lunedì 17 dicembre 2007

NAUFRAFI

Estratto dall'opera NAUFRAGI di Davide Fanigliulo

Catastrofe della filosofia e filosofia della catastrofe

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"Un pensiero è veramente mio proprio solo
se io non esito in nessun momento a me erlo
in pericolo di morte, se io non ho da temere,
nella sua perdita, una perdita per me, una
perdita di me"
(Max Stirner - L’unico e la sua proprietà)

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[1] Morire è la punizione per essere nati.
E non ci sono scogli, porti cui approdare. Naufra-
gare è tu ’uno col vivere.
Disastri verticali, siamo cadaveri in fieri.
L’essere umano, una sorpresa senza pari: nato per
morire, sorto dal nulla solo per ripiombarvi, perché
si ostina a fare?
Perché edifica? Perché agisce? Morirà, moriranno
quelli che verranno dopo di lui. Il suo ricordo, si-
mulacro inutile, parto della sua alterigia, svanirà in-
sieme a coloro che lo custodiranno.
Da sempre l’uomo precipita, da sempre imbastisce
il nulla.
Come può vincere questa competizione senza ar-
rivo? Incapace di concludere alcunché, dovrebbe
non vivere, non partecipare nemmeno, essere di-
spensato dall’ingiuria della nascita, rendersi reie o,
escludersi dalla bagarre, abdicare alla vita e al-
l’azione.
Spe atore di tentativi da sempre falliti, dovrebbe ri-
dere di se stesso, non prendersi sul serio, non pren-
dere sul serio nulla, pregare per la demenza e
benedire il suo arrivo. Dovrebbe abbandonare l’im-
perfezione della sua umanità, mutarsi in Vuoto.
Sperare nell’insperabile.
Soppesati i suoi destini, dovrebbe smentirli prima
di essere smentito, cadere senza ritorno nell’impos-
sibilità del senso, nell’inefficacia delle parole, nello

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zero assoluto dell’abbandono. Cosa si azzarderà a
scegliere? Può perme ersi di scegliere?
Destinato a deludere le sue aspe ative, questo
mesto creatore di finzioni, questo poco stritolato fra
il nulla che lo precede e quello che lo segue, questa
somma di amarezze non ha opzioni.
Continuerà ad addormentarsi confidando nella ve-
rità, nella sua verità. Innalzerà gli espedienti quoti-
diani al rango di articoli di fede.
Finché avrà voce per parlare e cervello per pensare
non sme erà di esporsi, di dire la propria, di trac-
ciare nel fango da cui è nato le definizioni della pro-
pria condo a, le formule del come, condannato
com’è a non sapere mai il Perché.
Espressione senza pari dell’impossibilità della ri-
sposta, si ostina ad elaborare domande, sogna si-
stemi che lo illuminino, castelli di parole che
miracolosamente lo conducano al principio delle
cose. Superbo, geneticamente arrogante, colma la
sua pochezza vomitando formule. Senza pudore,
converte in Verità la presunzione delle sue opinioni.
Come può sfuggire al suo destino? Come può elu-
dersi?
Servo degli ideali che produce, agli antipodi del-
l’ogge ività, sfuggirebbe all’errore solo rinunciando
a pronunciarsi, rinunciando a supporre, a ipotiz-
zare.
I suoi pareri lo condannano.
Come esimersi? Dovrebbe disintegrare alla nascita
ogni sua convinzione, ogni velleità, polverizzare i
sistemi con cui tenta di circoscrivere una verità che
gli scivola via dalle mani; infarcito di valori-fantoc-
cio, dovrebbe poterli cancellare, dovrebbe non

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averne.
Può?
No. Non può. Ogni a o denuncia superstizione.
Dovrebbe affrancarsi dall’agire. Può?
No. Scegliere di non agire è ricadere nel mito della
verità, credere che una scelta valga più di un’altra,
convincersi senza ragione che un a o abbia senso,
che porti da qualche parte.
Vivere e sbagliare sono una cosa sola.
Possiamo solo immaginare la fine della sua miseria.
Il suo paradiso è il mondo che ha cestinato l’esi-
stenza.
Il mondo della fine del mondo.
Acce eremmo di non essere per salvarci dalla mi-
seria di esistere?
Folgorati dall’inconsistenza dei nostri proge i, di-
sorientati dall’inutilità dei nostri sforzi, feriti dal do-
lore e dalla morte, sprofondiamo al di so o di noi
stessi e denunciamo le nostre illusioni. Ma basta?
Capire di essere niente è uno scherzo: l’impresa è
comportarsi come se non si fosse niente, come se nes-
suno dei nostri respiri valesse l’ossigeno consu-
mato. Assetati di sogni, sfioriamo soltanto la
rivelazione della nostra nullità per ricadere nel pat-
tume delle aspirazioni e dei proge i.
Abbiamo visto ma abbiamo fallito. Non potevamo
che fallire. C’è solo un modo per vincerci, per an-
nullarci, per scavalcare la boria accademica del vero
e del falso, del bene e del male: non nascere.
Abortire è fare un a o di clemenza. Paradossal-
mente, è fare un favore alla vita.
Non nascere. Vincere i propri natali, come Buddha
ha insegnato.

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[2] Non c’è Assoluto; latita da sempre e per sempre
il Definitivo; del tu o vacuo e impraticabile il Va-
lore. Questo è capire.
La catastrofe del vedere ci ricorda la nostra posi-
zione, distrugge le nostre conge ure.
Unica vera rivoluzione, mostra la vita in traspa-
renza, scardina le nostre sicurezze: le nostre ragioni
perdono splendore e credibilità, il loro statuto di
dogma ingrigisce; delicatezza e barbarie si dissol-
vono, gli agge ivi, anticamera della morale, subli-
mano in vacuità verbale.
E se non c'è assoluto, non c'è realtà. L'evidenza si
muta in raggiro: parliamo con figure irreali desti-
nate a sparire, nate per non essere importanti, inutili,
passatempi provvisori.
Nulla importa. Nemmeno la nostra dissoluzione.
D’altra parte, come concepirla?
Il timore e il terrore della morte sono il passato,
prima dell’Era Volgare della nostra Storia indivi-
duale, quando comprendemmo l’abisso e ne scor-
gemmo i vortici; ma ora, smontati i nostri
pregiudizi, smessa la parzialità del nostro conce-
pire, anche quell'abisso si tramuta in vuoto.
A raversati tu i i "cieli" del nostro disincanto,
della Pentecoste casalinga che ci ha schiuso davanti
ai piedi la più seducente delle voragini, siamo liberi
di essere niente, e di non aver parole per questo
niente.
Eppure la grazia della disillusione non dura che un
a imo: il nostro risveglio è una beatitudine troppo
breve.

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I nostri respiri ci allontanano dalla pace, la nostra
volontà ce ne allontana, e così i nostri propositi e le
nostre idee. Rimaniamo ancorati a giudizi impal-
pabili, aleatori, vuoti: la morale, Dio e i suoi epigoni,
la volontà di fare come quella di non fare sono so-
prammobili fragili che spolveriamo senza motivo.
Agire e reagire, per non arrivare a nulla. Ci adope-
riamo per Assoluti solo nostri, per un Inconfutabile
che non è niente al di là dei confini della nostra
pelle. Sbraitiamo, urliamo diri i che divertono il
cosmo muto che ci ha partoriti. Abbiamo ancora il
coraggio di fare, di reagire.
Abbiamo ancora la forza di indignarci. Perseve-
riamo nella duplice follia dell'ideale e dell'etica.
Ed è incredibile come non si sia appresa l’unica sag-
gezza che Cristo ci ha insegnato, mutuando da mae-
stro pedante una verità che secoli prima di lui un
paganesimo assennato ci cantava soave: porgere le
altre mille guance di cui disponiamo, farci schiaf-
feggiare dall’universo intero senza sbraitare, senza
cercare un perché che è solo una follia sperare di
trovare. Depennare interrogativi e risposte.
La protesta, il tentativo di farsi valere, è la muta pre-
sunzione di possedere il Vero, di essere depositari
del Bene. Bastava un Socrate qualsiasi per capire
l’unica cosa che vale la pena capire: sono malede i
tu i quelli che mostrano i denti al boia.
Basta questo, di più non possiamo. Vita e perfezione
sono incompatibili.
Il disertore totale, quest'essere rinato, via di mezzo
fra l’Abbandono e l’A esa, Minotauro ribu ante e
spento nell’ozio, elemento eccedente nell’economia

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universale, finalmente "saggio", questo miracolo
non si realizza. Fortunato se tangente alla Rivela-
zione, rimane inchiodato alla croce cui è destinato,
all’infamia incancellabile della nascita. Non può
scavalcare l’ideale, fosse anche l’ideale dell’incon-
sistenza di tu i gli ideali. Dal vagito ai vermi non
ha speranza, non c’è Salvezza che lo liberi.
Precipiterà di nuovo: dal mælstrom della rabbia do-
lorosa, dei propositi radicali, al fango schifoso della
bulimia sociale e mentale. La vita esclude la perfe-
zione. La deficienza che siamo sovrasta la possibi-
lità di vincerci. Dobbiamo rimangiarci la sensatezza
dell’insensatezza. Non darle importanza. Se lo fa-
cessimo ricadremmo nell’utopia della Verità, della
ragione.
Finché continueremo a fare, finché ci contamine-
remo con gli a i saremo schiavi. Ma non si può es-
sere senza fare. Non si può essere senza essere
schiavi.
[3] Dio si è appropriato anche del distacco, unica ed
insufficiente finestra sull'indicibilità e l'impensabi-
lità dell'essere. Il religioso, insinuatosi nella mistica,
ne ha annacquato le conseguenze. Dio ci sussurra
di non perderci, di conservare il nostro io, la nostra
individualità, la nostra responsabilità, poiche senza
di questi il peccato sarebbe nulla e noi non do-
vremmo essere salvati. Non dipenderemmo più da
Dio, che invece seppelliremmo insieme agli altri
morti.
Ma il distacco polverizza il Sé, e solo rinunciando
alla lucidità si può tornare a dire io. E Dio dovrebbe
saperlo. Lui vuole che ci si inganni, che ci si deter-

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mini, che ci si faccia persone, anche nella caduta
verso il vuoto. Sa perfe amente che se dissolves-
simo, insieme a tu e le cose, anche gli scupoli, se
veramente combaciassimo col nulla fino a cancel-
larci, allora non ci sarebbe io da preservare, perché
ogni appartenenza, svanendo, porterebbe via con sé
la nostra individuazione. Chi mitiga i disastri della
spoliazione e del distacco fraintende la portata della
mistica.
Tornati dall'unità vuota ed impronunciabile, ciò che
saremo è imprevedibile; la demenza è uno degli
esiti, uno tra i possibili. La liberazione non può es-
sere circoscri a da nessuna morale, e non fornisce
garanzie di sorta, lo si acce i o meno. Emanciparsi
dall'errore, nella mistica, è disintegrare il divino e
tu i i suoi equilibri. E l’immensa giustizia di chi ha
ro o i vincoli con le cose, è chiaro, non combacia
più con le nostre norme, con i nostri sistemi di mi-
sura morale: la spontaneità assoluta, nella mistica, è
pura barabarie, dimenticanza di ogni istituzione:
cosa rimane da rispe are per chi ha spazzato via i
presupposti di ogni rispe o, di ogni asservimento,
di ogni valutazione? Nemmeno Dio è abbastanza
per chi ha guardato al di là di Maya.
[4] C’è più verità in un vecchio incolto che nel più
grande filosofo di questo mondo. E più saggezza.
Innamorati dei nostri Sistemi, delle nostre filosofie
da circo, sacrifichiamo un’inutile vita per inutili edi-
fici di parole. Soffriamo per essi. Niente di più as-
surdo. Invece di svuotarci, ci riempiamo di vuoti.
[5]Achi non ha nulla, nulla costa rinunciare a tu o.

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E la vita stessa, frullato di definizioni e sospiri, è
nulla. Nessuna giurisprudenza universale soccorre
le nostre etiche: la storia è vita bu ata a pensare che
la vita si può anche non bu are.
[6] Importiamo in proporzione alle lacrime e al do-
lore che la nostra scomparsa produrrà in chi ci ha
amato. Una vita affe iva è tanto più "riuscita"
quanto più atroce è il vuoto che lascia alle proprie
spalle, quanto più è stata indispensabile agli altri. Ci
ama veramente chi non ci sopravvive.
La tragedia, solo la tragedia è la misura dell’amore.
[7] I principi s’imparentano con l’opinione.
Acosa vuoi educare tuo figlio?Alla Virtù?Alla Mo-
rale?
Educare è versare il plasma molle di una coscienza
in uno stampo artigianale, e aspe are che induri-
sca, che solidifichi e prenda una forma.
Maschere tribali, ecco cos’è, tu a questa morale:
una raccolta di figure, una carrellata di espressioni,
una sequenza di cervelli mummificati dal Costume.
Poiché, poi, null’altro vale, al di fuori del costume.
Mœurs. Artifici.
Non possiamo spiegare come schivare una delu-
sione, come metabolizzare la fine di un amore o di
una vita. Possiamo solo spiegare come tentare di
non farci ammazzare.
Ed è e rimane un tentativo, poiché l’educazione, per
definizione, non concepisce l’imprevedibile, l’im-
provviso, il folle.
Questo il nostro obie ivo: disfarci del folle, bloc-
carlo, sterilizzargli l’iniziativa.

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Dal basso della nostra inqualificabile "normalità",
etiche iamo con sicurezza le coscienze e le menti,
definiamo canoni di equilibrio. La morale ingravida
la psicologia, e viceversa. Ma è pura banalità.
Il bene e il male, la follia e la normalità. Esempio
sommo di come si salti dalla statistica alla Verità, di
come si converta in Vangelo l’a estazione di una
certa regolarità di condo a.
Ma i cervelli sono inviolabili. Al di là delle parole e
dei gesti, noi non sappiamo nulla di nessuno. E non
possiamo in alcun modo calcolare la distanza che
separa quelle parole e quei gesti dall’essere di cia-
scuno, né se ci sia o meno una distanza, né se abbia
senso tentare di misurarla. Così la morale. Si pos-
sono massacrare milioni di persone e non sentirsi
in colpa, non vederci il Male. Quale Decalogo con-
danna il genocida?
La Legge si fonda sul disgusto: è solo il nostro rac-
capriccio che lo condanna.
[8] Abbiamo corro o Dio. Lo abbiamo ridimensio-
nato.
Da sovrano onnipotente a schiavo del sentimento, il
Padre Celeste si è deprezzato, Cristo lo ha condan-
nato, lo ha incatenato al bene che elargisce, al bene
che ora crediamo Egli sia.
C’è una cosa che assolutamente non può fare: im-
pedire che ai giusti vada il premio e agli empi il ca-
stigo.
Non può ingannare, non può mentire. Lo abbiamo
inchiodato ad una morale da catechismo. Abbiamo
castrato la sua onnipotenza. Dio è schiavo delle ri-
compense che ha promesso, poiché null’altro è Dio

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se non il paradiso che prome e e gli inferni che mi-
naccia; Dio è quello che ha de o.
Poiché Dio è per la creazione, Dio è per l’uomo, e
Cristo non ha senso se non in funzione dell’uomo.
Come non sfidare l’Onnipotente, se per lui siamo
così importanti da fargli edificare un universo in-
tero, se solo per noi ha massacrato se stesso a ra-
verso la carne del Figlio?
Dio non è nulla senza l’uomo, non è nulla e non può
essere nulla di diverso dalla pace che all’uomo ha
garantito.
Dio è un pa o, un accordo a cui neppure Lui può
sfuggire.
La tentazione, il pomo, il serpente, il peccato, il
Male stesso, la creazione tu a sono trucche i, mi-
seri espedienti da teatro per avvicinarci al senso,
per perme ere a noi, illusi sovrani delle cose, di in-
ventare la nostra centralità.
La nostra fi izia centralità. Una centralità che non è
nulla.
Abbiamo inventato Dio per giustificare la nostra su-
perbia, per farci imperatori del cosmo e suoi giu-
dici. Terrorizzati dalla morte, immaginiamo un
aldilà che non ci privi del sentire, che ci garantisca
carezze eterne.
[9] La Convinzione si sposa fatalmente con la mio-
pia; l’idea, senza eccezioni, indirizza lo sguardo e
devia osservatore ed osservato verso una direzione
che essa stessa promuove.
La vita è il surrogato di una Concezione qualsiasi.
È un’assurdità. Ma è folle denunciarla.
Anche l’abbandono della vita ha le sue ragioni, la

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sua aritmetica, le sue proporzioni.
[10] Finché ci si ingegna a preservare la vita, ci si ac-
corda con essa. Rivoluzionare per vivere non è
nulla, è ristagno, è reazione.
Ma anche rifiutando di vivere, morendo volonta-
riamente, urliamo la nostra protesta, la nostra di-
pendenza da tu o ciò che è vivo: siamo ancora
contaminati dall’utopia, dalla sozzura degli ideali,
dalla Vita. Un coma continuo, un coma da veglia,
questo è trionfo sulla vita: vincere la volontà, farla
a pezzi, assassinare le scelte e i moventi.
[11] Siamo servi finché abbiamo lacrime per i fune-
rali, finché sentiamo il tragico, finché sovrasti-
miamo i destini.
La pace è bonaccia, quiete, deserto; è prosciugare
lacrime e piallare sorrisi.
Superata la debolezza della pena, niente può scuo-
terci: nessun crimine varrà più il nostro sdegno,
nessun amore i nostri rossori. La beatitudine è
senza afflati. Il paradiso esclude il sentimento, la
sua delizia è sterile. Il paradiso è delle rocce, eter-
nità di anime inorganiche.
[12] Non si può fare a meno di essere uomini. Deli-
berare è il nostro destino, cianciare la nostra puni-
zione.
Solo i morti hanno vinto il mondo, solo i dementi; e
i mai nati; anche i suicidi sono ridicoli al loro con-
fronto.
La strada non è morire, ma lasciarsi andare, rinun-
ciare a tu o e aspe are che questa rinuncia porti, se

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deve, la morte, non più deliberata, ma conseguenza
naturale di una non-scelta, punto di arrivo di una
morte che c’è già prima dell’ultimo respiro.
Anche lo sce ico scende a pa i con la vita, ricono-
scendone il cara ere tu ’altro che spiegabile, ri-
nunciando al giudizio, adagiandosi nell’epoché: il
suo astenersi è parto della ragione; la differenza fra
l’idealista e lo sce ico sta solo nei modi, non nella
sostanza.
Ha ragione Schopenhauer: affrancarsi dalla vita e
dimenticare la vita sono tu ’uno.
Il resto è accademia.
[13] Non ci sono destini peggiori di altri. Non po-
tendo valutare il dolore, misurarne la profondità, la
portata, è assurdo codificare una graduatoria della
sofferenza, una gerarchia del patire.
Il peggio è democratico.
[14] Se puoi rimandare a domani la tua morte è per-
ché la tua morte non è indispensabile, è perché tu
non vuoi morire, perché non hai nessuna intenzione
di farla finita.
Rimandi a domani, ma domani rimanderai ancora,
e poi ancora, e poi ancora.
Non si proroga l’intollerabile.
Ma quando hai deciso, allora speri che la morte
mantenga le sue promesse: eliminazione del pro-
blema tramite la speranza della tua eliminazione.
Ci vuole dolore, ci vogliono le spalle al muro. Finché
hai anche solo una possibilità, finché puoi anche
solo immaginare un’altra via di uscita, non la farai

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[15] All’inizio è un vagito. Il vagito è il senso e il
simbolo di tu o il resto: urla, lacrime, bisogno.
Il vagito.
A diri o, poi, diventa preghiera.
[16] Non si concepisce l’inconcepibile finché non si
sanguina. Accasciarsi in un sorriso ebete, convin-
cersi che ci siano tronchi cui aggrapparsi, tu o que-
sto è niente. Con buona pace di Afrodite, anche
l’amore non conta nulla se non ferisce. Anzi, conta
solo quando ci distrugge. Solo annientandoci una
volta può sme ere di farlo, per sempre. Finché
"amore" non avrà più senso, finché questa parola
equivarrà a disperazione, e poi a indifferenza. Il do-
lore salva dal dolore. Il dolore anestetizza. Il dolore
ci insegna ad abbandonare tu o, e che tu o quello
che abbandoniamo è nulla.
[17] Immagino un aldilà senza contenuti.
Dopo di me? Non ci sarà un dopo: il mondo, sin-
cronizzato con le mie palpebre, si chiuderà.
[18] Per essere nel vero bisogna non essere da nes-
suna parte.
[19] Anche per abbandonare la fede ci si serve di
essa. Trovare ragioni è ricadere in essa.
Si vincerebbe la fede sme endo di fare ogni cosa per
nessun motivo.
Vivere è avere fede. Tentare di superare la fede è
avere fede. Credere in Dio è avere fede. Annientare
Dio è avere fede. Non pronunciarsi è avere fede.

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La fede è superiore a Dio. La fede viene prima di
Dio. La fede viene prima dell’ideale e della ragione,
prima durante e dopo ogni a o.
Vincere la fede. Vincere la fede è vincere la vita, la
morte, il paradiso e l’annientamento, il dogma e il
vuoto, lo spazio e il tempo.
Vincere la fede è l’irraggiungibile stato di perfe-
zione oltre l’orizzonte degli eventi.
[20] Ami? Soffrirai del dolore dell'altro. Le sue fe-
rite saranno le tue ferite. Il suo cancro sarà la tua ro-
vina, il tuo cancro la sua. Vi amate, e vi incatenate a
tumori che non vi appartengono.
Amare è ridursi in schiavitù.
[21] La mistica chiusura all’assurdo del reale, la
guerra contro le parole e gli ideali, la dissezione in-
finita delle prospe ive, la loro riduzione a puro
nulla: quanto sforzo per un essere miserabile!
Quanto fumo per l’uomo, cadavere ambulante.
La morte annienta ogni slancio; ogni ascesa, davanti
alla morte, sa di presa in giro, di inganno cosmico.
Che io muoia, questo rende vano ogni sforzo; che
io, proprio io, non sia immortale, nullifica ogni im-
pegno, ogni engagement; scomparirò, e allora cosa
volete che importi il male del mondo, le catastrofi
inarrestabili ed inarrestate dell’esistenza? Morirò:
come può ancora far presa la lo a contro la disso-
luzione, se essa stessa è il fine di ogni cosa? Come
godere nel fare, se la prospe iva del mio agire è la
stessa del mio dissolvermi?
E nonostante questo, me iamo al mondo nuove e
già defunte vite. Ecco a che serve preservare la spe-
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cie: a moltiplicare il numero dei morti.

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