mercoledì 8 ottobre 2008

500 anni di storia, 500 di scoperta, 100 di mito

500 anni di storia, 500 di scoperta, 100 di mito
di Giovanni Ottelli


Capitolo primo

Egitto: l’unificazione dell’antico Egitto permise la
sistemazione di terreni adibiti a coltivazione, grandi
aree desertiche o paludose vennero bonificate ed
adibite alla coltivazione di cereali ed ortaggi,
sinergendo nella pastorizia e nella pesca. Le acque
del Nilo fertilizzarono il deserto, crebbe il fabbisogno
alimentare. In questo periodo nasce il culto del
Faraone, sempre presente ed onnipresente, la sua
comparsa fastosa, la sua residenza eccelsa, la sua
vita post-terrena immutabile nel tempo. Le arti
ricordano e ricorrono le sue clamorose ed imperiose
gesta, le battaglie, le onoranze, l’astralità.
Si raffigura il percorso delle tenebre nel mondo
dell’oscurità, con uno stile che rimase imperturbabile
per millenni: corpi rigidi, schemi volumetrici, spazio
del costruito in rigide proporzioni volumetriche a
gerarchia sociale. La rappresentativa composita non
prospettica, ma ortogonale. Tale metodo espressivo
influenzò gli Assiri, evidente l’utilizzazione della
metodica nella scultorea del Leone; nella vista di
fronte si evidenziano le gambe anteriori, nel profilo
si nota la zampa traversa, la prima immagine
conferisce stabilità e sicurezza, la successiva oltre a
rendere più dinamica la composizione conferma la
potenzialità offensiva, fenomenica contro culti e
genti diverse. Nello scorcio prospettico l’animale
possiede cinque zampe.
Periodo Menfita: fiorisce l’arte funeraria e la
pittura tende al naturalismo, ma è frenata dalla
composizione statico-dogmatica richiesta a Corte.
Nell’architettura, Imotep, evolvendo le Mastaba
(tombe dei funzionari delegati) cerca di attuare la
tomba per il Faraone, bella storica percettiva.
Dapprima la piramide è ottenuta per sovrapposizione
di serie di Mastaba decrescenti, successivamente
viene adottata la soluzione classica liscia, sinonimo
di perfezione della percettiva e del senso d’im-
mortalità eterna che idealizza il dio-sovrano.
Periodo del Regno (2000 a.C.): appare la statua-
cubo, le figure umane vengono incise nella pietra
accovacciate, il corpo nascosto dalle vesti.
In evidenza rimangono viso, mani e piedi. Si tratta
di una metamorfosi sociale; in questo periodo
definito di benessere e progresso fioriscono le arti
minori, il mosaico, l’oro, lo smalto, la ceramica.
Periodo del nuovo Regno (1600 a.C.): molte
pitture ad indirizzo naturalista nella Valle dei Re
rappresentano grazia e delicatezza; si rappresentano
la vita sociale, la caccia, la pesca.
Periodo Saita (650.a.C.): si cerca di far rivivere il
concetto storico iniziale del primo periodo, le
rappresentazioni esprimono la volontà di far rivivere
le forme dell’antico impero denotate da fondi chiari
nella pittura, naturalmente non arrivando alla
vigorosità del passato. Nelle opere minori, durante il
regno di Amenfi IV, il paese ebbe un pieno sviluppo
espressivo naturalista, successivamente ripudiato
dalla medesima oligarchia egizia. Opera notoria di
questo periodo è la famiglia reale dipinta in
scenografia naturalista; nonostante
il riserbo dell’immagine reale, la visione naturalista è conside-
rata volgare e pericolosa da esporre.
Tutankhamon rinnegò il naturalismo realista e
distrusse molte opere che proponevano innovazione
sociale. Nel concetto del doppio, la statua è
personificazione vivente nelle sue funzioni
teocratiche. La statua “il Faraone”, circondato dai
propri vassalli di corte collocati come doppi nella
composizione, comandano e osservano dall’aldilà,
sia nel presente storico che in un probabile futuro,
garantendo agli spettatori la benevolenza degli astri,
che sfocerà nel monoteismo. Le vedute ortogonali,
convenzione per la figura umana, sono un modo di
volgere al pubblico esemplificando la propria
integrità strutturale e personale. Tale forza espres-
siva sarebbe oscurata da una visione prospettica e
non confacente al codice etico religioso dell’antico
Egitto. Nel medesimo tempo, con uguale principio
filosofico, la scultura traduce in immagine primaria
semplice (quadrato, cerchio, triangolo), senza che
alcuna linea mossa intacchi lo schema compositivo.
Nel concetto del doppio si teme che la
rappresentazione del nuovo possa instaurarsi nel
doppio reale, realizzando quindi uno sviluppo del
suddito. Le rappresentazioni di carattere celebrativo
assumono jeratismo dogmatico e, nonostante la
tendenza naturalista dell’artista artigiano, la
richiesta di corte lo porta verso un astrattismo
stilizzato, ritenendo volgare il naturalismo che
infrange lo spettatore con l’illusione del reale.
Creta: contemporaneamente ai grandi imperi
centrali assiri ed egizi, nel mar Egeo fiorisce la cul-
tura mediterranea. Società di tipo autoritario, con-
servatrice, ma contraria ai formalismi di corte e in
genere all’arte funeraria. Questo agire diversamente
sui dogmi liberalizza la psiche, che alimentata da
scambi etnico commerciali e interpersonali dovuti al-
la favorevole posizione geografica, sfocia in
un’espressione artistico-pittorica bellissima. Qui la
tecnica sposa il non-spazio asiatico, approdando ad
una coloristica tonale propriamente mediterranea e
tutt’ora presente in artisti internazionali. L’immagine
pittorica diventa immagine di vita, ed impone al
presente un ordine evolutivo. Oltre alla visione
ortogonale, si determina nella figura l’individualità di
cogliere il movimento personale (nascita del
concetto di cittadino), differenziando gli uni dagli
altri con bellezza propria. Nel periodo di maggiore
evoluzione, a Knosso, si vivacizzò un’evoluzione
espressiva fantasiosa. Antecedentemente lo stile era
influenzato dal geometrismo neolitico, seguito dal
periodo Arcaico tendente al modulo ripetitivo.
Dapprima forme statiche percettive, succes-
sivamente esse si alleggeriscono nel realismo,
diventano poi volatili per rinchiudersi quindi in un
rigido astrattismo mentale. Anche la scultura, che
possiede la terza dimensione, è usata come la
pittura mezzotono, in bassorilievo gli interlocutori.
In architettura, la disposizione casuale del costruito
senza regole apparenti sbalordisce l’etica greca, in
latino labirintus esplica caos o intrigo caotico, da cui
è difficile districarsi o trovare l’uscita, mentre per i
cretesi vuol dire palazzo. A Creta si costruì il primo
teatro, le donne si cimentano in molteplici attività,
dal pugilato alla tauromachia: questa espressione
artistica spiega il passaggio da suddito a cittadino,
metamorfosi sociale ove inizia lo stato di pensiero
individuale, propulsore dello stato di diritto. Le figure
pittoriche vengono normalmente dipinte a due toni,
più chiare le donne, che generalmente vivevano
più appartate. I palazzi non avevano bisogno di
fortificazione, ma declinavano dai colli alternando
piazze, scale ed abitazioni. Il palazzo è la vita della
città, polo mercantile ed affaristico, politico e
religioso, modello storico assimilato dalle città stato
(polis) greche. Le pitture sono piatte e profilate, la
tonalità è luminosa ed il contorno è stilizzato e
ritmico: non spazio asiatico a sfondo mitologico
naturalista con luce mediterranea.
Nella civiltà Micenea si evidenziano temi a carattere
manifatturiero-metallico, la città è contornata da
fortificazioni, dato che il mare, essendo Micene sul
continente, non la proteggeva come l’isola di Creta.
Penisola greca: le genti greche ebbero molti
legami con varie culture – sumera, assira, fenicia,
cretese. Inizialmente sulla penisola ellenica e sulle
coste dell’Asia minore si stanziarono tribù miste –
Ioni, Achei, Dori. I Dori, arrivati per ultimi, non
assimilarono dalle civiltà preellenistiche, ma di-
sposero un ordine diverso che ebbe massima
espressione e fusione espansiva nella città di Atene.
Le correnti che si susseguirono dopo la fase Arcaica
sono la Dorica e la Ionica, la prima esprime una
massa di movimento appena accennato, la seconda
grazia, eleganza e leggerezza. L’arte Attica di Atene
è caratterizzata da un plastico chiaro e scuro che
alleggerisce la struttura Dorica senza affievolirne la
forza. Il risultato è un equilibrio doverosamente
sistematico; analogo alla forma sociale democratica
influenzata dal potere aristocratico. Democrazia
verso un naturalismo progressista, aristocrazia che
si manifesta in forme rigide, arcaiche, conservatrici.
Nel primo periodo classico l’equilibrio e la misura
filtrano passioni, movimento e forza. Nel secondo è
più evidente il naturalismo pagano o non spirituale.
Politicamente, in questa fase la borghesia sostituisce
le proprie virtù di scienza e cultura con quelle
familiari della aristocrazia. Sono questi i “Bit”
informativi che il libero cittadino greco pagante i
tributi può acquisire da dotti e studiosi. Le verità
provvisorie della scienza e della medicina non sono
più tangibili come la matematica, ma sono ora
sottoposte a costante ed oggettivo sviluppo. Il
metodo della proiezione ortogonale viene tralasciato
dai greci, la struttura prospettica, il movimento ed il
volume sono i temi di considerazione per artisti ed
artigiani. La pittura greca murale è praticamente
inesistente, mentre si hanno nel vasellame disegni e
decorazioni bellissime, come gli scorci prepro-
spettici generalmente a due colori. In una Grecia
geograficamente rotta fra est e ovest, il cittadino
poteva acquisire dalla società civile molte nozioni
scientifiche, partecipò quindi alla diffusione della
scienza, della filosofia: l’uomo cittadino può, per la
prima volta, controllare tramite la propria ragione la
religione non più giustificatrice di potere assoluto.
L’Olimpo è il modello di pensiero pseudo-aninista
mitologico: Giunone è terra e madre, Giove è il sole
ed il fuoco, Nettuno è padre, acqua, madre; con la
considerazione di altri agenti atmosferici si pone la
similitudine comparativa con l’antica teoria del vuoto
e pieno, l’equilibrio, il tao, lo ying e lo yang,
Aristotele, Platone, naturalmente con l’animismo
tipico delle culture semistanziali del bacino
mediterraneo. Oltre ad innalzare statue ai potenti
dei protettori per la società, nella quotidianità,
furono venerate divinità legate al mondo allegorico e
contadino, le passioni sorte dalle acque, Mercurio
postino degli dei e protettore dei commerci. Il dio
Bacco oltre che protettore della campagna e dell’uva
è da collocare come tramite spirituale al mondo dei
sogni e dell’aldilà, allo spazio tempo. Nella filosofia
l’uomo greco cerca la verità, la ragione, il concetto
con la forza del pensiero, non attraverso il mito della
religione. Pitagora e Socrate sviluppano la ricerca in
molteplici direzioni: Platone influenzerà le arti
figurative, proponendo simboli riferimento di realtà,
l’insieme di fenomeni da studiare e coordinare in
sistema unico. Grande sviluppo della filosofia è da
accreditare ai Fenici che insegnarono l’alfabeto.
La scienza osserva, cerca di scoprire leggi mate-
matiche, l’astronomia, la geometria e l’ottica sono in
grande sviluppo, l’anatomia perfetta cerca il bello
ideale proporzionato, la matematica può progettare
intere città, nasce l’urbanistica. La cultura greca
realizza la commedia e la tragedia a completa
espressione di danza musica e poesia.
Etruschi: la pittura etrusca è complemento delle
tombe. La tecnica del dipinto, il mezzo fresco (strato
sottile di intonaco); i temi vogliono sostituire lo
spettacoloso mondo dei vivi, infatti prevalgono scene
di costume, musicanti, danzatori, ginnasti. Si tratta
di scene di vita sociale, raffigurazioni mitologiche
minori derivate dalla pittura del vasellame.
Il realismo delle opere è nell’accentuazione della
mimica espressiva e nell’intensificazione coloristica
che determina carica emotiva e vitale. Si vuole
rompere l’oscuro sepolcro con immagini vive
socialmente, cercando di stimolare i morti,
stimolando così il proprio interesse per la vita.
La pittura etrusca parla forte, forse a scapito della
qualità pittorica, smovendo la condizione precaria tra
essere e non essere. 5000 anni fa, nel 3000 a.C.,
grandi civiltà si stanziarono nel Mediterraneo; in
Europa il modello evolutivo fu dapprima paleolitico,
e successivamente neolitico: la civiltà Villanoviana si
sviluppa in Italia centrale; nel cuore di questa
società si sviluppa l’arte etrusca (700/400 a.C.), che
fu di breve durata, e nonostante le varie influenze
essa si differenzia per una carica di vitalità
esasperata, contrariamente a quella greca che
spiritualizzava con regole di armonia, di ordine ed
individualità. Le pitture etrusche sembrano un’ap-
parizione realista, immagini leggermente stilizzate,
dalle quali traspare un forte legame con l’oltre-
tomba. Per gli etruschi la medesima vita terrena era
tappa iniziale verso la vita eterna che inizia con la
morte, in contrasto con l’incerto Olimpo greco. L’arte
etrusca esalta la sicura materialità, accenna aspetti
senza preferenza per il bello ideale, l’arte esprime
una concezione anticlassica, gusti ed atteggiamenti
dell’epoca contemporanea. La civiltà etrusca è ligia
alle proprie tradizioni perché impregnata da un
profondo senso di dualismo vita-morte.
Arte storia società funzione dell’arte.
L’espressione è invenzione artistica: l’artista e la
propria cultura sono compartecipi; la perdita della
funzione pratica dell’arte inizia nel 1800 d.C. Fattori
principali sono la fine delle monarchie e delle corti;
con la nuova era si sviluppa la diffusione in massa di
oggetti prodotti in serie, le riproduzioni d’immagine.
Tuttora in altri continenti ed in modelli preindustriali
l’immagine originale continua ad illustrare come in
passato il presente quale immagine di contem-
poraneità alla storia ed a funzioni magiche o
religiose. L’arte come riflesso della storia legata
all’ambiente sociale. Esistono naturalmente moltepli-
ci forme d’arte, diverse però ugualmente valide ai
presupposti paradigmi cultuistici e culturali. Nella
preistoria era pratica propiziatoria per la caccia e per
pesca; nella cultura della Mesopotamia, egizia e
romana fu strumento di celebrazione del sovrano.
L’arte ha favorito il diffondersi del Cristianesimo, in
periodo di analfabetismo rinascimentale l’arte è
strumento di diffusione culturale. Nel 1600 d.C.,
l’arte servì la chiesa, la sfarzosità Vaticana, in
contrasto con le chiese riformate. Tesi antitesi del
Bernini-Borromini, nel 1700 d.C. l’arte celebrò il
potere di Versailles; il neoclassico da gesta e sfarzo
a persone del presente, instaura la retorica, idealizza
gesta passate storiche determinate.
Ruolo dell’Artista: trasformandosi la funzione
dell’arte si trasforma il ruolo dell’Artista, l’artista
stregone ammirato e temuto per presunte facoltà
sovrannaturali, artista dignitario di corte, anonimo
tecnico capace di realizzare opere, gloria, gesta
imprese, artista che fabbrica gioielli, decora chiese,
da vita a forme grezze, collabora assieme alla
comunità alla costruzione di cattedrali. Verso il 1400
d.C. afferma la propria individualità di uomo di
cultura, scienziato, musicista, poeta, e successiva-
mente, fino al 1800 d.C. opera come intellettuale di
corte, professionista a servizio degli ordini ecclesia-
stici. Successivamente il mercantilismo coloniale ri-
versa nelle banche denaro borghese, nasce la figura
dell’artista borghese, non voluto dalle corti, sempre
meno cercato dalla chiesa, per vivere deve vendere
la propria forza lavoro o la propria arte, si sviluppa
un mercato basato sulla domanda e sull’offerta.
Gli artisti più conosciuti e quotati di solito sono
anche indirizzati da recensioni critiche ed operazioni
finanziarie.
Arte rupestre Camuna
Nel centro della valle Camonica è situato il parco
archeologico chiamato “Naquame”. La Valle
Camonica è dislocata su tre livelli, da 200 a 2000
metri. Nella parte centrale vi sono migliaia di
incisioni rupestri, immagini rituali, attività economi-
che, proprietà, arnesi; alcune rappresentazioni sono
schematiche, altre accennano movimento, alcune
di aspetto naturalista, alternando interesse alla
globalità della forma ed al particolare. Il concetto
figurativo variò da figure isolate ad immagini
descrittive narrative ed evolutive: animali, armi ed
oggetti. Il simbolismo varia col variare degli
interessi; elementi quotidiani comuni nei vari
periodi: la caccia, i riti funebri; elementi variabili:
carri, aratri, armi, utensili da lavoro. L’associazione
costante fra stili ed indici figurativi è l’elemento di
ricerca e suddivisione temporale cronologica. L’arte
Camuna per la propria dislocazione geografica
culturale, rappresenta come una scheda storico-
visiva indelebile il passaggio fra Paleolitico e
Neolitico. Il simbolismo riflette realtà psicologiche,
che cambiando determinano le cosiddette
fasi
evolutive. All’inizio i soggetti incisi sono isolati,
l’unità pittografia figurativa si identifica in un
disegno schematico, successivamente le figure
isolate vengono raggruppate con uno schema
compositivo rudimentale. Scene composte e com-
plesse sono in fase formativa, si intuisce un senso di
unione simbolica. Muta il concetto, il disco solare
viene abbellito da raggi, la posizione del gruppo
è ancora statica, il carattere compositivo ancora
al livello primitivo individualista. Appaiono scene
topografiche ortogonali, le scene di animali e le
composizioni complesse stanno gradatamente svi-
luppandosi, dando inizio alla terza fase, l’ulteriore
possibile suddivisione fra fase evolutiva e matura. Si
constata una composizione monumentale a parete
verticale, con aspetto armonioso e simbologia socio-
spirituale definita, le rappresentazioni più comuni
sono disco, pugnali triangolari, asce ed alabarde.
Nella successiva maturità si notano scene più pic-
cole a carattere rituale magico, piani urbanistici,
combattimenti. Inizialmente le incisioni sono immo-
bili e rigide, con senso assoluto, pongono l’artista
fuori dal tempo, mentre nella maturità sociale l’arti-
sta raggiunge un alto schema figurativo ed un
radicale mutamento di concetto. Armi ed utensili
dapprima rappresentati da soli, ora appaiono in uso
pratico comune. Le scene aumentano come aumenta
la società e la relativa simbologia magico religiosa;
le incisioni diventano immagine del quotidiano e del
privato dell’intera società. Le serie di incisioni do-
mestiche - cani, ovini, caprini - sono distinte e
posseggono una grande attenzione al particolare.
Naturalmente l’arte espressa nella zona è permea-
bile ed inquadrabile in un contesto più ampio e
generale dell’età della pietra Europea. L’uomo
primitivo appare probabilmente attorno a 7/9000
anni fa, da gruppi semi nomadi Paleolitici del bacino
del Mediterraneo. Tali popolazioni, durante i cambi
stagionali, sostavano periodicamente in luoghi pre-
stabiliti e cacciavano. Contemporaneamente altre
culture erano in un modello di vita sociale diverso.
Nel secondo periodo i ragguagli tecnici tramite le in-
cisioni sono dati da armi ed alabarde; successiva-
vamente sono i pugnali triangolari a pomo lunato,
riscontrabili nella cultura di Remedello: siamo nella
prima età del bronzo in Italia settentrionale; aumen-
tano le relazioni con Micene ed il Mediterraneo.

Maggiori dettagli http://www.lulu.com/content/4247295

NO STRESS

NO STRESS
di Gioia Camilla Bennati




Capitolo primo

Stress
L’imprevisto, il ritardo, ma anche la ripetitività e la
puntualità ci richiedono costantemente comportamenti
adeguati. Può accadere però di sognare di cadere, di avere
perso l’aereo o di non orientarsi in un luogo che dovrebbe
essere familiare. E’ stress?
La parola stress deriva dal linguaggio inglese dell'inge-
gneria, ed è usata per indicare la forza che viene applicata
ad un corpo, ma che non lo deforma; indica quindi
un’energia, uno sforzo a cui si sa opporre resistenza e che
dalla forza applicata riceve un’indicazione di quanto si
sappia opporsi.
Lo stress è importante, perché consente all'organismo di
sviluppare sistemi di resistenza, capacità di adattamento e
di opposizione alle situazioni che la vita ci richiede quoti-
dianamente.
Teoria della rabbia inespressa
“L’esperienza emozionale correttiva …. “
(Franz Alexander)
Le teorie psicologiche spiegano la risposta allo stress come
sviluppo di disturbi psicofisiologici chiamando in causa
fattori quali gli stati emozionali inconsci, i tratti della
personalità, le valutazioni cognitive e le personali strategie
di reazione. Secondo le teorie psicoanalitiche a dare origine
ai disturbi psicofisiologici sono conflitti specifici e stati
emozionali negativi ad essi associati.
Fra i teorici della psicanalisi che hanno studiato i disturbi
psicofisiologici, Franz Alexander (1950) è probabilmente
quello che ha avuto un rilievo maggiore. Nella sua
concezione, i diversi disturbi sono il prodotto di stati
emozionali inconsci, specifici per ciascun tipo di disturbo.
Gli impulsi ostili repressi creano uno stato emozionale
cronico che è responsabile dell'ipertensione.
Se gli impulsi ostili continueranno a non essere espressi, di
conseguenza, aumenteranno di intensità e si svilupperanno
misure difensive ancora più forti per mantenere il controllo
degli impulsi aggressivi repressi. Alexander elaborò la
“teoria della rabbia inespressa” o “teoria della rabbia
trattenuta” in base alle osservazioni compiute su pazienti
sottoposti a trattamento psicanalitico.
Capacità di Coping
Lo stress è un potente agente patogeno e quando viene a
mancare la capacità di farvi fronte il rischio è quello di
sviluppare qualche forma di sofferenza psicologica e fisica.
Le strategie di reazione di un individuo allo stress vengono
definite coping; questo termine si riferisce alle strategie,
più o meno efficaci, che ognuno di noi utilizza in situazioni
stressanti. Sono state svolte molte ricerche per misurare la
tolleranza allo stress e “la capacità di coping” di persone
diverse per età, sesso o cultura, ed in particolare di soggetti
che soffrono di una patologia fisica.
I risultati sembrano confermare che i soggetti in grado di
affrontare le situazioni difficili subiscono minori effetti
negativi, mentre le persone che tendono ad utilizzare
comportamenti di evitamento, negazione e disimpegno
soffrono maggiormente quando lo stress è inevitabile,
peggiorando ulteriormente la propria condizione.
Oltre alle “capacità di coping” esistono altri fattori in grado
di ridurre lo stress; uno di questi è il sostegno sociale.
Il sostegno sociale funzionale
La rete di relazioni sociali di una persona è composta
quantitativamente dal numero degli amici che possiede, ma
anche dalla qualità delle relazioni madre, padre, fratelli,
sorelle in particolare.
La qualità delle relazioni sociali - sostegno sociale
funzionale - fa riferimento per esempio al fatto che una
persona ritenga di avere amici a cui rivolgersi in caso di
bisogno (Cohen e Wills, 1985).
Le persone anziane con molti amici o parenti tendono ad
avere un’esistenza più lunga e felice rispetto a soggetti che
sono più isolati.
Analogamente alcune ricerche dimostrano che un livello
più basso di sostegno strutturale e la frequenza di patologie
come l’infarto miocardico sono correlate (Ruberman e altri,
1984).
In che modo il sostegno sociale esercita i suoi effetti
benefici?
Una possibile spiegazione è che i livelli di sostegno sociale
favoriscono uno stile di vita più sano ed armonico, e che il
sostegno sociale (o la sua mancanza) potrebbe avere un
effetto diretto sui processi biologici. Lo scarso sostegno
sociale si associa, ad esempio, ad un aumento delle emozio-
ni negative che, agendo sui livelli di alcuni ormoni e
sul sistema immunitario, determinano una risposta meno
funzionale ad una situazione imprevista o ansiogena.
Teoria della debolezza somatica
Gli approcci biologici attribuiscono particolari disturbi
psicofisiologici a debolezze o ad iperattività specifiche di
certi apparati di organi nella risposta allo stress.
È possibile che l'influenza di elementi genetici, della dieta e
di altri fattori simili porti ad alterazioni della funzione di un
particolare apparato di organi, che di conseguenza, diviene
debole e vulnerabile allo stress.
Secondo la teoria della debolezza somatica, la correlazione
fra stress ed uno specifico disturbo psicofisiologico è nella
debolezza di un organo specifico.
Per esempio, un apparato respiratorio debole per costitu-
zione congenita potrebbe predisporre una persona a svilup-
pare l'asma come reazione allo stress.
Teoria della risposta specifica
“La differenza essenziale fra uomini e donne...“
(Simon Baron Cohen)
Secondo la “teoria della reazione specifica” ognuno
risponde allo stress in modo personale ed il suo apparato di
organi più sensibile allo stress è il candidato più probabile a
divenire sede di un successivo disturbo psicofisiologico.
Per esempio, una persona la cui risposta allo stress consiste,
tendenzialmente, nell'aumento della pressione arteriosa è
più predisposto a sviluppare l'ipertensione.
I fattori di stress hanno molteplici effetti sui vari sistemi
corporei: il sistema nervoso autonomo, i livelli ormonali e
l'attività celebrale.
Attualmente, una delle principali aree d’interesse è
costituita dal sistema immunitario, che può essere un
fattore determinante nello sviluppo delle malattie infettive,
del cancro, delle allergie e delle malattie autoimmuni come
l'artrite reumatoide, il cui sistema immunitario attacca il
corpo stesso.
È stato dimostrato che a produrre modificazioni nel sistema
immunitario sono vari fattori di stress: depressione e
perdita di persone care o di animali, incomprensioni della
coppia e divorzio, esami, test, selezioni, perdita del posto di
lavoro o anche un matrimonio, un’adozione, un membro
che si aggiunge al nucleo familiare (per esempio un cugino,
un nonno, una baby sitter o una badante), una cerimonia,
una premiazione, un concorso, una gara o una compe-
tizione sportiva.
Una ricerca ha confermato per esempio il rapporto tra stress
ed infezioni alle vie respiratorie. In questo studio un
gruppo di volontari assunse per via nasale delle gocce
contenenti un virus dell'influenza attenuato e si sottopose
ad una serie di test volti a misurare l'entità degli stress
recenti.
Il risultato fu che le persone che avevano subìto un forte
stress nel periodo più recente contraevano più facilmente il
virus dell'influenza, mentre quelle che non avevano subito
forti stress nell'ultimo periodo si dimostravano più
resistenti all'influenza (Cohen, Tyrell e Smith, 1991).
Disturbo post- traumatico da stress ( PTSD )
In origine questo disturbo venne individuato per giu-
stificare strane forme di ansia di cui soffrivano i soldati che,
al rientro da guerre lontane, non riuscivano a riadattarsi
alla vita di tutti i giorni.
In molti film americani il personaggio protagonista è un
reduce di guerra che non riesce più a ritrovarsi perché tutte
le notti sogna la guerra, è depresso e diventa alcolizzato o
qualcosa del genere.
Ma con il passare degli anni ci si è accorti che anche traumi
più frequenti e meno drammatici sono capaci di scatenare
reazioni che durano a lungo e cambiano la vita come un
terremoto, un’eruzione, una valanga, un uragano, un
inondazione, un fulmine o l’attacco di un animale (ragni,
serpenti, tori, topi, felini, cani).
A parte gli eventi atmosferici fuori scala, anche vicende
della vita come un incidente automobilistico o un
naufragio, oppure una rapina, un furto in casa, uno stupro
possono fare scattare, in soggetti predisposti, una grande
varietà di sintomi che si manifestano per lungo tempo.
Compare insonnia cronica, con brevi periodi di sonno,
interrotti da risvegli, con incubi e ricordi dell'avvenimento
traumatico. Il risveglio è doloroso, con sudorazione e
visibili tremori, e si sente la necessità di chiamare chi è
vicino per farsi rassicurare.
Segue una grave depressione, che viene vissuta costan-
temente con la paura che possano ripetersi le condizioni
scatenanti. Questa situazione non riesce a migliorare e chi
ne soffre ha un immaginario ridotto, non riesce ad
“immaginare” una risposta soggettiva diversa.

L’ansia
L'ansia (la cui etimologia latina richiama concetti quali il
sentirsi soffocare, stretti) è connotata da varie sensazioni
per lo più spiacevoli fra cui il timore, la paura,
l'apprensione, la preoccupazione, la sensazione che le cose
possano sfuggire di mano, il bisogno di trovare una
soluzione immediata e, nel caso di esposizione prolungata,
la frustrazione e la disperazione. Tuttavia l'ansia è
un'emozione naturale ed universale.
Generata da un meccanismo psicologico di risposta allo
stress svolge la funzione di anticipare la percezione di un
eventuale pericolo prima che sia sopraggiunto, mettendo
in moto specifiche risposte fisiologiche che spingono da
un lato all'esplorazione per identificare il pericolo ed
affrontarlo nella maniera più adeguata e, dall'altro,
all'evitamento ed all’eventuale fuga.
Questa caratteristica di interesse ed evitamento verso un
possibile pericolo si ritrova soltanto negli uomini e negli
animali superiori e favorisce la conoscenza ed un migliore
adattamento al mondo circostante.
Stress ed ansia possono sembrare simili, ma con effetti
molto diversi.
L'ansia non è considerata grave come lo stress.
Quando una persona dice di essere ansiosa, si prevede non
reagirà in un modo allarmato perché l'ansia è “normale” e
comune nella società moderna.
Molte cause di ansia possono essere considerate superflue.
Situazioni ansiose potrebbero sembrare minori per altre
persone.
Pertanto l'ansia è stata spesso definita come un’inutile
paura.
Tuttavia la persona ansiosa potrebbe non vederla in questo
modo.
Un esempio di ansia è una fobia e ci sono molti tipi di fobie.
Fobie sono semplicemente un timore non reale.
Alcune persone temono tutti i tipi di cose: animali, oggetti,
persone, alieni, spiriti e fantasmi.
L'argomento su questo tipo di ansia può non finire mai.
Nel tentativo di comprendere le persone che hanno gravi
timori per cose che ad altri sembrano irrilevanti, si scopre
che questa paura è creata o costituita nelle loro menti nei
confronti di un determinato scenario di percezione o di
pregiudizio.
In psicoanalisi la nevrosi si accompagna alla paura degli
animali sovrapponendosi all’elaborazione del tema edipico.
Ci sono molti modi in cui possiamo affrontare l’ansia, ma
non si può sradicare.
Per prima cosa è utile riconoscere che l'ansia può
contribuire al fallimento ed è consigliabile invece di
concentrarsi sulla paura, pensare a cosa fare per meglio
raggiungere l’obiettivo.
Se ci si concentra sull’elaborazione di una strategia è
possibile superare l’ansia con facilità.
A differenza dell’ansia lo stress può diventare una grave
malattia che provoca danni alla nostra vita e addirittura il
decesso, come un killer silenzioso.
Lo stress è molto reale e può essere causato da fattori
interni - fisici, emotivi, affettivi, creativi - o esterni.
Stress è il risultato di una pressione o forzatura; lo stress ha
a che fare con la vita reale, con le relazioni, gli affetti e con
l’ambiente.
La vita in una città è frenetica, gli spazi limitati, i colori
tendono al grigio ed all’uniforme.
Il traffico, gli ingorghi, i semafori, i ritardi, le lunghe code ci
esasperano e ci sembra di essere sempre di fretta.
Il tempo diviene ritmo di lavoro, di studio, di riposo e la
percezione di stanchezza costante.
Lo stress è controllato nella maggior parte degli organi del
corpo dal cervello.
Questo è l'unico organo che detiene la chiave e decide il
risultato che lo stress avrà.
Proprio come il modo in cui il cervello è individuale a tutti,
le reazioni allo stress sono molto personali ed uniche per
ciascun individuo, pur con affinità storico-socio-culturali.
Vi sono modelli socioculturali che ci aiutano a capire di più
lo stress e la sua percezione individuale.
Nella società contemporanea occidentale l’individuo è sotto
pressione: dobbiamo essere conformi a tutti gli altri nella
società, rincorrere modelli economici effimeri che i mass
media ci propongono continuamente, sostituire il nostro
ego con un ego societario consumistico.
Lo stress è adeguamento socioeconomico ad un sempre di
più – il televisore al plasma più grande, l’auto più grande,
la casa più grande, più soldi, più debiti, più alti, più magri.
Le persone hanno un loro life style che non è solo un
modello economico industrializzato, ancorché insostenibile
per l’ambiente e per l’immaginario.
La Natura che pur è protagonista delle paure ancestrali -
terremoti, eruzioni, inondazioni, valanghe, fulmini,
collisione con asteroidi e meteoriti, siccità, epidemie – si
contrappone allo stress moderno contemporaneo della
società occidentale industrializzata.
Il contatto con la Natura è armonico ed anti-stress.
L’aria aperta, la luce naturale, il silenzio, il cibo “naturale”, i
boschi, il giardinaggio, la compagnia degli animali ci fanno
stare meglio.
L’uomo contemporaneo soffre di ansia e stress planetario.
Il surriscaldamento del pianeta, il buco dell’ozono, l’inqui-
namento delle acque, l’estinzione delle specie vegetali ed
animali, la possibilità di collisione con asteroidi, l’epoca
nucleare, insieme alle tendenze millenarie del Homo
Sapiens di fare la guerra – dimostrando poca simpatia per i
contemporanei - sono il nostro immaginario.
Un immaginario pieno di ansie (paure inutili?) e stress del
consumo-non consumo che non garantisce un futuro al
pianeta che il modello economico industrializzato occiden-
tale globalizzandosi è riuscito a degradare in 100 anni.
L’ansia moderna diviene allora il futuro della vita che non
si sa quanto può costare e la sfida, lo stress, l’ecoso-
stenibilità che in pratica significa sopravvivenza.
Per l’uomo primitivo un fulmine costituiva uno stress
naturale fortissimo perché oltre al pericolo si avverte
nell’immaginario la manifestazione di una potenza
simbolico-spirituale.
Nella nostra epoca il timore del fulmine esiste, tuttavia la
pericolosa scarica elettrica che accompagna il temporale
non ha attributi divini.
Società evolute parallelamente al modello industriale
occidentale (indiani d’America, aborigeni, eschimesi e
molte altre minoranze culturali del “Terzo” Mondo)
definiscono la società occidentale contemporanea ansiosa e
piena di paure ridicole ed ingenue come per noi lo sono gli
attributi divini che il primitivo attribuiva al fulmine.
Volere sempre più, materializzare il senso della vita, toccare
e rovinare tutto sono i valori che si stanno globalizzando.
Attraverso l’immaginario queste culture diverse esprimono
il proprio essere differenti, come nella leggenda degli
indiani d’America delle “tormaline” - pietre elettriche (che
sono in qualsiasi strumento d’uso comune contemporaneo)
– che racconta: “Quando l’uomo avrà a disposizione le
tormaline l’uomo cesserà di esistere.” (Giovanni Ottelli,
2008)
Le tormaline
Conclusione
Lo stress indipendentemente dalle sue cause – teorie
psicologiche, psicoanalitiche o biologiche, o dell’evento
traumatico - è una riduzione dell’immaginario, la difficoltà
a strutturare nuove risposte psicofisiche adeguate, il blocco
del meccanismo cognitivo dell’insight quando la persona
non ritiene disporre delle risorse necessarie ad affrontare
una situazione percepita soggettivamente come continua-
tivamente troppo gravosa a livello fisico o emotivo.
Lo stress “psicosomatizzandosi” oltrepassa la sua stessa
definizione di forza non deformante e modifica il soggetto
limitandone l’espressione fisica o affettiva o manifestandosi
come perdita di creatività (società dei consumi).
Allo stress non ci si allena, ed esperienze stressanti ripetute
non rendono la persona più reattiva e felice. Purtroppo allo
stress, come un po’ a tutte le cose, ci si abitua e si da sempre
meno importanza a situazioni che negativamente riducono
le aspettative di vita e l’immaginario della persona.
Se il bambino cresce in un ambiente sociale armonico, in cui
si trova a suo agio e a causa di una precoce scolarizzazione
manifesta reazioni psicosomatiche – febbre, sonni inquieti,
sudorazione, irritabilità, eccessiva timidezza - è opportuno
rinviare la partecipazione costante ad attività scolastiche
quando, più cresciuto e strutturato, sarà in grado di
compiere le stesse attività con più gratificazione.
L’immaginario è una comunicazione tra corpo e psiche che
attraverso i simboli e gli archetipi da vita ai sogni: sogni
ossessivi, incubi o assenza di sogni per lunghi periodi sono
un segnale di stress elevato.

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Intuizione

Intuizione
di Piera Oreficini


Primo Capitolo

INFORMAZIONI GIOVANILI – (1883)
Brani tratti dalle lettere alla fidanzata
Il “Don Chisciotte” illustrato da Gustave Dorè
(Freud sapeva lo spagnolo e considerava questo romanzo
“il modello immortale di ogni romanzo umoristico”.)
Quando Don Chisciotte è messo nella giusta luce e
ridicolizzato, non è con mezzi grossolani come le bastonate
e le disgrazie corporali, ma con la superiorità della gente
che si trova nella vita reale.
La pinacoteca di Dresda
Credo di aver acquisto qualcosa di permanente.
“Madonna” di Holbein – devozione
Mi infastidivano i visi volgari e brutti delle persone, ma
seppi poi che erano i ritratti della famiglia del borgomastro.
La Madonna non è molto bella (occhi in fuori, naso lungo e
sottile, ma è la vera regina del cielo, come l’hanno
fantasticata i tedeschi).
“Madonna” di Raffaello (Sistina)
Quando mi fui seduto il mio pensiero fu: “Se tu fossi con
me.”
Ma anche contro quella madonna avevo una importante
obiezione.
Holbein disse: ”Né donna né fanciulla”.
Raffaello rispose: “Fanciulla”.
Contro la mia volontà, mi viene in mente che doveva essere
stata una affascinante creatura umana che risvegliava la
simpatia non del cielo, ma della terra.
A Vienna questa opinione è stata respinta come un’eresia.
”Cristo della moneta” di Tiziano
Questa testa è la sola verosimile che possiamo pensare
avesse un tal uomo.

BREVI ANALISI PER WILHELM FLIESS (1897-8)
da lettere
Poesia e “Fine Frenzy”
Il meccanismo della creazione poetica è lo stesso delle
fantasie isteriche.
Così Shakespeare aveva ragione di accettare poesia e
delirio.
(Il termine “complesso edipico” comparirà solo nel 1910)
“Edipo Re” e “Amleto”
Nel corso della mia autoanalisi…
Una sola idea di valore generale mi è sorta. Ho trovato
amore per la madre e gelosia verso il padre, e viceversa,
anche nel mio caso ed adesso ritengo che questo sia un
fenomeno generale della prima infanzia.
Se è così, si comprende l’interesse palpitante che suscita
l’Edipo Re.
Ogni membro dell’auditorio è stato una volta un tal Edipo.
Mi è passata per la mente che la stessa cosa possa essere alle
radici dell’Amleto.
Non alludo all’intenzione deliberata di Shakespeare, ma
credo che un reale avvenimento abbia spinto il poeta a
scrivere mentre l’inconscio che era in lui capiva l’inconscio
dell’eroe.
“Così la coscienza ci fa tutti vili” (Amleto, atto 3°, scena 1).
La coscienza morale di Amleto è il suo senso di colpa.
Il suo estraniamento sessuale durante il dialogo con Ofelia
non è tipicamente isterico?
Il suo disprezzo per l’istinto che vuole generare figli.
Non riesce egli, allo stesso modo stupefacente dei miei
pazienti isterici, ad attirare su se stesso la punizione, perché
è costretto a soffrire lo stesso destino del padre, è
avvelenato dallo stesso rivale?

EDIPO RE E AMLETO – (1899 )
(da “Interpretazione dei sogni”)
I genitori hanno la parte principale nella vita pratica
infantile di tutti gli psiconevrotici.
Non credo però che gli psiconevrotici si differenzino molto
a questo riguardo da altri uomini che rimangono normali.
I sentimenti di amore e di odio verso i genitori dei bambini
psiconevrotici ci fanno distinguere più chiaramente, per
semplice ingrandimento, ciò che accade in modo molto
meno chiaro e meno intenso nella maggior parte dei
bambini.
Edipo Re – leggenda e dramma di Sofocle
Laio, Re di Tebe
Edipo è figlio di
Giocasta
Un oracolo predice che Edipo ucciderà il padre.
Viene allora esposto lattante, ma salvato cresce come figlio
di re di una corte straniera.
Incerto della propria origine, interroga egli stesso l’oracolo,
che gli consiglia di star lontano dalla patria, o altrimenti
ucciderebbe il padre e sposerebbe la madre.
Si sta allontanando dalla patria quando incontra Laio e lo
uccide nel corso di una lite repentina.
Giunto a Tebe, risolve gli enigmi della Sfinge e i Tebani lo
eleggono re offrendogli in dono la mano di Giocasta.
Genera con la madre a lui sconosciuta due maschi e due
femmine, e tutto è tranquillo, finché i tebani, a causa di una
pestilenza, riconsultano l’oracolo.
Qui comincia la tragedia di Sofocle.
I messi portano il responso: la pestilenza avrà fine quando
l’uccisore di Laio sarà espulso dal paese.
Ma dove si trova costui?
L’azione della tragedia consiste nella rivelazione,
gradualmente approfondita e ritardata ad arte –
paragonabile al lavoro di una psicanalisi – che Edipo stesso
è assassino e figlio di Laio e Giocasta.
Travolto dalla mostruosità dei fatti commessi
inconsapevolmente, Edipo si acceca ed abbandona la patria.
L’oracolo si è avverato.
Edipo Re è una tragedia fatalistica.
Se il re Edipo riesce a scuotere l’uomo moderno non meno
dei greci suoi contemporanei, la spiegazione può trovarsi
soltanto nel fatto che l’effetto della tragedia greca non si
basa sul contrasto tra destino e volontà umana, bensì va
ricercato nella peculiarità del materiale su cui tale contrasto
si presenta.
Deve esistere nel nostro destino una voce pronta a
riconoscere la forza coattiva del destino di Edipo.
Il destino di Edipo ci commuove perché sarebbe potuto
diventare il nostro.
Re Edipo, che ha ucciso il padre e sposato la madre, è
soltanto l’appagamento di un desiderio della nostra
infanzia.
Ma, più fortunati di lui, siamo riusciti in seguito a staccare i
nostri impulsi sessuali da nostra madre, a dimenticare la
gelosia nei confronti di nostro padre.
Portando alla luce nella sua analisi la colpa di Edipo, il
poeta ci costringe a prendere conoscenza del nostro
destino, nel quale quegli impulsi, anche se repressi, sono
per sempre presenti.
Come Edipo, viviamo inconsapevoli dei desideri, offensivi
per la morale, che ci sono imposti dalla natura, e dopo la
loro rivelazione noi tutti vorremmo distogliere lo sguardo
dalle scene della nostra infanzia.
Nel testo della tragedia si trova indicato in modo non
equivoco che la leggenda di Edipo è tratta da un
primordiale materiale onirico, che ha per contenuto il denso
turbamento del rapporto con i genitori attraverso i primi
impulsi sessuali.
Anche oggi il sogno di avere rapporti sessuali con la madre
è frequente in molti uomini, che lo raccontano indignati
e sorpresi. Esso è la chiave della tragedia ed il
completamento del sogno della morte del padre.
La favola di Edipo è la reazione della fantasia a questi due
sogni tipici e, nello stesso modo in cui i sogni di adulti sono
vissuti con sentimento di rifiuto, così la leggenda deve
accogliere nel suo contenuto anche onore ed autopunizione.
Nello stesso terreno dell’Edipo si radica un’altra grande
creazione tragica: l’Amleto di Shakespeare.
Mutata elaborazione della medesima materia.
Nell’Edipo, l’infantile fantasia di desiderio che lo sorregge
viene tratta alla luce e realizzata come nel sogno.
Nell’Amleto permane rimossa e veniamo a sapere della sua
esistenza (come in una nevrosi) soltanto attraverso gli
effetti inibitori che ne derivano.
Si può rimanere perfettamente all’oscuro del carattere
dell’eroe.
Il dramma è costruito sull’esitazione di Amleto ad
adempiere il compito di vendetta assegnatogli. Il testo non
rivela quali siano cause o motivi di questa esitazione.
Secondo la concezione tuttora prevalente, che risale a
Goethe, Amleto rappresenta il tipo d’uomo la cui vigorosa
forza di agire è paralizzata dallo sviluppo opprimente
dell’attività mentale.
La funzione drammatica dimostra che Amleto non deve
affatto apparirci come una persona incapace di agire in
generale.
Lo vediamo agire due volte:quando uccide colui che origlia
dietro al tendaggio (qui è spinto da un improvviso
trasporto personale) ed in modo premeditato – quasi
perfido – quando manda i due cortigiani alla morte a lui
stesso destinata.
Che cosa lo inibisce nell’adempimento del compito che lo
spettro di suo padre gli ha assegnato?
È la particolare natura del compito stesso.
Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo
che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua
madre, l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili
rimossi.
Naturalmente può essere solo la personale vita interiore del
poeta, quella che si pone di fronte a noi nell’Amleto.
(Il dramma è stato composto da Shakespeare
immediatamente dopo la morte del padre.)
Nello stesso modo in cui ogni sintomo nevrotico, ed il
sogno stesso, sono possibili di sovrainterpretazione (cioè di
interpretazioni molteplici), anzi la esigono per essere
totalmente compresi, così anche ogni autentica creazione
poetica sorge da più di un motivo, da più di un impulso
nell’anima del poeta ed ammette più di una
interpretazione.

Personaggi poetici sulla scena
Scopo del dramma è quello di suscitare pietà e terrore.
Suo intento è di far scaturire fonti di piacere o di godimento
dalla nostra vita affettiva.
(Motto Spirito: fonti piacere come attività intellettiva).
L’assistere come spettatore al ludo scenico dà all’adulto ciò
che il gioco dà al bambino.
Lo spettatore vuole essere un eroe e gli autori e attori glielo
consentono, permettendogli di identificarsi in un eroe; gli
risparmiamo sofferenze e gravi apprensioni.
Il godimento dello spettatore ha come presupposto
l’illusione, ovvero l’attenuazione della sofferenza.
Le condizioni di godimento sopra citate sono comuni a
precise forme di composizione poetica.
Lirica
Sfogo di intense e varie sensazioni
Danza
Epica come godimento dell’eroe nell’ora del trionfo.
Il dramma scandaglia più nel profondo le possibilità
affettive: mostra l’eroe in lotta o per lo più nella disfatta
(soddisfazione masochista).
Commedia →
Viene risvegliata solo la
preoccupazione
Dramma
Tragedia →
La sofferenza diviene
realtà
Tema del dramma è dunque ogni genere di sofferenza
spirituale (non fisica, perché questa altera la sensazione
corporea al punto di porre fine ben presto ad ogni
godimento spirituale).


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MANGIOASTROLOGICO

MANGIOASTROLOGICO

di Roberto Bennati

Primo Capitolo



Mangioastrologico è armonia nel cibo per scelta e
preparazione anche con le caratteristiche astrologiche ed
energetiche della persona e dei suoi meridiani energetici.
La data di nascita e la posizione astrologica attuale
individuano la combinazione adatta per le differenze delle
caratteristiche energetiche mediante accorgimenti di scelta
e preparazione del cibo per migliorare il benessere.
L’alimentazione macrobiotica è armonica ed equilibrata.
Armonia deve collegarsi con ecosostenibilità.
Macrobiotica è cibo in armonia con l’energia della persona e
con l’ambiente, ed il suo pensiero è olistico, anziché
frammentario.
La macrobiotica è orientata ad un cibo sostenibile dal
pianeta per i processi produttivi, per il costo energetico,
per le risorse umane (commercio equo e sviluppo locale
sostenibile) ed invita a prediligere una dieta vegetariana
in quanto parte della “salute planetaria” che non è
scindibile dal benessere dell’individuo.
Il libro raccoglie e salvaguarda i valori delle espressioni
culturali e pratiche per un nuovo approccio alla
comprensione, protezione e rispetto dell’eredità culturale
di tutto il mondo.
L’armonia dell’astrologia orientale è completata dalla
macrobiotica, che con un cibo adatto, preferibilmente
vegetariano, permette all’energia di ogni persona di
realizzarsi al meglio.
La macrobiotica indica la qualità energetica dell’alimento
e gli effetti della preparazione del cibo per l’armonia
della persona: consiglia cibi e preparazioni semplici,
gradevoli e variate, privilegiando la considerazione per
l’energia del tempo ( stagione) e dell’individuo (tipologia).
A differenza delle diete che considerano calorie e
percentuali di elementi singoli presenti negli alimenti
(lipidi, glucidi, proteine, residui), la macrobiotica guarda
alla “qualità energetica” dell’alimento (espanso yin –
contratto yang).
L’energia determina la “qualità” del tempo ed imprime le
sue caratteristiche alla materia come al carattere con
relazione all’anno, alla stagione, al mese ed alla posizione
della particolare fase energetica considerata.

ECOSOSTENIBILITA’
In che modo si può parlare di astrologia per l’ecologia?
L’astrologia è un insieme di conoscenze organizzate per
predire il futuro inteso come ripetersi infinito di cicli non
identici, sempre distinti, ma comunque simili.
In particolare lo studio delle origini dell’astrologia, il suo
collegarsi prima della diffusione della scrittura ai simboli, la
necessità con l’affermarsi dell’agricoltura – l’umanità
considera opportuno costituire la base della propria
alimentazione con i cereali - di uno strumento, il
calendario, che fosse comprensibilmente semplice, ma
esatto, attribuisce all’affermarsi dell’astrologia un legame
con le scelte dell’alimentazione.
La coltivazione dei cereali appare come un percorso
ciclico, ed il calendario proporziona la conoscenza perché
il processo continui a ripetersi.
E’ tale il valore di questo strumento che vi confluiscono
vari elementi: calcolo, cosmogonie (Proserpina, Natale, etc)
e simbologie.
La concezione del tempo come scorrere di energia precorre
la teoria della relatività e la rappresentazione della ruota
o cerchio come ciclicità del tempo induce ad infinite
riflessioni (ciclo infinito delle vite e delle
reincarnazioni, mandala, orologio suddiviso come lo
zodiaco).
L’agricoltura permette alla conoscenza del tempo di
integrarsi nella dimensione del calendario suddividendo le
caratteristiche di ogni periodo come qualità energetiche:
alla primavera il risveglio, all’estate l’espandersi,
all’autunno il raccogliere, all’inverno la stasi.
L’energia del “tempo” imprime le sue qualità
caratteristiche alla materia come al carattere dell’individuo.
Il legame tra i cereali come base alimentare e l’astrologia è
stato un “processo storico” globalizzato dell’età neolitica.
L’astrologia orientale ha basato il suo sviluppo sulla
rappresentazione simbolico-numerica del calendario a
rappresentazione circolare – il Kanagi Garuma o “mezzo
manifesto dell’energia che crea” - ed ha trasposto il
medesimo calcolo in un’unità base – il quadrato dei nove
simboli - ripetuto 9 volte. Da questa origine “agricola”
dell’astrologia orientale deriva la predilezione in
macrobiotica per un’alimentazione orientata ad una base di
cereali variati. La macrobiotica raccoglie le conoscenze
“delle fasi dell’energia” in relazione agli alimenti e sostiene
un’alimentazione vegetariana, semplice ed armonica.
L’alimento vegetale è considerato “molto valido”, ricco di
ogni principio necessario ed infinitamente vario nelle sue
combinazioni.
La preferenza per l’alimentazione vegetariana rende
l’astrologia – orientale – orientata all’ecosostenibilità.
Ecologia come ecosostenibilità che un’alimentazione
eccessivamente basata sui derivati animali come “necessari
e dotati di pregio” non garantisce. Ecosostenibilità ed
armonia implicano la scelta vegetariana e considerazione
della vita degli animali, meno paura di pandemie ed anche
migliore salute.



ASTROLOGIA
(KI DELLE 9 STELLE)
Per lo zodiaco orientale l'anno 2007 è stato l’anno
del Cinghiale.
Il Cinghiale non è una costellazione, ma il nome di
un animale che foneticamente molto assomiglia - in
cinese “I”(cinghiale) - all'’attività agricola di letargo e di
immagazzinamento - “Irocuro” - del mese di dicembre.
Il Cinghiale corrisponde al segno zodiacale occidentale
del Capricorno ed è collegato al controllo della
temperatura corporea - meridiano di triplice focolare.
L'anno 2008 per lo zodiaco orientale è l'anno del Topo,
il cui nome in cinese “Ne” ricorda “Hitone”, seme e
radici. Il Topo corrisponde al segno dell'Acquario ed al
meridiano di vescica biliare.
I dodici segni astrologici rappresentano nello zodiaco
orientale l'influenza terrestre e non corrispondono a
costellazioni celesti.
Le dodici influenze terrestri erano in origine associate
ai dodici stadi di crescita e decadenza del ciclo annuale
dei cereali: seme e radici, assorbimento dell’acqua,
apertura, nascita, crescita, frutti, frutti maturi, frutti
colorati, raccolto, scelta del raccolto, scelta di nuovi semi,
letargo. I dodici nomi degli animali in qualche modo
foneticamente simili ai nomi agricoli più antichi vennero
introdotti circa 3000 anni fa con il diffondersi
dell'addomesticamento degli animali.

Segni Zodiacali Meridiani
Topo Acquario cistifellea
Vacca Pesci fegato
Tigre Ariete polmoni
Coniglio Toro intestino crasso
Drago Gemelli stomaco
Serpente Cancro milza
Cavallo Leone cuore
Pecora Vergine intestino tenue
Scimmia Bilancia vescica
Gallo Scorpione reni
Cane Sagittario costrittore cuore
Cinghiale Capricorno triplice focolare
Il ciclo dei 12 anni corrisponde alla rivoluzione del
pianeta Giove, ed al ciclo delle macchie solari, ed i segni
dello zodiaco divengono “anno del Cinghiale” (2007),
“anno del Topo” (2008), “anno della Vacca” (2009),
“anno della Tigre” (2010).
Le dodici caratteristiche si ripetono ciclicamente e vanno
associate le caratteristiche del mese a quelle dell'anno.
L’energia dell’anno è come una casa che ci ospita e ci
influenza profondamente. L’energia del mese è una
variazione che dipende dall’energia dell’anno.
Per l'astrologia orientale le dodici diramazioni
dell'energia terrestre creano solo le caratteristiche
fisiche, materiali e sociali , mentre le tendenze spirituali,
mentali ed emozionali sono create dalle 10 influenze
celesti che esprimono l'influenza del gene maschile.
Le influenze celesti seguono un ciclo di dieci anni e con
le dodici influenze terrestri creano 120 possibili
combinazioni. Il giorno è suddiviso in dodici ore doppie
ed i dodici segni zodiacali si collegano ai dodici organi
principali ed ai meridiani dell'energia.
Tuttavia la combinazione genera anche un flusso ciclico
di mutamento dell'energia con riferimento a 9 stelle al
polo nord che è detto “astrologia del Ki delle 9 Stelle”.
La progressione delle 9 fasi energetiche da un’attività
massima (9) ad una contrazione massima (1) ha uno stadio
intermedio (5), che rappresenta la condizione di
equilibrio.
La condizione di equilibrio corrisponde all'elemento Terra
neutro.
Gli elementi delle 10 influenze celesti yin e yang
(Legno YIN, Fuoco YIN, Terra YIN, Metallo YIN,
Acqua YIN / Legno YANG, Fuoco YANG, Terra YANG,
Metallo YANG, Acqua YANG), insieme alle dodici
influenze terrestri determinano la fase dell'energia.
L'astrologia del KI delle 9 Stelle rappresenta lo stadio
intermedio della progressione energetica tra una attività
massima ed una contrazione massima con il centro come
condizione di equilibrio (elemento Terra 5).
Yang
Yin
1 2 3 4 5
6 7
8 9
Il perfetto equilibrio dell’energia intermedia aveva
affascinato il matematico Gauss nello scoprire da bambino –
ma solo nel XIX secolo - la curva gaussiana sovrapponendo
i pollici delle mani aperte e contemplando la matematica
del 9 e non più decimale.
Intorno al perno della neutralità assoluta (e percepibile
come all’infinito finita) ruotano le 8 combinazioni di
Yin e Yang, che hanno proprie caratteristiche definite
in virtù dell’ ipotetico equilibrio dell’instabile elemento
Terra 5, centrale e neutro.
L'energia Terra 5 è assolutamente neutra, in equilibrio,
centrale (per la paradossalità della condizione all’infinito
dell’entropia, l’energia Terra 5 quando si polarizza assume
carica yang).
La rappresentazione dell’energia ruota intorno al centro
(casa Terra 5) nello spazio che è rappresentato dagli 8 punti
cardinali.
La rappresentazione delle tipologie dell’energia intorno
all’elemento assolutamente neutro in corrispondenza dei
punti cardinali è detta “Quadrato” (magico), “Ottagono”
(come nel mandala tibetano), “Kyu Sei Ki Gaku “ - Ki delle
nove stelle - per i giapponesi, “Luo Shu” per i cinesi o
“Mewas” per i tibetani, ed è basato sulla filosofia Taoista
delle 5 trasformazioni.
L’energia Yang (Metallo - padre) e Yin-Neutro (Terra -
madre) mescolandosi generano energie distinte: Legno,
Fuoco, Terra, Metallo ed Acqua, e le corrispondenti 9
tipologie:
1 Acqua Yin -Yang
2 Terra Neutro Yin
3 Legno (fegato), Yin Yang
4 Legno (vescica biliare) Yin Yin
5 Terra Neutro e Centrale
6 Metallo Yang Yang
7 Metallo Yang Yin
8 Terra Neutro Yang
9 Fuoco Yin
Ad ogni tipologia corrisponde una coppia di organi.
All’energia “Legno” – o Albero - corrisponde il meridiano
del fegato (energia Legno 3) ed il meridiano della vescica
biliare (energia Legno 4).
L'Astrologia Orientale KI delle 9 Stelle del Feng Shui si
sviluppa in Oriente dalle millenarie conoscenze di Cina,
Giappone, India e Tibet.
E' una conoscenza antichissima, molto precedente la
scrittura. In tempi moderni questo sapere si è diffuso in
Occidente in particolare con la Traduzione del “I Ching”,
uno dei “Libri dei Documenti” definito anche “libro
oracolare” (l’indicibile lavoro di traduzione di Richard
Wilhelm dal cinese all’inglese ebbe grande successo e
C.G. Jung scrisse la prefazione).
Quando “I Ching” è stato scritto non si è fatto mistero del
fatto che fosse molto più antico ed accanto alle parole
conserva il linguaggio dei Trigrammi, degli Esagrammi e
dei Numeri.
Il linguaggio degli esagrammi ha sempre un nucleo
simbolico e si fa risalire la sua origine al mito di un
leggendario savio (Fu Hi) che in tempi remoti scoprì le fasi
dell’energia.
Questo insieme di conoscenze è stato scritto 5600 anni fa
all'epoca e per volere dell'Imperatore Giallo, Huang Ti, ed
è detto “conoscenza della Scuola Imperiale”.
Come in una cosmogonia (Genesi, Poimandres) da
un’energia creatrice emerge il principio maschile, e quello
femminile, e mescolandosi generano.
L’Energia è Yang-maschile (linea continua -------) e
Yin- femminile (linea spezzata --- ---).
Per il movimento dell’energia (contro il paradosso
dell’entropia infinita dell’energia) Yang-maschile -------
-------
-------
si mescola con Yin-femminile ---- ----
---- ----
---- ----
ed origina trigrammi che ricevono due linee yang e
trigrammi che ricevono due linee yin.
La linea yang (luce) sale attraverso le linee yin (oscurità).
---- ---- Si ottiene l’energia legno yin.
---- ---- I trigrammi con due linee yin
---------
(oscurità) sono maschili.
---- ---- Si ottiene l’energia acqua,
---------- perfetto equilibrio tra yin e yang
---- ----
---------- Si ottiene l’energia terra yang
---- ----
---- ----
La linea yin (oscurità) sale attraverso le linee yang (luce).
---------- Si ottiene l’energia albero yin
---------- I trigrammi con due linee yang
--- ---
sono femminili.
---------- Si ottiene l’energia fuoco,
--- --- yin che appare yang
----------
--- --- Si ottiene l’energia metallo yang
----------
----------
I Trigrammi si uniscono in esagrammi dalle 64 possibilità
(I CHING, Il libro dei mutamenti) e sono anche rappresentati
come:
Metallo 6
padre
Terra 2
madre
Albero3
figlio maggiore
Albero 4
figlia maggiore
Acqua 1
figlio medio
Fuoco 9
figlia media
Terra 8
figlio minore
Metallo 7
figlia minore
Alla “fase” dell’energia Legno (o Albero) corrisponde la
stagione della primavera, il pianeta Giove, il colore verde, i
meridiani di fegato e vescica biliare, l’est, la pazienza, la
crescita continua, il sapore acido.
Alla “fase” energetica del Fuoco corrisponde la stagione
dell’estate, il mezzogiorno, l’elemento idrogeno, il colore
rosso, il pianeta Marte, i meridiani del cuore e dell’intestino
tenue, del triplice focolare, della circolazione, il clima caldo
(sud), il calore, il sapore amaro, il ridere, la chiarezza, il
fanatismo e la stravaganza.
Alla “fase” energetica della Terra corrisponde la stagione
intermedia del “doyo” - 9 giorni prima e dopo gli
equinozi ed i solstizi -, il pomeriggio, l’elemento carbonio,
il pianeta Saturno, i meridiani dello stomaco/milza-
pancreas, il colore giallo, il clima umido (centro), il sapore
dolce, la comprensione e la compassione.
Alla “fase” energetica del Metallo corrisponde la stagione
dell’autunno, l’elemento azoto, il pianeta Venere, il colore
bianco, il raccolto, la pienezza materiale, la tristezza, i
meridiani dei polmoni e dell’intestino crasso, il sapore
piccante, il clima secco (ovest).
Alla “fase” dell’energia Acqua corrisponde la stagione
dell’inverno, l’elemento cloro, il pianeta Mercurio, il clima
freddo (nord), il colore scuro, la paura (ed il coraggio), i
meridiani di reni/vescica, il sapore salato.
Le “fasi” dell’energia si susseguono armonicamente,
ciclicamente – il legno alimenta il fuoco, il fuoco scalda
la terra, la terra si concentra nel metallo, il metallo si
scioglie nell’acqua, l’acqua nutre il legno – o anche
disarmonicamente e velocemente nel ciclo di controllo o
distruzione – l’acqua spegne il fuoco , il fuoco fonde il
metallo, il metallo taglia il legno, il legno stringe la terra,
la terra ferma l’acqua.
Ciclo di controllo
L’energia Terra è rappresentata tra la “fase” Fuoco
(massima espansione) e la “fase” Metallo (tende alla
massima concentrazione materiale), ma la caratteristica di
equilibrio assolutamente neutro della “fase” Terra è di
essere sempre centrale.
L’energia percorre il suo ciclo mai uguale eppure all’infinito
ripetitivo.
Il momento dell’unione dell’energia Yang e Yin è dato
dal rompersi dell’equilibrio della fase della neutralità
assoluta (elemento centrale Terra 5 - neutro) che per
l’impossibilità di conservare all’infinito la condizione
entropica, si polarizza verso lo Yang.
Quando la fase dell’energia è in equilibrio, viene
rappresentata al centro - senza un trigramma -, perché non
potrebbe descriverla, ma che ne lascia intuire attraverso il
vuoto la sostanza che rappresenta, quello che deve essere
perché l’energia esista e quindi si manifesti.
L’energia per la propria assoluta neutralità ha le
caratteristiche dell’assoluto perfetto indescrivibile
equilibrio che l’uomo delega ad un “Sé” che lo ha creato
e del quale può solo percepisce il riflesso nella Natura e
nella realizzazione del suo “sé”.
Le “fasi energetiche” sono il mezzo per cui l’energia che
crea si manifesta, quando per l’impossibilità all’infinito
dell’assoluta entropia dell’energia – proprio per la
caratteristica dell’energia che è di fluire e quindi di
muoversi – l’equilibrio dell’assoluta neutralità si rompe e
l’energia Terra 5 si muove verso la “fase” neutro Yang-
positivo (dal centro verso nord est).
In altri termini la perfetta indescrivibile assoluta neutralità
della paradossale condizione di entropia all’infinito – come
per le rette parallele nella geometria non euclidea – si
scarica cedendo elettroni e spostandosi verso la polarità
positiva.
Il movimento dal neutro assoluto (centro, Terra 5 ) verso il
neutro positivo (nord est , Terra 8) per cessione dell’energia
– scarica – genera il movimento per il quale l’energia esiste,
essendo sua condizione mutare.
Alla fase dell’energia Terra 8, nord est, corrisponde la fine
dell’inverno ed è per questo che l’anno orientale si calcola
dal 4 febbraio.
massimo
equilibrio
minimo
4 3 2 1 9 8 7 6 5
4 3
Alla “fase”di massima espansione e di massima contrazione
è corrispondente un intermedio equilibrio dal quale
l’energia inizia il nuovo ciclo.
La polarità dell’energia in positivo, negativo e neutro,
e le sottili dinamiche sono in relazione alla conoscenza
di millenni passati incredibilmente moderne.
La direzione del flusso energetico varia nei solstizi
invertendosi da dicembre a giugno.
La progressione energetica è ascendente dal mese di
dicembre a giugno: Legno 3, Legno 4, Terra 5, Metallo 6,
Metallo 7, Terra 8, Fuoco 9, Acqua 1.
Da giugno a dicembre la progressione si inverte: Legno 3,
Terra 2, Acqua 1, Fuoco 9, Terra 8, Metallo 7, Metallo 6,
Terra 5, Albero 4.

IL QUADRATO MAGICO
Il quadrato “magico” o “quadrato dei nove numeri”
considera 5 distinte tipologie energetiche:
legno verde fegato
fuoco rosso cuore
terra giallo stomaco
metallo bianco polmoni
acqua scuro reni
I 5 elementi trasformandosi determinano le 9 “fasi “
dell’energia (Acqua 1, Terra 2, Albero 3, Albero 4, Terra 5,
Metallo 6, Metallo 7, Terra 8, Fuoco 9) nel ciclo di nove
anni.
La rappresentazione del “Luo Shu” è detta “quadrato
magico” anche perché la somma di ogni riga orizzontale,
verticale o diagonale da sempre il risultato 15.


Maggiori dettagli http://www.lulu.com/content/2383180

mercoledì 27 agosto 2008

Come un sasso nel sottobosco

Estratti dall'opera: Come un sasso nel sottobosco
di Fabio Santangelo


SENSAZIONE DI ESISTENZA

Fogliolina appena nata
tremolante nella notte,
scossa
da un alito di vento:
com’è fragile
la nostra
vita.

ODE AL DOLORE

Il cielo versava
le sue lacrime
ma io non lo capivo.
Ora che io piovo
lui è tornato azzurro.
E mi ritrovo
solo
a camminare
su di una stradaccia
male lastricata,
lungo un muro
consunto
dalle offese
del tempo.
A volte
vorrei buttarlo giù
per vedere
se dall’altra parte
il cielo, come i miei occhi,
piove,
ma poi ho pietà di lui
perché è un po’
come me.
Forse anche
questo muro
ha pietà di me,
e, se potesse parlare,
forse mi direbbe
cosa c’è dall’altra parte;
forse mi direbbe:
“Buttami giù
purché tu stia meglio”.
Ma non lo farò.
Continuerò a camminare
lungo quel muro
finché non troverò
un varco
che mi mostri
cosa c’è al di là,
anche se, ormai,
m’interessa poco.
Ed in questo tempo,
aiutato dalla poesia,
non mi resta che
piluccare la vita.

SOLITUDINE

Spazio immenso
di cielo oscuro
nel cuore.

A POETARE

Lasciatemi
come un sasso
nel sottobosco.

FOLLIA

Scie
di luce
nella notte
d’una città:
missili
col potere
di distruggere
l’uomo,
ma
non la sua
follia.

VENERE

Venere
che sorgi
dall’acque
del mare…
il vento
carezzandoti
scolpisce le tue vesti
sul tuo bel corpo
che sa
di orizzonte,
ed il cielo
ti fa da
sfondo,
contornando
i tuoi fianchi
di alba.
Un sorriso
di perle
si apre
sulla tua
bocca
di fuoco
e cielo…
di quel cielo
che troneggia
dietro di te,
passando dal
rosso al blu
con mille sfumature
d’amore…
… del mio
per te.

RIDI PAGLIACCIO

Ridi pagliaccio,
sulle disgrazie
di poveri derelitti
che pagano
per vedere
la tua faccia
ipocrita.
Ridi pagliaccio,
in un mondo
che non vede
che pianto,
o che ride
d’ironia.
Ridi pagliaccio,
sotto un cielo
che piove
di sangue
e di bombe.

E io mi astengo
dal ridere
perché vedo
cosa ho intorno
e prego…
… prego che
arrivi il giorno
in cui Dio libererà
le anime redente
da quest’inferno terrestre.
E chissà
che non ci sia
anche tu…

INFINITO

In una notte
insonne,
tendo l’orecchio
al nulla
e ascolto
il rumore
del silenzio…

Infinito…


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http://fabiosantangelo.blogspot.com

martedì 29 luglio 2008

La trisavola

I racconti di Lalla


Lalla ha un blog personale
http://falilulela.blogspot.com/




La trisavola

Era una svagata ragazza, vissuta tra i salotti, un po’ demodé, della Napoli dei nobili. Le avevano insegnato a ricamare su tele impalpabili di batista bianco, ricami preziosi, punti infinitamente piccoli e precisi. Poi, mentre ricamava, le avevano insegnato il francese, ma solo quello necessario per servire un tè - tra un comment ça va? e un aujourd’ hui il fait froid - in modo impeccabile: la teiera riscaldata a dovere, l’acqua che non doveva prendere bollore, i tovagliolini inamidati con cura, il piattino con il limone tagliato a fettine, il bricco del latte, lo zucchero in zollette. Poi le avevano insegnato a fare l’inchino, a tacere al momento giusto (cioè quasi sempre), a dare ordini alla servitù, a accordare i cappelli con gli abiti, a scegliersi un corredo, a dire le preghiere. L’avevano educata a dovere: ora zia Fefè la riteneva pronta per il matrimonio.Aveva diciassette anni Elena, e, nell’ultimo inverno, una costipazione ostinata non le aveva dato tregua. A nulla erano serviti gli impacchi bollenti di semi di lino sul torace, a poco lo sciroppo del medico di corte, a qualcosa le preghiere di zia Fefè a san Gennaro. Ma quando il medico aveva parlato di infiammazione polmonare, in famiglia si era pensato di mandarla in Abruzzo, nel paesino tra le montagne dove viveva la sorella di zia Fefè. L’aria, lassù alle pendici del Gran Sasso, era buona e il latte fresco e il formaggio di giornata, uniti alle cure di zia Lietta, l’avrebbero rimessa in sesto.Così, anche se a malincuore, zia Fefè, essendo la nipote orfana di entrambi i genitori, dovette prendere una decisione che, sollecitata dal medico, fu quella di lasciarla partire. La carrozza di famiglia l’accolse nel suo guscio nero, foderato di seta, il baule dalle borchie d’argento venne sistemato a dovere e le cappelliere rotonde invasero il poco spazio rimasto libero. Durante il viaggio occhieggiò, curiosa, dal finestrino alla sua destra. Si era lasciata il mare alle spalle e l’aria pregna di salmastro, ora, profumava di terra e di fieno; filari di vigneti si rincorrevano sulle colline che ondulavano il paesaggio. Campi di grano macchiati di fiordalisi si alternavano a prati gialli di ranuncoli. Il paesaggio si andava inasprendo. Qualche cane da pastore si avventava sulla carrozza abbandonando il gregge che, in larghe chiazze lanose, si spandeva sul prato. Poi, verso sera, mentre le prime ombre si allungavano oblique e le montagne in lontananza ringhiavano, dentate, alla notte, la carrozza imboccò la strada d’accesso al paesino e, dopo pochi minuti, il cocchiere, giunto in una piazzetta delimitata da una chiesa e alcuni palazzi, arrestò i cavalli.Elena scese.Nel piazzale alcune contadine si voltarono a guardarla stupite, impressionate dall’abito che portava, dalla sua bellezza e dai bagagli che il cocchiere stava scaricando. Nei loro occhi brillava la stessa ammirazione che erano solite riservare alla beata Vergine Maria quando veniva portata in processione per le strade del paese, scintillante di ex voto e di divine aureole. Elena, mentre il buio calava sul paese, imboccò, in fretta, il portone che un domestico stava tenendo aperto. Salite le scale, entrò nell’atrio affondando, pochi minuti dopo, tra le procaci forme, ricoperte da trine e merletti, di zia Lietta.“ Lazzare’, ‘a canto si’ bbella “ le ripeteva la zia, continuando ad abbracciarla e a rivolgerle complimenti fino a quando, sottrattasi finalmente alle effusioni dell’anziana signora, Elena, bevuto un brodo ristretto di colombo per rifocillarsi, scivolò tra lenzuola di lino che sapevano di bucato steso al sole e di lavanda, addormentandosi di un sonno pesante come quello di un bambino.
Il mattino successivo, svegliata dal chiarore lattiginoso che filtrava dalle fessure delle imposte, si affacciò alla finestra per ammirare le montagne irte di cime, pietraie e ispidi boschi che il primo sole del mattino strappava alla notte. Nella piazza sottostante, alcune contadine nerovestite si dirigevano verso la chiesa, i fazzoletti calati sulla fronte a nascondere i volti, scuri di sole e di fatica. Elena, le bianche braccia sul davanzale, le osservava curiosa, mentre la camicia le scivolava da una spalla, scoprendo per un attimo il candore della sua pelle. Così lui la vide e così l’avrebbe ricordata per sempre: sul volto, chiaro tra gli scuri boccoli arruffati, tracce di sonno e d’infanzia. Tra i pizzi della camicia, un accenno di seno e bianche braccia di donna. Con un misurato gesto di cavalleria, l’uomo si tolse il cappello accennando un inchino prima di salire sul calesse, che lo attendeva davanti al portone, e partire, a tutta velocità, frustando il cavallo. La corteggiarono tutti i notabili del paese, dal farmacista al dottore, ma l’ebbe lui, così come, fino a quel momento, aveva avuto tutto ciò che aveva desiderato. Zia Fefè tentò invano di indurla a non sposarlo: le disse che avrebbe potuto esserle padre, che era tronfio, arrogante, un ricco nobilastro di paese abituato a cacciare con i contadini e a giocare a dadi con amici simili a lui. Tentò di spiegarle che il matrimonio sarebbe stato per sempre, fin che morte non vi divida, che avrebbe dovuto vivere in quello sperduto paese dove l’aria, anche se pura e frizzante, sapeva di sterco di vacca e le contadine non parlavano nemmeno l’italiano.Fu tutto inutile.Al matrimonio zia Fefè pianse, e non come tutti pensarono di commozione, pianse ininterrottamente, ricordando le parole della cartomante, pronunciate dopo la nascita di Elena: “Sarà bella ‘sta puppella avrà gli occhi di una stella, ma un destino ingrato avrà se tra i monti lei andrà”.In uno scampanio a festa, vestita di pizzo bianco, i capelli sciolti sulle spalle cosparsi di mughetti freschi, Elena salì all’altare al braccio di Ottone, impeccabilmente vestito da un sarto di corte. Poi, per tutto il giorno la piazzetta rimbombò di musica e canti che dalle finestre spalancate del palazzotto si riversarono sulle case e le strade del paese, mentre nel cortile arrostivano, per gli abitanti del paese, i maialini da latte e i capretti allo spiedo. Alla sera, gonfi di cibo e di vino, gli invitati, come una lenta, inarrestabile fiumana abbandonarono la casa, lasciandosi alle spalle tavolate ingombre di avanzi di cibo, tovaglie macchiate e la servitù che, mangiando nelle cucine gli avanzi, ridacchiava scambiandosi scurrilità su quanto stava avvenendo ai piani superiori della casa.Ottone aveva bevuto troppo e, quando Elena uscì dal bagno, pallida come la camicia che indossava e che la faceva sembrare più un’educanda che una sposa alla sua prima notte di nozze, si addormentò sulla sua spalla, la bocca ingorda schiacciata sul suo seno. Si rifece il mattino seguente e, quando uscì dalla camera nuziale, rinchiusa a chiave la porta alle sue spalle, vi imprigionò la sua giovanissima moglie e i suoi primi singhiozzi.Dieci mesi dopo nacque una bambina: pallida, smunta come un fiore di serra. Ottone le dette un’occhiata distratta e, deluso, andò a festeggiare con gli amici. Ci vollero quattro anni e altre due figlie femmine perché l’agognato figlio maschio vedesse la luce.E allora, di nuovo, non si badò a spese. Alla festa per il battesimo venne invitato tutto il paese. Arrivò da Napoli anche zia Fefè con la carrozza piena di regali per la nipote e i nipotini. Ma Elena le sembrò subito strana, quasi sfuggente, i grandi occhi cerchiati da ombre scure, la bocca serrata su segreti inconfessabili. Nelle cucine, ai piani bassi, la servitù era al lavoro. L’abito indossato dalla nipote per il battesimo era un tripudio di pizzi e sete colore del mare. Il cappello, dello stesso colore dell’abito faceva risaltare il profilo deciso, il collo lungo e morbido dal quale pendeva un rubino color cremisi che, a ogni movimento, mandava riflessi sanguigni.Zia Fefè non perdeva d’occhio, nemmeno per un istante, la nipote. La spiava cercando di carpirne i pensieri dall’espressione del volto, ma gli occhi di Elena la sfuggivano, le palpebre che si abbassavano fremendo, come se un raggio di sole le avesse colpite, infastidendola.Elena accoglieva, con l’ abituale grazia, gli invitati, affiancata dalla fida Miuccia che teneva il bambino addormentato tra le braccia, esibendolo come un trofeo davanti agli occhi degli ospiti.
Ottone al suo fianco - l’immancabile sigaro tra le labbra e l’orologio a cipolla, appeso alla catena, che ondeggiava sul panciotto di seta che cominciava a tirare sullo stomaco - faceva il baciamano alle signore, controllando la situazione come il capitano di una nave sul cassero.Poco dopo, dando il braccio alla moglie, precedette gli ospiti nel salone delle feste.La lunga tavola imbandita riluceva di cristalli di Boemia e porcellane di Capodimonte. Su ogni piatto un fiore e un insetto diverso facevano a gara con gli intarsi in pizzo della tovaglia, ispirati anch’essi a fiori e insetti. Dal soffitto a botte, schiere di cherubini paffuti sembravano osservare, maliziosi, la folla degli invitati.Ottone cominciò a brindare alla nascita del figlio maschio già all’arrivo degli antipasti. Il caldo entrava dalle finestre arrossando, insieme alle libagioni e alla interminabile serie delle portate, le guance delle signore e il naso degli uomini presenti. Un cicaleccio senza sosta si alzava dalla tavola imbandita. Gli uomini si allentavano il collo della camicia, e, di nascosto, qualche bottone del gilé. Le donne al loro fianco agitavano i ventagli e mangiavano, spettegolando su quella creatura così diversa da loro, così svagata, e giovane, e bella di una bellezza che, ora, dopo la nascita dei figli, si era fatta più piena, matura rendendola ancora più femminile. Ma dove stava tutto il giorno la bellissima moglie del conte? Le domestiche, interrogate, erano state piuttosto reticenti e nel paese nessuno l’aveva mai vista percorrere una delle strade del borgo, nemmeno accompagnata dal marito o dalle domestiche. Inoltre, aveva sempre declinato ogni invito adducendo scuse risibili: i bambini, l’emicrania, i disturbi della gravidanza. Nemmeno alle finestre di casa era mai stata vista affacciarsi, anche se c’era chi giurava che, il giorno in cui l’aveva fatto, un colpo di fucile, sparato dal marito, l’avesse colpita di striscio a una spalla, là dove, ora, una camelia bianca adornava la scollatura dell’abito che indossava.Elena cercava di trattenere il marito dal bere ulteriormente e più di una volta lo guardò supplice notando che le sue guance, rese un po’ flosce da un’incipiente pinguedine, si facevano sempre più arrossate, quasi violacee, nella sera che, accese le candele, vestiva d’ombre minacciose le stanze.Lui si alzò, invitandola a ballare.Lei si negò, la malinconia che dilagava, incontenibile, negli occhi scuri.Lui ripetè il suo invito, con voce ubriaca di vino e di rabbia.Lei non si alzò, rimase immobile, rimase immobile anche quando lui si portò le mani al petto, quasi volesse strapparsi il cuore con le dita artigliate al panciotto.Poi fu tutto un accorrere e correre di invitati e domestici…Quando arrivò il medico, Ottone, adagiato sul sofà del salotto, non respirava quasi più, e così rimase, paralizzato dalla vita in giù, muto, un occhio chiuso per non vedere e uno aperto per non dimenticare. Elena, silenziosa, la mantellina di velluto color cremisi appoggiata sulle spalle, esce alla solita ora dal portone di casa, spingendo la carrozzella del marito. Sul sagrato della chiesa, alcune beghine la salutano, ossequiose.Mentre il giorno muore silenzioso, il sole tramonta davanti a lei, oltre il bosco di faggi che canta nel vento.

lunedì 16 giugno 2008

Le faremo sapere


Estratto dall'opera " Le Faremo Sapere "
Guida semiseria al mondo del Lavoro
di Massimo Famularo

Il concorso pubblico
"Uno su mille ce la fa"
(Gianni Morandi)
Dalle Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno c’è chi arriva in aereo e chi arriva col treno. Comune di Canicattì, concorso per titoli ed esami a Sturacessi presso l’ufficio affari culinari della regione Sicilia, posti 12 concorrenti 12,000 (non provate a chiedere cosa se ne fa l’ufficio affari culinari di dodici sturacessi: se diceste che credete ancora che un dipendente pubblico debba servire a qualcosa per percepire uno stipendio non vi credereb-be nessuno). Regione Toscana,
n. 7 uscieri per l’ente pubblico tal dei tali (qualora osaste sostenere che un ente pubblico dovrebbe avere, almeno pro forma, un nome e una qualche fan-tomatica funzione vale quanto detto in precedenza), concorren-ti 620,000. Regione Lombardia, numero 3 (eh sì più vai su più diventano taccagni) posti da parcheggiatore, concorso per titoli, esami, prove fisiche, chimiche, psichiche e spirituali, concorrenti 2,5 milioni.
Pochi altri rituali di massa hanno la dimensione epica e la portata biblica dei concorsi pubblici.
E’ come un raptus, forse una tara ereditaria le cui origini vanno ricercate nel DNA: mettete a concorso un posto da bidello a Sant’Angelo dei Lombardi e arriveranno domande dalle principali capitali del mondo, ma-gari dai figli degli emigrati che hanno decine di master titoli e contro titoli e magari guadagnano pure bene, ma al fascino del posto pubblico, che nessuno ti toglierà mai e dove nessuno con-trollerà se, come e quanto lavori, non si resiste. E’ un po’ come alla lotteria di capodanno o al superenalotto: si sa che non vince nessuno (il saggio dice: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un concorrente vinca un concorso pubbli-co), ma alla fine ci provano tutti.
Siamo quindi un popolo di santi, navigatori e concorrenti pubblici e quando il fatidico giorno alla fine giunge è impossibi-le non accorgersene. I treni lungo le dorsali principali straripano di disgraziati stipati come bestiame, le stazioni ferroviarie sono anche più incasinate del solito (ma c’è chi sostiene la fisica im-possibilità di un fenomeno del genere), i mezzi pubblici della città bersaglio soccombono e torme di candidati si riversano per le strade intasando definitivamente il traffico. Certo, quando una città è sede ricorrente di numerosi concorsi pubblici non può fare a meno di attrezzarsi. Roma, per esempio, ha scelto il modello Calcutta-bombay: è un casino incredibile tutti i giorni dell’anno, così quando arriva l’invasione dei candidati nessuno si accorge della differenza: geniale no?
Comunque sia, l’atmosfera rimane quella delle grandi espe-rienze collettive: anche i crociati e gli ebrei al passaggio del mar rosso hanno provato qualcosa di simile, sebbene ci sia da credere che avessero delle prospettive meno incerte. C’è chi ripassa fino all’ultimo momento, chi ostenta noncuranza e chi se ne frega altamente perché al concorso c’è venuto veramente per sport. Poi c’è il fenomeno dalla propagazione collettiva dell’ansia che tanto lavoro ha procurato ai gastroenterologi. In premessa tutti si dichiarano scarsamente preparati (precauzione preventiva in modo da poter poi dire, in caso vada male, che era stato solo un tentativo) salvo poi sciorinare anche i particolari più assurdi appena interpellati su un argomento specifico. Mo-rale della favola a ognuno sembra che gli altri siano molto più preparati. Aggiungete un po’ di naturale tensione preliminare ed ecco che un po’ come prima di tutti gli esami si finisce per af-follare i gabinetti in preda a sommovimenti intestinali, sfoderare santini, amuleti e chincaglierie scaramantiche.
Esemplari di varia umanità sfilano alla fiera del posto che forse (non) c’è con lo sguardo che oscilla tra la rassegnazione di chi pensa che i giochi sono fatti prima di partire e il barlume di
speranza che sintetizza quella giusta dose di illusione che ci con-sente di sopravvivere.
Ai concorsi pubblici sono nati grandi amori e amicizie di una vita, si tratta di un’istituzione
fondamentale su cui si è sviluppata e consolidata la nostra identità nazionale.
La libera professione
"E i colleghi d’accordo i colleghi contenti/ nel leggermi in cuore tanta voglia d’amare/mi spedirono il meglio dei loro clienti/ con la diagnosi in faccia e per tutti era uguale/ammalato di fame, incapace a pagare"
(Fabrizio De Andrè)
Partiamo da un assunto fondamentale: il libero professionista non esiste. Intendiamoci, ci sono sempre un gatto e una volpe pronti a dipingere scenari meravigliosi propagandando gestione discrezionale del proprio tempo, guadagni crescenti nel tempo, assenza di gerarchie e autodeterminazione etc. Purtroppo poi arriva il momento in cui ti accorgi che Babbo Natale e la Befana non esistono: il libero professionista (insieme all’imprenditore, suo parente stretto) è uno che per non lavorare otto ore al giorno per conto di qualcun altro ne lavora dodici per conto
proprio. Se credi che il cartellino che non devi timbrare significhi che puoi fare colazione con calma, ti stai illudendo: in genere quando riesci a indugiare al mattino è perché hai dormito al
lavoro.
Quest’aspetto è matematicamente analizzato dallo studioso Australiano Amorfi (cugino alla lontana di quello delle leggi) il quale ha elaborato il seguente:
Primo Teorema sull’orario di lavoro nelle professioni libere:
*posto che al ritardo nell’orario di ingresso esiste un limite finito [prima o poi devi iniziare],
*mentre non esiste un limite a quello di uscita,
*la durata del lavoro tende all’infinito.
Un importante corollario recita che il professionista quando è libero è solo un disoccupato che non sa ancora di esserlo. In effetti a partire dagli inizi, in cui bisogna farsi il culo per affermarsi, fino a quando non si può smettere di lavorare perché i risparmi e l’ipotetica pensione non bastano a sopravvivere, libero è decisamente il meno indicato degli aggettivi.
Esistono svariati modi per avere successo nella libera profes-sione: si può ereditare uno studio avviato, sposarne il titolare o il figlio del titolare, sfruttare amicizie politiche o malavitose oppure (ma qui è necessaria una certa prestanza fisica) concedersi carnalmente a un elevato numero di persone tra clienti, altri professionisti, politici etc. A dispetto della parità dei sessi pare che le donne incontrino minore difficoltà nel mettere in pratica l’ultima tecnica. Intendiamoci, esistono anche casi di giovani capaci e intraprendenti che si sono affermati con le proprie sole forze, tuttavia non verranno considerati in questa trattazione perché, insieme ai rapimenti degli ufo e certi tipi di miracoli rientrano tra quei fenomeni su cui la scienza ufficiale preferisce non pronunciarsi.
Assodato che il professionista non è libero e che si afferma ereditando reputazione e clienti o acquistandoli nei modi sud-detti possiamo esaminarne il percorso dall’inizio: il praticantato.
Che sia espressamente prescritto dalla legge o meno, infatti, prima di potere esercitare devi acquisire le necessarie compe-tenze. A meno che tu non abbia santi in paradiso (A.M.C.T.N.A.S.I.N.P. clausola discriminante fondamentale in qualsiasi ambito del variegato mondo del lavoro) questa condi-zione costituisce una tra le peggiori in cui un essere umano
possa trovarsi paragonabile solo, forse, a quella dello stagista (sem-pre che, a seconda dei gusti, non ci si trovi in una posizione come quella della sig.na Monica Lewinsky…). Il praticante in genere, almeno all’inizio lavora gratis et amore Deo e le sue mansioni possono essere sinteticamente riassunte nel concetto: tutto quello che gli altri occupanti dello studio non vogliono fare segretarie, commessi e addetti alle pulizie compresi.
Mentre la televisione continua a mostrare mendacemente le gesta di giovani avvocati in carriera e di medici in prima linea tu sei sommerso e letteralmente fagocitato dalle incombenze più pallose, pesanti e soprattutto dal contenuto formativo pari a ze-o. Sulle prime ti prende lo sconforto perché realizzi che oltre a romperti non impari nulla e che il tempo e le energie che impie-ghi non ti sembrano più fruttuosi di quelli dedicati ai cruciverba o alle letture sulla tazza del cesso. Poi qualcuno ti dice è solo l’inizio e che si tratta di investire su se stessi per un po’ e che poi verrà il bello. Carico di tutta l’ingenuità del neofita tu natu-ralmente gli credi.
Come se non bastasse il tenore fantozziano degli esordi nell’apprendistato, ci sono poi inevitabilmente gli esami di stato per essere iscritti all’albo e/o ottenere l’abilitazione all’esercizio. In qualche caso può trattarsi di una mera formalità o di un semplice coronamento del corso di studi (quando evidentemen-te la selezione è stata fatta in precedenza, come per esempio all’università: mai dato uno sguardo alle percentuali di abban-dono o ai corsi di studio a numero chiuso?) in altri di un filtro estremamente efficace per mantenere la tenuta stagna delle ca-ste professionali. Per superare gli esami di iscrizione all’albo/abilitazione etc. valgono le stesse regole enunciate in precedenza (eredità, etc.).
Dopo questa fase in genere arriva il primo esame di coscien-za: gli anni passano e pur essendo la strada sempre rovinosamente in salita la crescita professionale è piatta come l’elettroencefalogramma di un parlamentare in piena attività. Anche dopo aver varcato la soglia da aspirante a vero e proprio professionista rimani una sorta di "dipendente del titolare di studio" e quando guardi a un passato ormai quasi decennale ti viene da pensare: -come dipendente almeno mi sarei ritrovato i contributi previdenziali.
Che dire? Hai la pratica e i titoli: potresti sempre metterti in proprio, magari in associazione con qualche altro giovane. In fondo nulla ti vieta di confidare nella possibilità di riuscire, ognuno è libero di credere quello che vuole. Per maggiori dettagli su questo tema puoi rivolgerti alla fata turchina.

lunedì 12 maggio 2008

Il giardino dei Tarocchi

La prima carta


Prologo del romanzo “Il giardino dei Tarocchi” di Luigi Agostini


Montarcano era un paesino sperduto nella splendida mac-chia mediterranea delle colline livornesi. Una sola strada in sa-lita lo attraversava, sin dai tempi che videro il passaggio delle prime legioni romane. Fecero sosta nella fattoria di Velia prima di raggiungere Volterra ed ovviamente sterminarono quasi tutti gli etruschi che vi abitavano. La posizione isolata dal resto del mondo e chissà quali altre recondite motivazioni, fecero sì che nei secoli successivi soltanto una manciata di case ed una piccola chiesa formassero il centro abitato. Nei primi anni del ventune-simo secolo, soltanto cinque persone vivevano a Montarcano ed incredibilmente portavano tutte cognomi diversi. Anche Velia ed Andrea, che vivevano insieme da sempre ma non si erano mai voluti sposare. Forse soltanto per indispettire Don Michele.
Quando Velia aprì le persiane, quella mattina maledetta, una luce accecante colpì le sue pupille ancora assonnate. Il flash proveniva dalla strada, quella che porta al bosco. Si stropicciò le palpebre usando gli indici, con forza, come per cancellare quei riflessi che continuava a vedere anche ad occhi chiusi. Mante-nendole a stretto contatto con il viso, distese le sue mani callose segnate dalla campagna e dagli inverni. Come vele spiegate, i palmi aperti scesero piano lungo le guance, stirando i lineamenti ancora piacenti, testimoni degli antichi fasti di una sfiorita bel-lezza. Inspirò profondamente l’aria frizzante della campagna d’inverno. Chiuse i lembi della vestaglia sul suo petto, per proteg-gersi dal freddo. Riparando il viso con il dorso della mano alzata, tornò ad affacciarsi sapendo già che avrebbe visto l’acciottolato di cui conosceva ogni singola pietra, la casa gialla di Giuliano

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con i muri ricoperti d’edera rampicante, la lunga fila di porte di legno, adesso sprangate, dove lei bussava per poi scappare via da bambina; per giocare con gli abitanti di allora, di cui ormai non ricordava più né il nome né i lineamenti.
Invece vide un uomo che camminava. Lentamente, a testa bassa, affrontava svogliato la piccola salita con un grosso zaino sulle spalle. Le fibbie dello zaino riflettevano la luce del sole, lanciando lampi improvvisi ritmati dal passo incerto dello stra-niero. Portava un vistoso cappello bianco di paglia, stile Panama, di certo non adatto alle temperature rigide di Montarcano in quel periodo dell’anno, un giaccone di velluto verde come i pantalo-ni ed un paio di stivali militari. Velia non riusciva a capire, da quella parte c’era soltanto il bosco e non si poteva accedere a quella strada con la macchina. Da dove saltava fuori quel tipo che, oltretutto, aveva qualcosa di familiare nel suo aspetto?
Tornò in cucina - doveva preparare la colazione per lei ed il marito - pensando che forse lo straniero aveva usato una moto od era stato accompagnato lì da qualcuno. Ma perché, cosa lo portava in quell’angolo sperduto del mondo? Non si vedevano mai né cacciatori né escursionisti. Forse era uno degli ex abitanti di Montarcano od un loro parente? Il gorgoglio amichevole del caffè che si arrampicava nella moka la distolse dalle sue specu-lazioni. L’amore della sua vita il caffellatte lo voleva bollente, non aveva tempo da perdere... Intendiamoci, Andrea era un uomo dolcissimo, comprensivo, e non gli avrebbe mai fatto una osservazione per una sciocchezza simile, ma proprio per questo lei amava ricoprirlo di attenzioni.
«Novità?» gli chiese il marito ironicamente, come tutte le mattine. Andrea, accomodato su due cuscini, attendeva che la moglie gli portasse il caffellatte a letto. Era sempre stato un bell’uomo ed anche adesso che era completamente calvo i suoi lineamenti marcati, maschili ma allo stesso tempo piacevoli e sottolineati da pochissime rughe, lo aiutavano a dimostrare la metà degli anni che portava. Come sempre Velia si sedette vicino a lui, porgendogli la tazza.
«Non ci crederai, ma stamani...» Si azzittirono di colpo
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volgendo lo sguardo verso la porta. Qualcuno, di sotto, stava suonando il loro campanello.
Nina amava restare a letto ancora un poco quando si sve-gliava. Ogni mattina dedicava una decina di minuti ai suoi sogni, alle sue fantasie più segrete. Il caldo tepore delle coperte, la sensualità del suo corpo ancora prorompente, la facevano sentire viva, vogliosa ed insoddisfatta. In particolare quella mattina, nella quale il suo ciclo ormonale era al culmine, si era abbandonata nel dormiveglia tra le mani di Giuliano che le cingevano i fianchi mentre lei lo cavalcava selvaggiamente. Sognava che lui, con un sorriso ambiguo, le stesse aprendo dolcemente le natiche sode. Che improvvisamente lei sentisse un membro turgido premerle con forza e dolcezza contro lo sfintere, cedevole e dolente. Una vampa di fuoco le bruciò il basso ventre quando, voltandosi, si rese conto che Don Michele la stava sodomizzando. Era piena dei suoi due amanti, donna, amante e puttana allo stesso tempo, finalmente felice...
Si stava carezzando la natura con entrambe le mani quando sentì quell’odore. Di muffa mista a sangue. Di sudore e di escre-menti. Di bestia. Si mise su un fianco, disturbata, ma incapace d’interrompere la masturbazione proprio sul più bello. Improv-visamente avvertì una presenza alle sue spalle, nel letto, la sua pelle le parlava di carne calda e rugosa, peli ed unghie ed il suo cervello le gridava che era tutto vero, ma i sensi la reclamavano nel sogno. Si sentì penetrare brutalmente, provando un misto di dolore e piacere devastante. Si fece coraggio e guardò alle sue spalle. L’immagine durò un solo istante perché la fece svegliare di colpo, definitivamente, preda di un terrore gelido, reale. Aveva visto - o sognato? - un caprone con delle corna ricurve, degli occhi incredibilmente umani e delle lunghe braccia pelose che terminavano in due mani adunche, artigliate.
Era seduta sul letto, ansimante, aveva degli irrefrenabili conati di vomito e dei sudori freddi. Dal comodino a fianco, ricoperto di pizzo bianco, abbrancò la brocca dell’acqua e bevve rovesciandosi addosso parte del contenuto. Nel poggiarla urtò
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la abat-jour di cristallo che cadde a terra andando in mille pezzi.
“Ecco ci mancava solo questo” pensò “devo spazzarci subito...”
Si alzò dal letto, ed una volta in piedi, avrebbe voluto gridare, morire, scomparire per sempre, sprofondare sottoterra. Fra le gambe sentiva colare, piano, qualcosa di caldo ed appiccicoso.
«Ciao Velia.» L’uomo con il cappello di paglia la guardava sorridendo amichevolmente. Lei si chiese dove aveva già visto quello sguardo assurdo, stranamente familiare ma al tempo stesso inquietante. Fissazioni di una sciocca superstiziosa avrebbe detto il marito. «Lo so che non ti ricordi di me, ma se mi fai entrare ti spiegherò tutto.»
Appoggiata allo stipite della grossa porta in legno Velia rispose automaticamente. «Lei chi è, perché sembra conoscermi?»
Lui tirò fuori dalla tasca interna del giaccone una vecchia carta ingiallita dal tempo e gliela mostrò; era il Matto dei Tarocchi.
Andrea vide sua moglie, di spalle, parlare con qualcuno sulla porta di casa. «Velia, chi è?» disse, scandendo le parole con un tono fermo e deciso che avrebbe scoraggiato, secondo lui, qualsiasi scocciatore importuno. Velia non gli rispose, si voltò tenendo la carta dei Tarocchi con entrambe le mani e si avviò come un automa verso la credenza del loro ingresso che fungeva anche da salotto. Urtò anche il tavolo in legno che campeggiava in mezzo alla stanza, come stordita. Andrea la osservava stupito. Lei allungò la mano per prendere un vecchio carillon che da sempre usava per conservare alcune gioie d’oro e d’argento. Era molto vecchio, in legno, con una struttura esterna in oro che rifiniva gli spigoli e la serratura. Rovesciò tutto il contenuto sul piano della credenza, con noncuranza, ed iniziò ad armeggiare con l’interno del carillon.
«Lei chi è? Che vuole?» Andrea si era avvicinato alla porta minaccioso, brandendo come arma improvvisata un trofeo che aveva vinto decenni prima ad un concorso di filatelia.
«Ciao Andrea. Vabbè che non ti sono mai stato simpatico,
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ma ti assicuro che quel trofeo non ti servirà, mettilo giù, con calma, eh?» Lo straniero era rimasto sulla porta, senza neanche affacciarsi sull’ingresso. Velia posò la mano destra sul braccio del marito per attirare la sua attenzione, senza dire una parola, ammutolita e sconcertata. Nella mano sinistra teneva due vecchie carte da gioco. Quando Andrea le vide, fu come se nella sua mente si fosse aperto uno squarcio, come se si stesse risvegliando da un lungo sonno. I ricordi, sotto forma d’immagini in rapida sequenza, avevano fatto breccia nella diga costruita con gli avvenimenti della sua recente esistenza. I paesaggi esotici dell’Asia Minore, la Scizia, la costa lungo il Mar Nero, poi il Volga e Kiev. La sede episcopale di Bisanzio, la realizzazione del suo sogno. Infine la sua morte, martirizzato per crocifissione a Patrasso, in Achea. Il dolore. Un dolore infinito. Con gli occhi gonfi di lacrime recitò: «Sono l’Angelo della Temperanza, eternamente alla ricerca dell’equilibrio, della moderazione, per non compiere errori di valutazione. Sono il Graal, la coppa che accoglie e versa l’acqua della vita e della conoscenza da un’esistenza all’altra. Sono un Arcano Maggiore.»
Velia prese le mani del marito nelle sue, con gran dolcezza, e gli rispose: «Sono la forza d’animo, la volontà, la sicurezza. Sono la donna con il cappello di Moebius, colei che indossa il manto rosso del coraggio e tiene aperte le fauci del leone. Sono l’undicesimo Arcano Maggiore, la Forza.»
«Io sono il Matto e non ho nessuna voglia di recitare la mia ode evocativa del cazzo, tanto la sapete a memoria... ora datevi un bel bacio e facciamola finita con questa pantomima che abbiamo poco tempo a disposizione!» Lo straniero era entrato in casa parlando, e buttato in un angolo il suo zaino si era servito un bicchiere d’acqua dal rubinetto dell’acquaio. Si muoveva nella stanza come se fosse di casa. Si lasciò cadere su una sedia visibilmente stanco.
Andrea e Velia si tenevano abbracciati, in piedi in mezzo alla stanza. Lei si riprese per prima: «Giacomo, sei proprio tu? ...cos’è successo? Perché ci troviamo qui?»
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Lo straniero si diede una manata sulla gamba destra prima di rispondere.
«Giusto, questo non potete ricordarlo. Dopo l’ultimo “giuoco”, avete chiesto al Mazziere di farvi vivere come esseri umani la vostra irresistibile storia d’amore...» il Matto si mise un dito in gola come se volesse stimolare il vomito, «...e lui ha incaricato me, come al solito per lavarsene le mani, di sistemare la faccenda. Io ho ficcato un paio di blocchi mentali nelle vostre zucche vuote ed ogni tanto sono passato di qua per assicurarmi che nessuno disturbasse i piccioncini.»
Andrea apostrofò il Matto in malo modo: «Cosa ci rende degni della tua presenza, del tuo interessamento proprio adesso, Giacomo Bauer?»
Il Matto non li guardava in faccia mentre si spiegava, sembrava molto più interessato alle evoluzioni di una mosca sul suo cappello, appeso alla spalliera di una delle sedie.
«Come sapete Montarcano è stato fondato dagli etruschi sul punto d’incrocio di due linee di Ley e questo fa del luogo un enorme collettore di energie, negative e positive. Un posto predestinato a qualcosa di grande, un evento inarrestabile che sta attraendo qui molti Arcani Maggiori proprio adesso, come una calamita attira il ferro. Non so il perché, ma non devo certo spiegarvi cosa succede quando la nostra allegra brigata si raduna da qualche parte...»
L’anziana coppia si era definitivamente ripresa mentre Giacomo raccontava. Adesso erano seduti dall’altra parte del tavolo, di fronte al vecchio amico.
«C’è qualcosa che possiamo fare per evitare i soliti casini?» chiese Velia con uno sguardo sfrontato e combattivo che contrastava con il suo aspetto quasi anziano.
«Sì, grazie. Sistemate le mie cose nella stanza del bamb... scusate, degli ospiti, starò con voi per un pò, se Andrea è d’accordo. Adesso devo andare ad avvertire la Papessa.»
Andrea tacque e chi tace acconsente. Il matto riprese la sua carta dalle mani di Velia ed uscì in strada senza aggiungere altro. Stavolta si dirigeva deciso e sicuro verso una ben
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precisa destinazione. Si fermò solo un momento per ammirare il panorama, ed un vecchio bastardino gli si affiancò scodinzolando. Il Matto lo guardò e disse: «Sì, lo so, ma non posso...»
Giuliano uscì di casa lasciando la porta aperta. Se ne rese conto dopo aver fatto pochi passi in direzione dell’orto e si voltò. Il cappellaccio in feltro che non lo abbandonava mai teneva in ombra i suoi occhi azzurri divisi dal grande naso aquilino per il quale si era sentito canzonare una vita intera. Il resto del viso era una sola grande, folta e disordinata barba grigia. Si strinse nelle spalle e riprese il suo cammino, lasciando tutto com’era. Al massimo sarebbe entrato qualche gatto che, se al ritorno fosse stato ancora lì, avrebbe potuto cucinare alla cacciatora, con un po’ d’olive. No, non per mangiarselo, ma per regalarlo a Don Michele spacciandolo per uno dei suoi conigli. Erano anni che i due passavano il tempo facendosi gli scherzi più elaborati che mente umana potesse mai concepire. Forse perché Giuliano e Michele erano gli unici due esseri umani rimasti a Montarcano, anche se non lo potevano neanche immaginare.
Don Michele, casualmente, si trovava proprio accanto al confessionale. Il suo aspetto rubicondo e le guance perennemente arrossate la dicevano lunga sul motivo per il quale era stato abbandonato dai suoi simili in quel luogo dimenticato anche dal Creatore. Stava spazzando la sua Chiesa. Uno dei compiti tradizionali della perpetua. Ma Don Michele voleva bene a Nina come a sua sorella, e gli perdonava sempre questo ed altro. Improvvisamente si rese conto che nel confessionale qualcuno stava piangendo. Entrò subito e si mise al suo posto chiedendosi chi, dei suoi quattro amici superstiti, sentisse il peso opprimente di una colpa a quell’ora del mattino.
«Mi perdoni Padre perché ho peccato.»
«Nina?! ...cioè, volevo dire, dimmi figliola, ti ascolto.»
«Michele, io... io non pensavo... e poi non può essere, io... ti prego perdonami sto impazzendo...”
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Quando lei si abbandonò ad un pianto straziante e convulso, il buon prete gettò alle ortiche convenzioni e regole senza pensarci su più di tanto. Scostò la tendina del confessionale e prese Nina fra le sue braccia, carezzandole la testa come si fa con i bambini.
«shhh, shhh... adesso calmati, ci sono qua io; non preoccuparti di niente, a tutto c’è rimedio, vedrai.»
Nina non riuscì a raccontare l’accaduto per filo e per segno a Don Michele, si vergognava troppo. Sintetizzò la storia sorvolando sui particolari piccanti ed abbondando invece nel descrivere il Diavolo che l’aveva violentata. Ovviamente il primo commento del padre fu ‘Nina la solitudine fa brutti scherzi, quando passerà il dottore domani ci parlerò io e ti farò prescrivere degli anti-depressivi...’ Allora lei gli raccontò dello sperma.
«Ho sentito parlare di possessioni diaboliche in cui l’indemoniata secerneva vari tipi di essudato. Vedrai che ti sei sbagliata, chissà che roba era...»
Passeggiando tranquillamente verso casa di lei, Don Michele fece quanto in suo potere per tranquillizzare la povera donna, convinto in cuor suo che la cosa migliore che avrebbe potuto fare sarebbe stata parlare con Giuliano. Quel vecchio orso doveva decidersi a sposarla e renderla felice una buona volta! Era sicuro che in questo modo gli incubi e le allucinazioni di Nina sarebbero scomparsi come per miracolo...
La lasciò sulla porta di casa con un bacio sulla fronte ed una lunga lista di preghiere che la poveretta avrebbe dovuto snocciolare durante il giorno per tenere lontano il demonio e le sue tentazioni.
Stava tornando in Chiesa quando accadde una cosa insolita per un paese semi-deserto come Montarcano. Stava per incrociare quattro persone che sembravano andare in gran fretta da qualche parte. Una delle persone era un prete come lui, gli altri tre invece erano dei gran brutti ceffi. Stavano chiaramente facendo finta di non vederlo. Michele gli rivolse la parola appena furono
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a portata di voce:
«Buongiorno, sono Don Michele, il parroco.»
«Buongiorno, sono padre Valentini, del Vescovado di Livorno. Lei non ci chiederà niente, ci lascerà passare e subito dopo dimenticherà di averci visti.»
Michele arrivò in Chiesa domandandosi se parlare con Giuliano sarebbe stato giusto anche nei suoi confronti o se spronandolo al matrimonio per il bene di Nina non avrebbe giocato un brutto tiro al suo amico. Si domandò anche cosa fosse quella cosa che si era dimenticato, come una presenza sfuggente, che non riusciva ad afferrare, un fatto importante che si era ugualmente scordato. La sensazione lo fece star male per ore, ma proprio non riusciva a capire perché. Gli sovveniva soltanto che doveva trattarsi di qualcosa che aveva a che fare con un prete...
Nina stava pregando in ginocchio ai piedi del suo letto, quando alzò la testa e vide Padre Valentini.
«Buongiorno, tu farai esattamente quello che ti dirò da questo momento in poi.»
Quello che accadde poi, fu come se stesse succedendo ad un altra persona che si trovava però nel suo stesso corpo. Gli sembrava addirittura di poter vedere se stessa, come in un film. Lo strano prete ordinò ai suoi sgherri di imbavagliarla, legarla e mettergli le manette, ma di fare attenzione a non danneggiare ‘la bambina’? Improvvisamente si materializzò nella stanza un uomo che brandiva uno strano artefatto come fosse un’arma, urlando:
«Io sono l’Imperatore, colui che regna e governa con sag-gezza. In mano tengo la chiave di Ankh, la chiave che apre la porta tra i due regni, quello dei vivi e quello dei morti. La chiave del sapere.»
Alle spalle del quartetto di aggressori della povera Nina si aprì una specie di squarcio, come se la realtà fosse soltanto il fondale strappato di uno spettacolo teatrale da due soldi. Un vento caldo che sapeva di polvere, di tomba, risucchiò all’interno dello squarcio persone ed oggetti. Tutto ma non il prete, che resisteva, in piedi, immobile come una statua. Riusciva anche a trattenere
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Nina, con un solo braccio.
«Vattene, adesso. Piuttosto che darla a te la uccido insieme alla bambina» Padre Valentini aveva rivolto la sua attenzione all’Imperatore e Nina cominciò a sentirsi strana. Con la mano libera tirò fuori dall’incavo del suo seno prosperoso un mazzetto di santini tenuti insieme da un elastico.
«Non dire cazzate per favore... I tuoi trucchetti di possessio-ne non funzionano con me, ed il Papa non ti perdonerebbe mai se la uccidessi!» L’imperatore dichiarò lo stallo a voce bassa, restando calmo ed impassibile.
Nina ‘ritrovò’ in mezzo ai suoi santini un carta dei tarocchi ingiallita dal tempo. Era lì da sempre, ma se ne era ricordata soltanto adesso. Mentre la guardava, un’antica litania le tornava pian piano in mente. Cominciò a recitarla, sotto il bavaglio, e per incanto le manette si aprirono, le funi si sciolsero.
«Sono la Papessa, colei che sa, ma svela solo in parte il suo sapere. Siedo sul trono tra le due colonne, la vita e la morte, il bene e il male, le colonne Jakim e Boas del Tempio di Salomo-ne. Tengo tra le mani il libro, ma non ho bisogno di leggerne il contenuto. Sono il secondo Arcano Maggiore.»
Gridando per il dolore gli altri due Arcani si accasciarono al suolo, inermi. Nina fece un semplice gesto con la mano destra, simile a quello con il quale gli esseri umani di solito scacciano le mosche, e rimase di nuovo sola; e nella stanza fu come se non fosse mai successo niente. Ma Nina adesso sapeva. Ricordava. Lei si chiamava Giovanna ed era una delle entità più disgraziate di tutti gli universi conosciuti. Si sedette sul letto, dalla sua parte preferita. Conoscere il momento della propria morte, sapere che non potrà far niente per evitarla... Che non vorrà, far niente per evitarla, perché se ci riuscisse potrebbe causare la fine della vita per tutto il genere umano... Questo era il motivo per cui aveva preferito dimenticare tutto.
«Mi dispiace Giovanna. Avrei voluto arr...»
Nina, Giovanna, la Papessa, posò il suo sguardo sul Matto, in piedi davanti a lei con le mani in tasca, e lui si zittì. Lei si alzò manifestando una stanchezza antica, immensa, lo abbracciò e
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posò la testa sul suo petto.
Potete alzare la polvere fino all’inverosimile, prima o poi si riposerà sul mondo e sembrerà che niente sia veramente accadu-to. Nove mesi dopo, tutto il paese (?), cioè i proverbiali quattro gatti, era riunito davanti alla Chiesa di Montarcano per salutare Nina che veniva portata all’ospedale da un’ambulanza della Mi-sericordia, arrivata appositamente da Livorno. Giacomo se n’era andato da tempo, Giuliano e Michele manco si ricordavano più di lui. Velia aveva preso Nina sotto la sua protezione e l’aveva assistita perfettamente durante tutta la gestazione. Ma adesso era “finito il tempo”. Quello che normalmente per tutti sarebbe stato un momento carico d’ansia ed aspettative, ma fondamentalmente un momento felice, per i cinque amici era invece una situazione ambigua che li stava allontanando l’uno dagli altri sempre di più, giorno dopo giorno. Il dubbio li tormentava. Chi era il padre?
Quando l’ambulanza scomparve dietro l’ultima curva fu Velia la prima a parlare.
«Perché non ha voluto che l’accompagnassi?»
La domanda, anche se non era stata rivolta a qualcuno in particolare, rimase comunque sospesa nello spazio e nel tempo e fu come se la realtà si stesse ripiegando su se stessa...
Le immagini apparivano rallentate agli occhi dei quattro, ed i suoni erano cancellati dal rumore bianco assordante prodotto da... una biga romana? L’assurda apparizione era dotata di rostri e lance acuminate che spuntavano orrende dalla fronte dei cavalli schiumanti sudore e sangue come dai mozzi delle due ruote la-terali. L’apparizione procedeva a gran velocità verso di loro, ma la cosa più allucinante era il fatto che nessuno teneva le redini, nessuno guidava la biga, era mossa soltanto dalla follia dei due stalloni neri imbizzarriti. Per gli esseri umani, granelli di sabbia nella spiaggia del tempo, non ci fu scampo. Furono straziati dagli zoccoli delle bestie inferocite. I due Arcani Maggiori ricavarono dalle loro paure ancestrali, segregata nell’angolo più remoto delle loro menti, l’identità della manifestazione che li avrebbe distrut-
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ti. Si abbracciarono dolcemente per l’ultima volta, consapevoli dell’inutilità di qualsiasi altro gesto e si dissolsero con la biga che li aveva raggiunti, in una nuvola di fumo grigio.
A Montarcano non rimase nessuno. Nessuno che potesse vedere il vento far volteggiare una carta dei Tarocchi, come in una danza macabra, un crudele scherzo del destino... La mano invisibile del Mazziere posò la prima carta del Grande Gioco sulle colline livornesi. La carta era “Il Carro”.


(Continua nel romanzo “Il giardino dei Tarocchi” ISBN 978-1-84799-344-1, 136 pagine, Ed. Lulu.com, http://www.lulu.com/content/1626761 )