martedì 29 aprile 2008

IL MARCHIO

Estratto dall'opera

IL MARCHIO di Rita Amico



VIII.

Era diversa da come era apparsa sullo schermo. L’amata Gertrude aveva lunghi capelli biondi raccolti sulla nuca e uno sguardo estatico sottolineato dai grandi occhi in lacrime. Ovviamente, trucco di scena. Mi sorprese la profonda differenza che correva tra l’attrice e il suo personaggio nella finzione. Gertrude era arrendevole, soave, quasi soprannaturale; lei aveva un fascino particolare, estremamente terreno. Osservava la sala, guardava la gente negli occhi, non era per niente intimidita, sembrava nata per conquistare e non per essere conquistata, come un felino sempre a caccia di una preda. Ricordai Goebbels quando me ne parlò per la prima volta. Aveva visto uno dei suoi film e pensò subito che sarebbe stato un ottimo “veicolo di propaganda” per la nascente industria cinematografica filo-nazista tedesca. Mi ordinò di scriverle, invitandola a Berlino. Nessuno, con un briciolo di buon senso, avrebbe mai rifiutato un’offerta del genere. E lei, in quella sera, aveva dimostrato ampiamente di non avere solo quello.
Goebbels si prodigò molto con lei, facendola sentire la regina della festa. Cosa che a lei parse non risultare difficile affatto. Pensai che lo credesse davvero, tanto ostentava sicurezza e distacco. Era davvero così altezzosa e sicura di sé come voleva far credere, o era una maschera , come quelle che indossava in scena? Mentre mi concentravo su queste riflessioni, la comitiva di Herman non lesinava commenti volgari verso l’ospite e il suo anfitrione che cercava in tutti i modi di insinuarle le mani dappertutto, con la scusa di introdurla a questo o a quest’altro. La cosa mi infastidì, con mia grande sorpresa. Concentrai il mio interesse al buffet dietro di noi, affogando nel cibo un certo nervosismo che non riuscivo a spiegarmi. Poi mi accorsi che si avvicinava verso di noi, approfittando di un attimo di distrazione di quella piovra di anfitrione. Cercava Herman con lo sguardo, tradendo un certo nervosismo. Gli amici la accolsero con larghi sorrisi, come si accoglie una gazzella nel recinto dei leoni. Ma lei non era stupida e ricambiò l’accoglienza freddamente. C’era in lei un qualcosa che attirava e che intimoriva nello stesso tempo. Un specie d’ombra, un lato oscuro dietro quell’aura che la circondava.
Aveva avuto fiuto, glielo riconoscevo. La sua ambizione doveva essere ben determinata se le aveva reso tollerabile così a lungo una relazione con un tipo come Herman. Mirava in alto e sapeva riconoscere in fretta la strada da percorrere per arrivare in cima.
“ Il mondo è ai suoi piedi, freuline Reiner!” mormorai, porgendole una coppa di champagne, per attirare la sua attenzione. Volevo provocarla, sedurre la sua vanità. Ma lei non disse nulla, mi rispose solo con un sorrisetto ironico tanto quanto bastava a farmi capire che in realtà ne aveva già abbastanza. Restammo in silenzio, uno accanto all’altra, guardando la sala e gli altri ospiti accanirsi contro il buffet.
Goebbels se ne uscì con una delle sue alzate d’ingegno e ordinò all’orchestra di intonare un valzer in onore della sua bella ospite viennese. Così tornò a rimetterle le mani addosso. E io a bere champagne in preda a un immotivato rancore.
Un messaggio urgente mi fu fatto recapitare in tutta fretta dal Ministero: il gerarca doveva recarsi immediatamente alla Cancelleria. Evidentemente Hitler aveva ben altre cose in mente quella sera che sedurre un’attricetta , nemmeno tanto ariana… Provai un piacere sottile nel riferirgli il messaggio, rompendo l’idillio che lui stava cercando di creare con la complicità della danza. Ma nessuno si sarebbe mai rifiutato di accorrere al primo richiamo del Padre della Patria… Così dovette mollare, con evidente dispiacere, la preda in pieno inseguimento, lasciando al suo fidato segretario, il compito di sferrare il colpo finale. In realtà, fu quello che mi piacque pensare, e in fondo ci speravo. Lui si sarebbe consolato comunque, tra le braccia della sua amante ungherese.
Quel cambio di programma sembrò sollevarla, il suo sguardo felino sembrò rilassarsi. L’atteggiamento di Goebbels doveva averla infastidita, nonostante le sue mire. Evidentemente anche lei aveva i suoi limiti.
Adesso che eravamo uno di fronte all’altra durante il valzer, potevo osservarla meglio. Era bella davvero. I suoi capelli scuri rimandavano riflessi dorati alla luce. Le sua ciglia folte e lunghe celavano i suoi occhi profondi e scuri, color del miele. Ora forse capivo perché mi aveva così colpito: era bella perché era diversa. Perché non aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri delle nostre donne tedesche, perché non era “omologata” come le altre. Era unica e sfuggente. Era misteriosa e attraente. Ero completamente assorbito da lei da non sentire più la musica, da non vedere più la sala intorno a noi, da non ricordare più una promessa,da non riconoscere la gelosia di un uomo estromesso e rimasto a bocca asciutta, che meditava vendetta, come Herman Warner.

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lunedì 7 aprile 2008

Frammenti di specchi

Estratto da: Frammenti di specchi di Manuela Cagnoni



MADRI E FIGLIE


Oggi si sposa mia figlia, per questo tre ore fa sono atterrata all’aeroporto di Milano e adesso sono in questa chiesa addobbata di fiori, accanto a Cristina che si soffia il naso. Manco si sposasse sua figlia! penso con rabbia, ma in fondo so che Letizia è più figlia sua che mia. L’ho sempre saputo, lo sanno tutti in questa chiesa, a partire dalla zia Evelina che, dietro di me, si asciuga gli occhi con un angolo del fazzoletto.
Anche al mio matrimonio, tanti anni fa, la zia Evelina piangeva, ma quelle non erano lacrime di commozione: erano lacrime di vergogna per avere una nipote (proprio la figlia della sua santa sorella!) tanto disonorata da sposarsi incinta e, per di più, non in chiesa!
La chiesa… Era da una vita che non entravo in una chiesa, probabilmente da quando ero bambina e la zia Evelina pretendeva che l’accompagnassi a messa ogni domenica. Non credevo in Dio da bambina e non mi sono convertita da adulta: Dio non mi ha mai manifestato la sua presenza. Sei tu che non sei in grado di coglierla, direbbe la zia Evelina, mi sembra quasi di sentirla, e può darsi che abbia ragione, ma in fondo, che differenza fa?
La musica risuona alta nella chiesa mentre Letizia attraversa la navata centrale, con un braccio infilato sotto quello di suo padre, reggendo un bouquet di fiori con l’altra mano. Il suo vestito è bianco, tutto pieno di pizzi, con un lungo strascico. Un vestito che io non avrei mai indossato e che probabilmente è andata a comprare con Cristina, riconosco lo stile.
Io e mia figlia non abbiamo mai avuto gli stessi gusti e ho sempre avuto il sospetto che tutte le camicie e i vestiti che le ho regalato, gli ultimi modelli parigini, siano finiti in qualche remoto angolo dell’armadio o, peggio ancora, donati da Cristina al parroco suo amico affinché li devolvesse ai poveri di sua conoscenza. Letizia ha sempre indossato maglioni informi e jeans sbiaditi e rattoppati, proprio come Cristina: l’ho detto che è più figlia sua che mia!
Eppure, nonostante il vestito infiocchettato, adesso Letizia è quasi bella, penso con orgoglio, perché dopo tutto sono sua madre. E’ un tantino troppo truccata, è vero, ma i capelli sono acconciati in modo semplice, con qualche fiore soltanto. Mia figlia ha sempre avuto dei bei capelli neri, pesanti, molto diversi dai miei, biondi e sottili. E poi ci sono i suoi occhi, così grandi e scuri, circondati dalle lunghe ciglia. Adesso Letizia è felice, forse è convinta che questo sia il giorno più bello della sua vita. Da parte mia, gliene auguro di migliori.
Anch’io credevo che il giorno del mio matrimonio fosse il più bello della mia vita, anche se non c’erano chiese addobbate di fiori, non c’era musica, non c’erano invitati, eccetto i parenti più stretti (i genitori di mio marito, mio padre, la zia Evelina). Ricordo solo la stanza squallida e mal riscaldata e io che tremavo, col mio pancione, nel vestito azzurro, leggero, l’unico che avesse potuto pagarmi mio padre col suo misero stipendio.
Era un brav’uomo, semplice e modesto (“Senza polso”, diceva la zia Evelina) che doveva esser stato ben felice di delegare la mia educazione alla cognata. Gli volevo molto bene, un bene fatto di silenzi, di parole non dette, che avrei tanto voluto aver detto quando è morto, anni dopo, timidamente, senza disturbare nessuno. Invece gli ho dato solo dolori, il dolore del mio matrimonio prima e quello del mio divorzio poi, ha detto la zia Evelina. Io dico che qualche dolore gliel’ha dato anche lei, mettendosi in mezzo a noi, col suo rigore, col suo moralismo, impedendoci di vivere a modo nostro. Ma anche per la zia Evelina non dev’essere stato facile raccogliere l’eredità lasciatale dalla sorella. Lei ha tentato di allevarmi secondo i rigidi principi cristiani nei quali credeva, per questo bisogna perdonarle di aver pianto perché mi sposavo a diciassette anni, perché ero incinta, perché non eravamo in chiesa. Fra l’altro, su una cosa aveva ragione: il mio matrimonio fu una vera catastrofe.
Ma io quel giorno ero felice perché sposavo l’uomo che amavo, perché aspettavo un figlio da lui, perché mi sentivo finalmente libera di vivere come mi pareva. Fu così che cinque mesi dopo, quando mi ritrovai fra le braccia una bambina di quattro chili con un ciuffo di capelli neri, mi parve ovvio chiamarla Letizia.
E mio marito? Oh, lui probabilmente era già a letto con Cristina, che ha conosciuto proprio in quel periodo. Sì, questa santerellina con un ridicolo cappellino sui capelli bruciati dalla permanente e gli occhi storti, è stata l’amante di mio marito, anche se la parola amante, riferita a lei, fa un effetto strano, sembra quasi una bestemmia.
Cristina è sempre piaciuta a tutti, perfino alla zia Evelina, è il simbolo della donna perfetta, un vero angelo del focolare, e nessuno sembra ricordare che è stato solo grazie al mio scandaloso matrimonio in comune se si è sposata in chiesa. Ma non è forse stata lei a far battezzare mia figlia? E non è stata lei a crescerla alla luce del buon senso? Fosse stato per me… Sì, bisogna proprio applaudire Cristina se oggi Letizia si sposa, a ventotto anni, dopo più di dieci di fidanzamento, dopo essersi laureata, senza figli in arrivo.
Intendiamoci: non ho niente contro Cristina, non ho mi avuto niente contro di lei: sono passati ventisei anni da quando me ne sono andata dalla casa di mio marito e in ogni caso il mio matrimonio sarebbe finito anche senza di lei. E’ solo che mi fanno rabbia queste donne mediocri che riescono ad essere perfette e giuste anche quando sbagliano. Dev’essere stato per una così, più brutta di me, meno intelligente di me, che Pierre mi ha lasciato, dopo quindici anni di convivenza.
E’ vero, Pierre se n’è andato, è inutile far finta di non pensarci, io ci penso eccome, perché domani, quando tornerò a Parigi, non ci sarà nessuno all’aeroporto ad aspettarmi e la mia casa, la nostra casa, sarà terribilmente vuota.
Letizia è finalmente arrivata all’altare, da quello che fra poco sarà suo marito. E’ alto, biondo, veramente un bel ragazzo. Molto più bello di quanto lei meriterebbe, penso obiettiva.
Mi sposto per far passare mio marito che viene a sistemarsi fra me e Cristina.
Continuo a chiamarlo “mio marito” nonostante non lo sia più da ventisei anni, perché non ne ho mai avuto un altro: io e Pierre non eravamo sposati, soltanto vivevamo nella stessa casa, dividevamo le spese, gli amici, la vita. E questo ha scandalizzato la zia Evelina forse più del mio matrimonio e del mio divorzio. Immagino che sarà felice quando le dirò che è tutto finito: almeno una cosa si è sistemata nella mia vita, dirà.
Si sarà pure sistemata ma io oggi sto veramente male, al punto di non riuscire nemmeno più a sopportare questa noiosissima cerimonia per il matrimonio di mia figlia. Quasi potevo non venire, nessuno se ne sarebbe accorto, tanto c’è Cristina. E poi mia figlia non ha neppure voluto che le facessi un regalo come si deve: il mio regalo di nozze è stato soltanto la quarta parte della somma (equamente divisa tra me, mio marito e i miei consuoceri) della catapecchia nella quale andranno a vivere. E dire che io da sola avrei potuto comprarle una casa infinitamente più bella! Ma è inutile, mia figlia ha la testa imbottita dalle idee di Cristina e non c’è niente da fare.
Era così anche da bambina: una volta la portai in un grande magazzino decisa a comprarle un regalo speciale, qualcosa di veramente nuovo, e la mia attenzione fu attratta da una bambola a cui bastava premere un pulsante sulla schiena perché pronunciasse una serie di frasi. “Guarda Letizia, questa bambola parla!” le dissi eccitata quasi fossi io la bambina. Letizia ci guardò entrambe, me e la bambola, con sufficienza: “Non muove le labbra,” disse realisticamente e disse anche che preferiva tagliare le figure dai giornali di Cristina e giocare con quelle come se fossero bambole, inventando delle storie. Quel giorno non mi riuscì di regalarle niente: nessuno dei giocattoli che riempivano il reparto del grande magazzino e che avrebbe reso felice qualsiasi altro bambino della sua età interessava a Letizia. Uscimmo tutt’e due imbronciate e impazienti di tornare ognuna al proprio mondo. Ma dopo averla accompagnata a casa a giocare con le sue figurine, maledissi Cristina, come tante altre volte.
Ecco, la sentite la voce di Cristina che si distingue dal coro delle altre mentre recita le preghiere? Le sa tutte a memoria, invece io non so neanche il Padre Nostro e l’Ave Maria. Eppure è grazie alle sue preghiere, alla sua mancanza di ambizioni, al suo amore per mio marito, se ho potuto guadagnare così tanto. Ma certo, come avrei fatto senza Cristina che si assumeva le mie responsabilità mentre io giravo il mondo per lavoro?
Forse non avrei nemmeno conosciuto Pierre.
Mi innamorai di lui a trent’anni, a Parigi, durante uno dei miei ultimi servizi fotografici. Senza pensarci molto, andammo a vivere insieme, in un appartamento che scegliemmo vicino al centro di Parigi e sono stati quindici anni stupendi. E’ vero, abbiamo avuto i nostri alti e bassi, come tutte le coppie, ma la nostra convivenza può comunque considerarsi riuscita.
Ero proprio convinta di aver trovato l’uomo giusto, quello con cui passi tutta la vita… e invece adesso lui se n’è andato. Probabilmente sono incapace di farmi sopportare da un uomo, penso e guardo mio marito, la persona che mi è più prossima in questo momento. Lui è stato il mio primo amore, l’ho amato da sempre, siamo cresciuti insieme e insieme abbiamo fatto una figlia per sbaglio, ci siamo sposati per sbaglio, poi le nostre vite si sono separate. Lui è rimasto in questa cittadina di provincia con Cristina e Letizia e il suo stipendio da impiegato. Io mi sono presentata ad un’agenzia e dopo una settimana mi sono ritrovata imbalsamata su una rivista con dei fumetti che mi uscivano dalla bocca. Così è iniziata la mia carriera da fotomodella e ho guadagnato il triplo di lui. Adesso lavoro per la stessa agenzia ma mi occupo della selezione delle ragazze: povere ragazze ingenue e sprovvedute, che io adesco con chissà quali subdole promesse, dicono loro, mio marito, Cristina, la zia Evelina, forse perfino mia figlia. Poco importa se anch’io, a mio tempo, sono stata “adescata”: io non ero né ingenua né sprovveduta e il mio era soltanto un lavoro poco serio, adatto ad una ragazza poco seria.
Il fatto è che a diciannove anni mi ritrovai sola e le uniche cose che possedevo erano questo viso e questo corpo che, se non mi sono serviti a tenermi un uomo, mi servirono almeno a guadagnare quei soldi che speravo di utilizzare per riprendermi Letizia. Ma il mio lavoro mi impegnava, mi impediva di vivere una vita adatta a farle da madre. Con Cristina invece mia figlia aveva una famiglia: per questo non l’ho mai portata a vivere con me, nonostante mi ripromettessi di farlo ogni volta. Comunque Letizia non è mai stata volentieri con me e quando veniva a casa mia aveva sempre una terribile nostalgia di Cristina e di suo padre, tanto che dovevo riportarla da loro al più presto.
Io e mio marito non ci vediamo spesso, forse, se non fosse per questa figlia, non ci vedremmo nemmeno più. Eppure tanti anni fa sono stata veramente innamorata di lui. Sì, nonostante tutto, il mio fu un matrimonio d’amore: l’ho amato dell’amore malsano, intenso e un po’ egoista di quando si è troppo giovani, troppo fragili, si ha disperatamente voglia di aggrapparsi a qualcuno. Il nostro amore naufragò nei lavori di casa che la zia Evelina non mi aveva insegnato a fare, nei soldi che non bastavano mai, nelle notti insonni con la bambina che strillava. Me ne andai perché ero stanca, delusa, avevo bisogno di stare sola e di iniziare a vivere per me stessa, finalmente. E lui non vedeva l’ora che al mio posto ci fosse Cristina, così risparmiatrice, così parsimoniosa, così madre di mia figlia.
E’ buffo che noi oggi siamo qui, uno accano all’altra, in una chiesa. Noi, che non credevamo in Dio e che ci siamo sposati frettolosamente in quella squallida stanza.
Il suo volto è identico a quello di Letizia, con gli occhi scuri e le ciglia lunghe che hanno popolato i miei sogni di bambina. Soltanto i capelli, che un tempo erano nerissimi, ora sono quasi completamente bianchi.
Pierre è sempre stato molto più bello, ma l’ho amato in modo diverso, con meno trasporto e più maturità e anche se oggi mi manca così tanto, il mio primo amore è stato quest’uomo, che sono stata tanto pazza da sposare a diciassette anni e che adesso tiene la bocca chiusa, come la mia, perché anche lui non sa né il Padre Nostro né l’Ave Maria. Nonostante Cristina.
Anche lui mi guarda e i suoi occhi sono lucidi per la commozione come non li ho mai visti. E’ da capire, oggi si sposa sua figlia, la sua bambina, e il padre, lui, l’ha fatto, questo non ha mai perso occasione di rinfacciarmelo. Ma adesso non lo rinfaccia. Adesso mi sorride e io infilo la mano sotto il suo braccio e glielo stringo un po’. E’ il mio modo di dirgli grazie per tutto quello che abbiamo fatto insieme, per i momenti belli e per quelli brutti, che ora si confondono nella mia testa e sono soltanto dei ricordi: i ricordi della giovinezza, così lontana eppure così vicina e rimpianta. E oggi non siamo un ex marito e un’ex moglie che si sono lasciati perché non si sopportavano più: oggi siamo soltanto i genitori di Letizia, questa ragazza tanto buona, che non ci ha mai dato problemi e che entrambi abbiamo amato, anche se in modi così diversi.
Senza che quasi me ne accorga, la cerimonia finisce e la musica riattacca, mentre Letizia si avvia verso l’uscita della chiesa, sotto braccio a suo marito.
Suo marito… ma cosa faccio, mi commuovo? Lo so che non dovrei essere una di quelle madri che piangono perché la figlia lascia la casa, dal momento che la casa sono stata io a lasciarla ventisei anni fa, eppure mi si è formato questo nodo in gola e non so più come scioglierlo. Sarà perché in fondo Letizia ha vissuto dentro di me per nove mesi e quando la guardavo che succhiava il latte dal mio seno pensavo che fosse solo mia.
Invece mi sbagliavo perché non è mai stata mia figlia: se tua figlia piange la consoli, se ha bisogno d’aiuto l’aiuti, ma se fra te e lei ci sono mille chilometri di distanza e non solo fisica, se in lei non ritrovi niente di te stessa al punto di stentare a credere che sia nata proprio da te, significa che tua figlia non è tua figlia perché tu non hai saputo essere sua madre.
Anche Cristina, dall’altro lato, ha infilato il braccio sotto quello di mio marito e insieme seguiamo gli sposi fuori dalla chiesa, in questa stupenda giornata di sole.
Qualcuno ha tirato del riso, il fotografo scatta le foto come impazzito, tutti i presenti fanno la fila per abbracciare mia figlia e lei sorride a tutti, abbraccia tutti e… e solo adesso io noto il suo passo un po’ pesante, il suo fisico leggermente ingrossato. Sì, me lo ricordo, cicciottella lo è sempre stata, le sue gambotte tozze e grassocce (così diverse dalle mie, sottili e affusolate ancora adesso) sono sempre state il mio cruccio, ma oggi ha qualcosa di diverso, come se…
Letizia mi vede, mi sorride e si avvicina per abbracciarmi.
“Ciao mamma, sono contenta che tu sia venuta!” mi dice e dopo mi chiede com’è andato il viaggio e altri convenevoli.
Poi si accarezza il ventre e con aria complice mi bisbiglia:
“Lo sai che fra sei mesi sarai nonna?”


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