domenica 23 marzo 2008

Giovanna e la tempesta verticale

di Giulia Ghini

Quando la protagonista deve ricordare l'11 settembre

A tutti è successo qualcosa l’undici settembre del duemilauno.
Io avevo trovato la lettera firmata sulla mia scrivania, l’avevo infilata in borsa ed ero uscita senza alzare gli occhi. Ero tornata a casa a piedi per chiedere all’aria fresca una scarica di elettricità, per sporcarmi con i gas delle auto, sbattere contro le persone che si affrettavano per le compere mattutine, lasciare che i rumori della città superassero il rombo che sentivo dentro. Mi ero buttata sul divano a guardare una crepa nel soffitto, ad ascoltare quel rombo e il turbinare di pensieri che lo produceva. Poi accesi la tv.
Come tutti quelli che ancora non sapevano, prima vidi delle cose, ma senza attenzione. Poi guardai, e non riuscii a capire, poi capii e non riuscii a credere. Alla fine rimasi lì, come tutti, ore davanti al televisore, il secondo aereo, la gente che precipitava, la prima torre che crollava, la seconda, la litania concitata dei cronisti, il Pentagono, Philadelphia, nuove immagini amatoriali e i primi vampiri da studio che affrettavano commenti e numeri. Come tutti, guardai questa cosa enorme e quando non ci fu più niente da vedere, il mio male non era più niente.
“L’undici settembre del duemilauno ho perso il lavoro.” Ecco, l’ho detto, non è stato difficile.
“Tutto qui? Nel tuo mondo mentale non c’è Simone e non te ne importa niente. Però perdi il lavoro e le due Torri ti crollano sulla testa?”
“Lo so, dovrei vergognarmi. Però allora perdere il lavoro mi sembrò la fine del mondo. Poi in America la fine del mondo è successa davvero. Quello che hai visto potrebbe essere una specie di corto circuito.”
Francesco sembra contrariato: “C’è qualcosa che non mi convince. Ti offro aiuto riguardo a Simone e tu mi dài picche. Ti chiedo chi ti ha fatto del male e tu mi porti a vedere le macerie della tua vita professionale. Non c’è proporzione. Sembra che un posto di lavoro perduto, del quale oggi non ti importa più niente, sia un guaio più grosso di… di Simone, di Simone senza babbo.”
Francesco sarà anche contrariato ma dovrebbe stare più attento alle parole.
“Simone non è un guaio. Non ho mai pensato a Simone come a un male. Avrei potuto scegliere di non averlo, sai? Quando ho scoperto di essere incinta ho passato alcuni momenti molto difficili. Ma non ho mai pensato, non una volta, a liberarmi di lui.”
Forse questa l’ho solo pensata, perché Francesco tira dritto, non mi ha nemmeno ascoltato: “Piuttosto, potrebbe trattarsi di un indizio.”
“Cioè?”
“È possibile che ci sia un collegamento tra il tuo licenziamento e Simone.”
“Ma Francesco, sono passati tre anni.”
“Non ho detto che ci sia un collegamento diretto. Magari c’è una traccia da seguire. E tu, in qualche modo, dentro di te, l’hai capito.”
“Mi sembra improbabile. Anche se in effetti la fine della mia carriera ha degli aspetti, come dire, irrisolti. Ma sono cose da niente, molto marginali.”
“Sei sicura? Forse potresti raccontarmi com’è andata.”
“Potrei, ma con un po’ di immaginazione potresti arrivarci da solo.”
“Lo so: Michela Lo Giudice, Antonio Forni e Renato Masotti. I tuoi ex colleghi di lavoro.”