lunedì 16 giugno 2008

Le faremo sapere


Estratto dall'opera " Le Faremo Sapere "
Guida semiseria al mondo del Lavoro
di Massimo Famularo

Il concorso pubblico
"Uno su mille ce la fa"
(Gianni Morandi)
Dalle Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno c’è chi arriva in aereo e chi arriva col treno. Comune di Canicattì, concorso per titoli ed esami a Sturacessi presso l’ufficio affari culinari della regione Sicilia, posti 12 concorrenti 12,000 (non provate a chiedere cosa se ne fa l’ufficio affari culinari di dodici sturacessi: se diceste che credete ancora che un dipendente pubblico debba servire a qualcosa per percepire uno stipendio non vi credereb-be nessuno). Regione Toscana,
n. 7 uscieri per l’ente pubblico tal dei tali (qualora osaste sostenere che un ente pubblico dovrebbe avere, almeno pro forma, un nome e una qualche fan-tomatica funzione vale quanto detto in precedenza), concorren-ti 620,000. Regione Lombardia, numero 3 (eh sì più vai su più diventano taccagni) posti da parcheggiatore, concorso per titoli, esami, prove fisiche, chimiche, psichiche e spirituali, concorrenti 2,5 milioni.
Pochi altri rituali di massa hanno la dimensione epica e la portata biblica dei concorsi pubblici.
E’ come un raptus, forse una tara ereditaria le cui origini vanno ricercate nel DNA: mettete a concorso un posto da bidello a Sant’Angelo dei Lombardi e arriveranno domande dalle principali capitali del mondo, ma-gari dai figli degli emigrati che hanno decine di master titoli e contro titoli e magari guadagnano pure bene, ma al fascino del posto pubblico, che nessuno ti toglierà mai e dove nessuno con-trollerà se, come e quanto lavori, non si resiste. E’ un po’ come alla lotteria di capodanno o al superenalotto: si sa che non vince nessuno (il saggio dice: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un concorrente vinca un concorso pubbli-co), ma alla fine ci provano tutti.
Siamo quindi un popolo di santi, navigatori e concorrenti pubblici e quando il fatidico giorno alla fine giunge è impossibi-le non accorgersene. I treni lungo le dorsali principali straripano di disgraziati stipati come bestiame, le stazioni ferroviarie sono anche più incasinate del solito (ma c’è chi sostiene la fisica im-possibilità di un fenomeno del genere), i mezzi pubblici della città bersaglio soccombono e torme di candidati si riversano per le strade intasando definitivamente il traffico. Certo, quando una città è sede ricorrente di numerosi concorsi pubblici non può fare a meno di attrezzarsi. Roma, per esempio, ha scelto il modello Calcutta-bombay: è un casino incredibile tutti i giorni dell’anno, così quando arriva l’invasione dei candidati nessuno si accorge della differenza: geniale no?
Comunque sia, l’atmosfera rimane quella delle grandi espe-rienze collettive: anche i crociati e gli ebrei al passaggio del mar rosso hanno provato qualcosa di simile, sebbene ci sia da credere che avessero delle prospettive meno incerte. C’è chi ripassa fino all’ultimo momento, chi ostenta noncuranza e chi se ne frega altamente perché al concorso c’è venuto veramente per sport. Poi c’è il fenomeno dalla propagazione collettiva dell’ansia che tanto lavoro ha procurato ai gastroenterologi. In premessa tutti si dichiarano scarsamente preparati (precauzione preventiva in modo da poter poi dire, in caso vada male, che era stato solo un tentativo) salvo poi sciorinare anche i particolari più assurdi appena interpellati su un argomento specifico. Mo-rale della favola a ognuno sembra che gli altri siano molto più preparati. Aggiungete un po’ di naturale tensione preliminare ed ecco che un po’ come prima di tutti gli esami si finisce per af-follare i gabinetti in preda a sommovimenti intestinali, sfoderare santini, amuleti e chincaglierie scaramantiche.
Esemplari di varia umanità sfilano alla fiera del posto che forse (non) c’è con lo sguardo che oscilla tra la rassegnazione di chi pensa che i giochi sono fatti prima di partire e il barlume di
speranza che sintetizza quella giusta dose di illusione che ci con-sente di sopravvivere.
Ai concorsi pubblici sono nati grandi amori e amicizie di una vita, si tratta di un’istituzione
fondamentale su cui si è sviluppata e consolidata la nostra identità nazionale.
La libera professione
"E i colleghi d’accordo i colleghi contenti/ nel leggermi in cuore tanta voglia d’amare/mi spedirono il meglio dei loro clienti/ con la diagnosi in faccia e per tutti era uguale/ammalato di fame, incapace a pagare"
(Fabrizio De Andrè)
Partiamo da un assunto fondamentale: il libero professionista non esiste. Intendiamoci, ci sono sempre un gatto e una volpe pronti a dipingere scenari meravigliosi propagandando gestione discrezionale del proprio tempo, guadagni crescenti nel tempo, assenza di gerarchie e autodeterminazione etc. Purtroppo poi arriva il momento in cui ti accorgi che Babbo Natale e la Befana non esistono: il libero professionista (insieme all’imprenditore, suo parente stretto) è uno che per non lavorare otto ore al giorno per conto di qualcun altro ne lavora dodici per conto
proprio. Se credi che il cartellino che non devi timbrare significhi che puoi fare colazione con calma, ti stai illudendo: in genere quando riesci a indugiare al mattino è perché hai dormito al
lavoro.
Quest’aspetto è matematicamente analizzato dallo studioso Australiano Amorfi (cugino alla lontana di quello delle leggi) il quale ha elaborato il seguente:
Primo Teorema sull’orario di lavoro nelle professioni libere:
*posto che al ritardo nell’orario di ingresso esiste un limite finito [prima o poi devi iniziare],
*mentre non esiste un limite a quello di uscita,
*la durata del lavoro tende all’infinito.
Un importante corollario recita che il professionista quando è libero è solo un disoccupato che non sa ancora di esserlo. In effetti a partire dagli inizi, in cui bisogna farsi il culo per affermarsi, fino a quando non si può smettere di lavorare perché i risparmi e l’ipotetica pensione non bastano a sopravvivere, libero è decisamente il meno indicato degli aggettivi.
Esistono svariati modi per avere successo nella libera profes-sione: si può ereditare uno studio avviato, sposarne il titolare o il figlio del titolare, sfruttare amicizie politiche o malavitose oppure (ma qui è necessaria una certa prestanza fisica) concedersi carnalmente a un elevato numero di persone tra clienti, altri professionisti, politici etc. A dispetto della parità dei sessi pare che le donne incontrino minore difficoltà nel mettere in pratica l’ultima tecnica. Intendiamoci, esistono anche casi di giovani capaci e intraprendenti che si sono affermati con le proprie sole forze, tuttavia non verranno considerati in questa trattazione perché, insieme ai rapimenti degli ufo e certi tipi di miracoli rientrano tra quei fenomeni su cui la scienza ufficiale preferisce non pronunciarsi.
Assodato che il professionista non è libero e che si afferma ereditando reputazione e clienti o acquistandoli nei modi sud-detti possiamo esaminarne il percorso dall’inizio: il praticantato.
Che sia espressamente prescritto dalla legge o meno, infatti, prima di potere esercitare devi acquisire le necessarie compe-tenze. A meno che tu non abbia santi in paradiso (A.M.C.T.N.A.S.I.N.P. clausola discriminante fondamentale in qualsiasi ambito del variegato mondo del lavoro) questa condi-zione costituisce una tra le peggiori in cui un essere umano
possa trovarsi paragonabile solo, forse, a quella dello stagista (sem-pre che, a seconda dei gusti, non ci si trovi in una posizione come quella della sig.na Monica Lewinsky…). Il praticante in genere, almeno all’inizio lavora gratis et amore Deo e le sue mansioni possono essere sinteticamente riassunte nel concetto: tutto quello che gli altri occupanti dello studio non vogliono fare segretarie, commessi e addetti alle pulizie compresi.
Mentre la televisione continua a mostrare mendacemente le gesta di giovani avvocati in carriera e di medici in prima linea tu sei sommerso e letteralmente fagocitato dalle incombenze più pallose, pesanti e soprattutto dal contenuto formativo pari a ze-o. Sulle prime ti prende lo sconforto perché realizzi che oltre a romperti non impari nulla e che il tempo e le energie che impie-ghi non ti sembrano più fruttuosi di quelli dedicati ai cruciverba o alle letture sulla tazza del cesso. Poi qualcuno ti dice è solo l’inizio e che si tratta di investire su se stessi per un po’ e che poi verrà il bello. Carico di tutta l’ingenuità del neofita tu natu-ralmente gli credi.
Come se non bastasse il tenore fantozziano degli esordi nell’apprendistato, ci sono poi inevitabilmente gli esami di stato per essere iscritti all’albo e/o ottenere l’abilitazione all’esercizio. In qualche caso può trattarsi di una mera formalità o di un semplice coronamento del corso di studi (quando evidentemen-te la selezione è stata fatta in precedenza, come per esempio all’università: mai dato uno sguardo alle percentuali di abban-dono o ai corsi di studio a numero chiuso?) in altri di un filtro estremamente efficace per mantenere la tenuta stagna delle ca-ste professionali. Per superare gli esami di iscrizione all’albo/abilitazione etc. valgono le stesse regole enunciate in precedenza (eredità, etc.).
Dopo questa fase in genere arriva il primo esame di coscien-za: gli anni passano e pur essendo la strada sempre rovinosamente in salita la crescita professionale è piatta come l’elettroencefalogramma di un parlamentare in piena attività. Anche dopo aver varcato la soglia da aspirante a vero e proprio professionista rimani una sorta di "dipendente del titolare di studio" e quando guardi a un passato ormai quasi decennale ti viene da pensare: -come dipendente almeno mi sarei ritrovato i contributi previdenziali.
Che dire? Hai la pratica e i titoli: potresti sempre metterti in proprio, magari in associazione con qualche altro giovane. In fondo nulla ti vieta di confidare nella possibilità di riuscire, ognuno è libero di credere quello che vuole. Per maggiori dettagli su questo tema puoi rivolgerti alla fata turchina.