lunedì 12 maggio 2008

Il giardino dei Tarocchi

La prima carta


Prologo del romanzo “Il giardino dei Tarocchi” di Luigi Agostini


Montarcano era un paesino sperduto nella splendida mac-chia mediterranea delle colline livornesi. Una sola strada in sa-lita lo attraversava, sin dai tempi che videro il passaggio delle prime legioni romane. Fecero sosta nella fattoria di Velia prima di raggiungere Volterra ed ovviamente sterminarono quasi tutti gli etruschi che vi abitavano. La posizione isolata dal resto del mondo e chissà quali altre recondite motivazioni, fecero sì che nei secoli successivi soltanto una manciata di case ed una piccola chiesa formassero il centro abitato. Nei primi anni del ventune-simo secolo, soltanto cinque persone vivevano a Montarcano ed incredibilmente portavano tutte cognomi diversi. Anche Velia ed Andrea, che vivevano insieme da sempre ma non si erano mai voluti sposare. Forse soltanto per indispettire Don Michele.
Quando Velia aprì le persiane, quella mattina maledetta, una luce accecante colpì le sue pupille ancora assonnate. Il flash proveniva dalla strada, quella che porta al bosco. Si stropicciò le palpebre usando gli indici, con forza, come per cancellare quei riflessi che continuava a vedere anche ad occhi chiusi. Mante-nendole a stretto contatto con il viso, distese le sue mani callose segnate dalla campagna e dagli inverni. Come vele spiegate, i palmi aperti scesero piano lungo le guance, stirando i lineamenti ancora piacenti, testimoni degli antichi fasti di una sfiorita bel-lezza. Inspirò profondamente l’aria frizzante della campagna d’inverno. Chiuse i lembi della vestaglia sul suo petto, per proteg-gersi dal freddo. Riparando il viso con il dorso della mano alzata, tornò ad affacciarsi sapendo già che avrebbe visto l’acciottolato di cui conosceva ogni singola pietra, la casa gialla di Giuliano

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con i muri ricoperti d’edera rampicante, la lunga fila di porte di legno, adesso sprangate, dove lei bussava per poi scappare via da bambina; per giocare con gli abitanti di allora, di cui ormai non ricordava più né il nome né i lineamenti.
Invece vide un uomo che camminava. Lentamente, a testa bassa, affrontava svogliato la piccola salita con un grosso zaino sulle spalle. Le fibbie dello zaino riflettevano la luce del sole, lanciando lampi improvvisi ritmati dal passo incerto dello stra-niero. Portava un vistoso cappello bianco di paglia, stile Panama, di certo non adatto alle temperature rigide di Montarcano in quel periodo dell’anno, un giaccone di velluto verde come i pantalo-ni ed un paio di stivali militari. Velia non riusciva a capire, da quella parte c’era soltanto il bosco e non si poteva accedere a quella strada con la macchina. Da dove saltava fuori quel tipo che, oltretutto, aveva qualcosa di familiare nel suo aspetto?
Tornò in cucina - doveva preparare la colazione per lei ed il marito - pensando che forse lo straniero aveva usato una moto od era stato accompagnato lì da qualcuno. Ma perché, cosa lo portava in quell’angolo sperduto del mondo? Non si vedevano mai né cacciatori né escursionisti. Forse era uno degli ex abitanti di Montarcano od un loro parente? Il gorgoglio amichevole del caffè che si arrampicava nella moka la distolse dalle sue specu-lazioni. L’amore della sua vita il caffellatte lo voleva bollente, non aveva tempo da perdere... Intendiamoci, Andrea era un uomo dolcissimo, comprensivo, e non gli avrebbe mai fatto una osservazione per una sciocchezza simile, ma proprio per questo lei amava ricoprirlo di attenzioni.
«Novità?» gli chiese il marito ironicamente, come tutte le mattine. Andrea, accomodato su due cuscini, attendeva che la moglie gli portasse il caffellatte a letto. Era sempre stato un bell’uomo ed anche adesso che era completamente calvo i suoi lineamenti marcati, maschili ma allo stesso tempo piacevoli e sottolineati da pochissime rughe, lo aiutavano a dimostrare la metà degli anni che portava. Come sempre Velia si sedette vicino a lui, porgendogli la tazza.
«Non ci crederai, ma stamani...» Si azzittirono di colpo
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volgendo lo sguardo verso la porta. Qualcuno, di sotto, stava suonando il loro campanello.
Nina amava restare a letto ancora un poco quando si sve-gliava. Ogni mattina dedicava una decina di minuti ai suoi sogni, alle sue fantasie più segrete. Il caldo tepore delle coperte, la sensualità del suo corpo ancora prorompente, la facevano sentire viva, vogliosa ed insoddisfatta. In particolare quella mattina, nella quale il suo ciclo ormonale era al culmine, si era abbandonata nel dormiveglia tra le mani di Giuliano che le cingevano i fianchi mentre lei lo cavalcava selvaggiamente. Sognava che lui, con un sorriso ambiguo, le stesse aprendo dolcemente le natiche sode. Che improvvisamente lei sentisse un membro turgido premerle con forza e dolcezza contro lo sfintere, cedevole e dolente. Una vampa di fuoco le bruciò il basso ventre quando, voltandosi, si rese conto che Don Michele la stava sodomizzando. Era piena dei suoi due amanti, donna, amante e puttana allo stesso tempo, finalmente felice...
Si stava carezzando la natura con entrambe le mani quando sentì quell’odore. Di muffa mista a sangue. Di sudore e di escre-menti. Di bestia. Si mise su un fianco, disturbata, ma incapace d’interrompere la masturbazione proprio sul più bello. Improv-visamente avvertì una presenza alle sue spalle, nel letto, la sua pelle le parlava di carne calda e rugosa, peli ed unghie ed il suo cervello le gridava che era tutto vero, ma i sensi la reclamavano nel sogno. Si sentì penetrare brutalmente, provando un misto di dolore e piacere devastante. Si fece coraggio e guardò alle sue spalle. L’immagine durò un solo istante perché la fece svegliare di colpo, definitivamente, preda di un terrore gelido, reale. Aveva visto - o sognato? - un caprone con delle corna ricurve, degli occhi incredibilmente umani e delle lunghe braccia pelose che terminavano in due mani adunche, artigliate.
Era seduta sul letto, ansimante, aveva degli irrefrenabili conati di vomito e dei sudori freddi. Dal comodino a fianco, ricoperto di pizzo bianco, abbrancò la brocca dell’acqua e bevve rovesciandosi addosso parte del contenuto. Nel poggiarla urtò
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la abat-jour di cristallo che cadde a terra andando in mille pezzi.
“Ecco ci mancava solo questo” pensò “devo spazzarci subito...”
Si alzò dal letto, ed una volta in piedi, avrebbe voluto gridare, morire, scomparire per sempre, sprofondare sottoterra. Fra le gambe sentiva colare, piano, qualcosa di caldo ed appiccicoso.
«Ciao Velia.» L’uomo con il cappello di paglia la guardava sorridendo amichevolmente. Lei si chiese dove aveva già visto quello sguardo assurdo, stranamente familiare ma al tempo stesso inquietante. Fissazioni di una sciocca superstiziosa avrebbe detto il marito. «Lo so che non ti ricordi di me, ma se mi fai entrare ti spiegherò tutto.»
Appoggiata allo stipite della grossa porta in legno Velia rispose automaticamente. «Lei chi è, perché sembra conoscermi?»
Lui tirò fuori dalla tasca interna del giaccone una vecchia carta ingiallita dal tempo e gliela mostrò; era il Matto dei Tarocchi.
Andrea vide sua moglie, di spalle, parlare con qualcuno sulla porta di casa. «Velia, chi è?» disse, scandendo le parole con un tono fermo e deciso che avrebbe scoraggiato, secondo lui, qualsiasi scocciatore importuno. Velia non gli rispose, si voltò tenendo la carta dei Tarocchi con entrambe le mani e si avviò come un automa verso la credenza del loro ingresso che fungeva anche da salotto. Urtò anche il tavolo in legno che campeggiava in mezzo alla stanza, come stordita. Andrea la osservava stupito. Lei allungò la mano per prendere un vecchio carillon che da sempre usava per conservare alcune gioie d’oro e d’argento. Era molto vecchio, in legno, con una struttura esterna in oro che rifiniva gli spigoli e la serratura. Rovesciò tutto il contenuto sul piano della credenza, con noncuranza, ed iniziò ad armeggiare con l’interno del carillon.
«Lei chi è? Che vuole?» Andrea si era avvicinato alla porta minaccioso, brandendo come arma improvvisata un trofeo che aveva vinto decenni prima ad un concorso di filatelia.
«Ciao Andrea. Vabbè che non ti sono mai stato simpatico,
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ma ti assicuro che quel trofeo non ti servirà, mettilo giù, con calma, eh?» Lo straniero era rimasto sulla porta, senza neanche affacciarsi sull’ingresso. Velia posò la mano destra sul braccio del marito per attirare la sua attenzione, senza dire una parola, ammutolita e sconcertata. Nella mano sinistra teneva due vecchie carte da gioco. Quando Andrea le vide, fu come se nella sua mente si fosse aperto uno squarcio, come se si stesse risvegliando da un lungo sonno. I ricordi, sotto forma d’immagini in rapida sequenza, avevano fatto breccia nella diga costruita con gli avvenimenti della sua recente esistenza. I paesaggi esotici dell’Asia Minore, la Scizia, la costa lungo il Mar Nero, poi il Volga e Kiev. La sede episcopale di Bisanzio, la realizzazione del suo sogno. Infine la sua morte, martirizzato per crocifissione a Patrasso, in Achea. Il dolore. Un dolore infinito. Con gli occhi gonfi di lacrime recitò: «Sono l’Angelo della Temperanza, eternamente alla ricerca dell’equilibrio, della moderazione, per non compiere errori di valutazione. Sono il Graal, la coppa che accoglie e versa l’acqua della vita e della conoscenza da un’esistenza all’altra. Sono un Arcano Maggiore.»
Velia prese le mani del marito nelle sue, con gran dolcezza, e gli rispose: «Sono la forza d’animo, la volontà, la sicurezza. Sono la donna con il cappello di Moebius, colei che indossa il manto rosso del coraggio e tiene aperte le fauci del leone. Sono l’undicesimo Arcano Maggiore, la Forza.»
«Io sono il Matto e non ho nessuna voglia di recitare la mia ode evocativa del cazzo, tanto la sapete a memoria... ora datevi un bel bacio e facciamola finita con questa pantomima che abbiamo poco tempo a disposizione!» Lo straniero era entrato in casa parlando, e buttato in un angolo il suo zaino si era servito un bicchiere d’acqua dal rubinetto dell’acquaio. Si muoveva nella stanza come se fosse di casa. Si lasciò cadere su una sedia visibilmente stanco.
Andrea e Velia si tenevano abbracciati, in piedi in mezzo alla stanza. Lei si riprese per prima: «Giacomo, sei proprio tu? ...cos’è successo? Perché ci troviamo qui?»
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Lo straniero si diede una manata sulla gamba destra prima di rispondere.
«Giusto, questo non potete ricordarlo. Dopo l’ultimo “giuoco”, avete chiesto al Mazziere di farvi vivere come esseri umani la vostra irresistibile storia d’amore...» il Matto si mise un dito in gola come se volesse stimolare il vomito, «...e lui ha incaricato me, come al solito per lavarsene le mani, di sistemare la faccenda. Io ho ficcato un paio di blocchi mentali nelle vostre zucche vuote ed ogni tanto sono passato di qua per assicurarmi che nessuno disturbasse i piccioncini.»
Andrea apostrofò il Matto in malo modo: «Cosa ci rende degni della tua presenza, del tuo interessamento proprio adesso, Giacomo Bauer?»
Il Matto non li guardava in faccia mentre si spiegava, sembrava molto più interessato alle evoluzioni di una mosca sul suo cappello, appeso alla spalliera di una delle sedie.
«Come sapete Montarcano è stato fondato dagli etruschi sul punto d’incrocio di due linee di Ley e questo fa del luogo un enorme collettore di energie, negative e positive. Un posto predestinato a qualcosa di grande, un evento inarrestabile che sta attraendo qui molti Arcani Maggiori proprio adesso, come una calamita attira il ferro. Non so il perché, ma non devo certo spiegarvi cosa succede quando la nostra allegra brigata si raduna da qualche parte...»
L’anziana coppia si era definitivamente ripresa mentre Giacomo raccontava. Adesso erano seduti dall’altra parte del tavolo, di fronte al vecchio amico.
«C’è qualcosa che possiamo fare per evitare i soliti casini?» chiese Velia con uno sguardo sfrontato e combattivo che contrastava con il suo aspetto quasi anziano.
«Sì, grazie. Sistemate le mie cose nella stanza del bamb... scusate, degli ospiti, starò con voi per un pò, se Andrea è d’accordo. Adesso devo andare ad avvertire la Papessa.»
Andrea tacque e chi tace acconsente. Il matto riprese la sua carta dalle mani di Velia ed uscì in strada senza aggiungere altro. Stavolta si dirigeva deciso e sicuro verso una ben
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precisa destinazione. Si fermò solo un momento per ammirare il panorama, ed un vecchio bastardino gli si affiancò scodinzolando. Il Matto lo guardò e disse: «Sì, lo so, ma non posso...»
Giuliano uscì di casa lasciando la porta aperta. Se ne rese conto dopo aver fatto pochi passi in direzione dell’orto e si voltò. Il cappellaccio in feltro che non lo abbandonava mai teneva in ombra i suoi occhi azzurri divisi dal grande naso aquilino per il quale si era sentito canzonare una vita intera. Il resto del viso era una sola grande, folta e disordinata barba grigia. Si strinse nelle spalle e riprese il suo cammino, lasciando tutto com’era. Al massimo sarebbe entrato qualche gatto che, se al ritorno fosse stato ancora lì, avrebbe potuto cucinare alla cacciatora, con un po’ d’olive. No, non per mangiarselo, ma per regalarlo a Don Michele spacciandolo per uno dei suoi conigli. Erano anni che i due passavano il tempo facendosi gli scherzi più elaborati che mente umana potesse mai concepire. Forse perché Giuliano e Michele erano gli unici due esseri umani rimasti a Montarcano, anche se non lo potevano neanche immaginare.
Don Michele, casualmente, si trovava proprio accanto al confessionale. Il suo aspetto rubicondo e le guance perennemente arrossate la dicevano lunga sul motivo per il quale era stato abbandonato dai suoi simili in quel luogo dimenticato anche dal Creatore. Stava spazzando la sua Chiesa. Uno dei compiti tradizionali della perpetua. Ma Don Michele voleva bene a Nina come a sua sorella, e gli perdonava sempre questo ed altro. Improvvisamente si rese conto che nel confessionale qualcuno stava piangendo. Entrò subito e si mise al suo posto chiedendosi chi, dei suoi quattro amici superstiti, sentisse il peso opprimente di una colpa a quell’ora del mattino.
«Mi perdoni Padre perché ho peccato.»
«Nina?! ...cioè, volevo dire, dimmi figliola, ti ascolto.»
«Michele, io... io non pensavo... e poi non può essere, io... ti prego perdonami sto impazzendo...”
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Quando lei si abbandonò ad un pianto straziante e convulso, il buon prete gettò alle ortiche convenzioni e regole senza pensarci su più di tanto. Scostò la tendina del confessionale e prese Nina fra le sue braccia, carezzandole la testa come si fa con i bambini.
«shhh, shhh... adesso calmati, ci sono qua io; non preoccuparti di niente, a tutto c’è rimedio, vedrai.»
Nina non riuscì a raccontare l’accaduto per filo e per segno a Don Michele, si vergognava troppo. Sintetizzò la storia sorvolando sui particolari piccanti ed abbondando invece nel descrivere il Diavolo che l’aveva violentata. Ovviamente il primo commento del padre fu ‘Nina la solitudine fa brutti scherzi, quando passerà il dottore domani ci parlerò io e ti farò prescrivere degli anti-depressivi...’ Allora lei gli raccontò dello sperma.
«Ho sentito parlare di possessioni diaboliche in cui l’indemoniata secerneva vari tipi di essudato. Vedrai che ti sei sbagliata, chissà che roba era...»
Passeggiando tranquillamente verso casa di lei, Don Michele fece quanto in suo potere per tranquillizzare la povera donna, convinto in cuor suo che la cosa migliore che avrebbe potuto fare sarebbe stata parlare con Giuliano. Quel vecchio orso doveva decidersi a sposarla e renderla felice una buona volta! Era sicuro che in questo modo gli incubi e le allucinazioni di Nina sarebbero scomparsi come per miracolo...
La lasciò sulla porta di casa con un bacio sulla fronte ed una lunga lista di preghiere che la poveretta avrebbe dovuto snocciolare durante il giorno per tenere lontano il demonio e le sue tentazioni.
Stava tornando in Chiesa quando accadde una cosa insolita per un paese semi-deserto come Montarcano. Stava per incrociare quattro persone che sembravano andare in gran fretta da qualche parte. Una delle persone era un prete come lui, gli altri tre invece erano dei gran brutti ceffi. Stavano chiaramente facendo finta di non vederlo. Michele gli rivolse la parola appena furono
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a portata di voce:
«Buongiorno, sono Don Michele, il parroco.»
«Buongiorno, sono padre Valentini, del Vescovado di Livorno. Lei non ci chiederà niente, ci lascerà passare e subito dopo dimenticherà di averci visti.»
Michele arrivò in Chiesa domandandosi se parlare con Giuliano sarebbe stato giusto anche nei suoi confronti o se spronandolo al matrimonio per il bene di Nina non avrebbe giocato un brutto tiro al suo amico. Si domandò anche cosa fosse quella cosa che si era dimenticato, come una presenza sfuggente, che non riusciva ad afferrare, un fatto importante che si era ugualmente scordato. La sensazione lo fece star male per ore, ma proprio non riusciva a capire perché. Gli sovveniva soltanto che doveva trattarsi di qualcosa che aveva a che fare con un prete...
Nina stava pregando in ginocchio ai piedi del suo letto, quando alzò la testa e vide Padre Valentini.
«Buongiorno, tu farai esattamente quello che ti dirò da questo momento in poi.»
Quello che accadde poi, fu come se stesse succedendo ad un altra persona che si trovava però nel suo stesso corpo. Gli sembrava addirittura di poter vedere se stessa, come in un film. Lo strano prete ordinò ai suoi sgherri di imbavagliarla, legarla e mettergli le manette, ma di fare attenzione a non danneggiare ‘la bambina’? Improvvisamente si materializzò nella stanza un uomo che brandiva uno strano artefatto come fosse un’arma, urlando:
«Io sono l’Imperatore, colui che regna e governa con sag-gezza. In mano tengo la chiave di Ankh, la chiave che apre la porta tra i due regni, quello dei vivi e quello dei morti. La chiave del sapere.»
Alle spalle del quartetto di aggressori della povera Nina si aprì una specie di squarcio, come se la realtà fosse soltanto il fondale strappato di uno spettacolo teatrale da due soldi. Un vento caldo che sapeva di polvere, di tomba, risucchiò all’interno dello squarcio persone ed oggetti. Tutto ma non il prete, che resisteva, in piedi, immobile come una statua. Riusciva anche a trattenere
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Nina, con un solo braccio.
«Vattene, adesso. Piuttosto che darla a te la uccido insieme alla bambina» Padre Valentini aveva rivolto la sua attenzione all’Imperatore e Nina cominciò a sentirsi strana. Con la mano libera tirò fuori dall’incavo del suo seno prosperoso un mazzetto di santini tenuti insieme da un elastico.
«Non dire cazzate per favore... I tuoi trucchetti di possessio-ne non funzionano con me, ed il Papa non ti perdonerebbe mai se la uccidessi!» L’imperatore dichiarò lo stallo a voce bassa, restando calmo ed impassibile.
Nina ‘ritrovò’ in mezzo ai suoi santini un carta dei tarocchi ingiallita dal tempo. Era lì da sempre, ma se ne era ricordata soltanto adesso. Mentre la guardava, un’antica litania le tornava pian piano in mente. Cominciò a recitarla, sotto il bavaglio, e per incanto le manette si aprirono, le funi si sciolsero.
«Sono la Papessa, colei che sa, ma svela solo in parte il suo sapere. Siedo sul trono tra le due colonne, la vita e la morte, il bene e il male, le colonne Jakim e Boas del Tempio di Salomo-ne. Tengo tra le mani il libro, ma non ho bisogno di leggerne il contenuto. Sono il secondo Arcano Maggiore.»
Gridando per il dolore gli altri due Arcani si accasciarono al suolo, inermi. Nina fece un semplice gesto con la mano destra, simile a quello con il quale gli esseri umani di solito scacciano le mosche, e rimase di nuovo sola; e nella stanza fu come se non fosse mai successo niente. Ma Nina adesso sapeva. Ricordava. Lei si chiamava Giovanna ed era una delle entità più disgraziate di tutti gli universi conosciuti. Si sedette sul letto, dalla sua parte preferita. Conoscere il momento della propria morte, sapere che non potrà far niente per evitarla... Che non vorrà, far niente per evitarla, perché se ci riuscisse potrebbe causare la fine della vita per tutto il genere umano... Questo era il motivo per cui aveva preferito dimenticare tutto.
«Mi dispiace Giovanna. Avrei voluto arr...»
Nina, Giovanna, la Papessa, posò il suo sguardo sul Matto, in piedi davanti a lei con le mani in tasca, e lui si zittì. Lei si alzò manifestando una stanchezza antica, immensa, lo abbracciò e
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posò la testa sul suo petto.
Potete alzare la polvere fino all’inverosimile, prima o poi si riposerà sul mondo e sembrerà che niente sia veramente accadu-to. Nove mesi dopo, tutto il paese (?), cioè i proverbiali quattro gatti, era riunito davanti alla Chiesa di Montarcano per salutare Nina che veniva portata all’ospedale da un’ambulanza della Mi-sericordia, arrivata appositamente da Livorno. Giacomo se n’era andato da tempo, Giuliano e Michele manco si ricordavano più di lui. Velia aveva preso Nina sotto la sua protezione e l’aveva assistita perfettamente durante tutta la gestazione. Ma adesso era “finito il tempo”. Quello che normalmente per tutti sarebbe stato un momento carico d’ansia ed aspettative, ma fondamentalmente un momento felice, per i cinque amici era invece una situazione ambigua che li stava allontanando l’uno dagli altri sempre di più, giorno dopo giorno. Il dubbio li tormentava. Chi era il padre?
Quando l’ambulanza scomparve dietro l’ultima curva fu Velia la prima a parlare.
«Perché non ha voluto che l’accompagnassi?»
La domanda, anche se non era stata rivolta a qualcuno in particolare, rimase comunque sospesa nello spazio e nel tempo e fu come se la realtà si stesse ripiegando su se stessa...
Le immagini apparivano rallentate agli occhi dei quattro, ed i suoni erano cancellati dal rumore bianco assordante prodotto da... una biga romana? L’assurda apparizione era dotata di rostri e lance acuminate che spuntavano orrende dalla fronte dei cavalli schiumanti sudore e sangue come dai mozzi delle due ruote la-terali. L’apparizione procedeva a gran velocità verso di loro, ma la cosa più allucinante era il fatto che nessuno teneva le redini, nessuno guidava la biga, era mossa soltanto dalla follia dei due stalloni neri imbizzarriti. Per gli esseri umani, granelli di sabbia nella spiaggia del tempo, non ci fu scampo. Furono straziati dagli zoccoli delle bestie inferocite. I due Arcani Maggiori ricavarono dalle loro paure ancestrali, segregata nell’angolo più remoto delle loro menti, l’identità della manifestazione che li avrebbe distrut-
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ti. Si abbracciarono dolcemente per l’ultima volta, consapevoli dell’inutilità di qualsiasi altro gesto e si dissolsero con la biga che li aveva raggiunti, in una nuvola di fumo grigio.
A Montarcano non rimase nessuno. Nessuno che potesse vedere il vento far volteggiare una carta dei Tarocchi, come in una danza macabra, un crudele scherzo del destino... La mano invisibile del Mazziere posò la prima carta del Grande Gioco sulle colline livornesi. La carta era “Il Carro”.


(Continua nel romanzo “Il giardino dei Tarocchi” ISBN 978-1-84799-344-1, 136 pagine, Ed. Lulu.com, http://www.lulu.com/content/1626761 )