comparve in scena vestito da cacciatore con indumenti perfettamente nuovi, nuovo il carniere e perfettamente nuove, anzi lucidissime, forse di coppale, le scarpe, dicendo testualmente con una orribile voce gutturale: “Nulla in questi paraggi. Questa mane indarno tentai scovare una lepre”. Per me fu troppo e non sono mai più andato al teatro
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