giovedì 22 novembre 2007

Estratto dall'opera "a mezz'aria"

Estratto dall'opera "a mezz'aria" di Carmine Aceto


E un errore ho commesso – dice –
un errore di saggezza
abortire il figlio del bagnino
e poi guardarlo con dolcezza
ma voi che siete a Rimini
tra i gelati e le bandiere
non fate più scommesse
sulla figlia del droghiere”
Ultima strofa di Rimini di Fabrizio De Andrè.


· Dobbiamo sapere il nome della ragazza che viaggiava con suo figlio!-
· Dottore non la conosco! È la prima volta che la vedo… non so nulla di lei…-
· Bisogna rintracciare i suoi familiari… La situazione non avrà una facile soluzione.-
· Come stanno adesso?-
· Suo figlio e quella ragazza, in questo momento, non stanno da nessuna parte… in questo momento sanno più cose di noi, ma purtroppo non possono dircele. Lo so signora che le sembreranno solo belle parole, ma mi creda non è poesia la vita, la vera poesia è quella macchina che tiene in vita suo figlio nell’attesa che lui sia in grado nuovamente di farsi vivere da solo…-
· Ce la faranno?-
· Non deve chiederlo a me, deve chiederlo a loro… quando l’avrà fatto mi faccia sapere la risposta…-
L’anima ha simpatia per le cose diverse da lei, per le cose senz’anima. Una ragazza ha perduto nome e anima e adesso le cerca con un tubo in gola. Una donna cerca di fare la domanda giusta ad un figlio che dorme senza sonno. Un dottore prega di sapere cose che non ha mai saputo. A volte capita che siamo presenti nelle vite degli altri, ma come figure di contorno, appariamo sfocate in un angolo, vicino alla cornice. Quelli sono attimi dove quegli altri si giocano tutto, mentre noi non mostriamo consistenza alcuna; origliamo i loro sospiri, ci muoviamo come fantasmi, non lasciamo tracce. Potremmo essere dei perfetti assassini e forse lo siamo. Mi sono visto da fuori mille volte, me ne stavo appoggiato ad un muro e faticavo a respirare; era quando agli altri succedevano cose e a me non restava altro che procedere con la mia estraneità. Un passo avanti c’era la vita, uno indietro c’ero io con le spalle al muro. Il corso del tempo aveva iniziato a scattare la foto in cui in quel momento mi trovavo, in maniera idiota, perché il tempo che passa somiglia a chi lo lascia passare. Non mi fa paura darmi dell’idiota, non mi fa paura il tempo che passa, ma mi fa paura questa mia impalpabile presenza nel momento essenziale della vita di qualcun altro. La schiena del destino è l’unico segreto per il quale varrebbe la pena sacrificarsi, purtroppo ci doniamo a cose più frequenti ed inutili per impazienza o curiosità. La luce del corridoio dell’ospedale rendeva lividi i volti di tutti coloro che si trovavano lì nell’attesa di sapere verità definitive sul potere del mondo reale, destinato all’ultima sfida con l’illusione della libertà umana, il coma. La ragazza aveva fatto l’amore con me qualche notte addietro. Tranquilli, la mia presenza in ospedale in quel preciso momento non centra niente con la casualità; piuttosto, la volontà che avevo mostrato nell’essere lì, era sospetta. Avevo seguito lei e quel ragazzo per tutta la notte, li avevo pedinati con ostinazione fino a giungere in quel posto dove loro neanche sapevano di essere arrivati. Era come se fossi riuscito a scavalcare le loro vite e li avessi preceduti nel tempo futuro. Quando si sveglieranno, se si sveglieranno, io sarò già qui da un bel pezzo, qui nella loro vita, senza un motivo plausibile che giustifichi la mia azione e che mi permetta di acquisire una forma qualunque nella fotografia. Solo qualche mattino prima mi ha svegliato lo squillo del telefono, ho aperto gli occhi e l’ho vista sul mio petto, eravamo nudi entrambi ma, chi sa perché, lei mi sembrava più nuda di me. Il trillo continua e io mi alzo cercando di non svegliarla, ma non ci sono riuscito, lei dice qualcosa d’incomprensibile, tocca a me arrivare al telefono e rispondere.
· Pronto?- dall’altra parte c’è una voce che ancora appartiene a lei, è il suo ragazzo.
Sono vuoto, non devo essere una voce come tante per lui, ma non me lo fa capire e di questo, in cuor mio, lo ringrazio. Cerca lei, è una cosa urgente, sa che ci vediamo e mi chiede se è lì da me. Non trovo nessun buon motivo per mentirgli e gliela passo.
Lei spalanca gli occhi quando le avvicino il telefono e le dico chi è.
· Ma come ha fatto ad avere il numero?- dice prendendo la cornetta, poi io mi stendo nuovamente accanto a lei e la guardo coprirsi i seni con il lenzuolo. Parlano ma non li ascolto, io guardo, guardo tutto quello che c’è intorno a me in questa stanza, mi ricordo di un’altra donna che era qui stesa dove ora è stesa lei, solo un paio di mesi fa. Quella donna non mi faceva mai rispondere al telefono, soprattutto la mattina. Lei mi fa segno di non muovermi, che altrimenti si sente il cigolio del letto e sembra brutto. Trattengo il respiro, non so se per farla contenta o se per evitare di dirle che è una stupida. Prendo le mie mutande da terra e mi copro la faccia, perché anche se tengo gli occhi chiusi, mi sembra di vederla ugualmente con quel telefono in mano e con quel dito fra i denti. Perché devi mangiarti le unghie adesso?
· Si, lui è qui con me…- gli dice salutandolo, e io mi domando quanto la debba amare quell’uomo per arrivare a fare delle domande così stupide pur di sentirla parlare ancora un poco.
Posa il telefono e guarda, adesso è lei che guarda me e mi toglie le mutande dalla faccia.
· Vuoi sapere perché mi ha chiamato?-
No, non ne ho voglia ma sto zitto e faccio finta, è dalla sera prima che faccio finta e mi viene bene se lei finisce di parlare e mi bacia sul collo; l’accarezzo e le tappo le orecchie, forse è lì che restano le parole, nelle orecchie, e non vanno da nessun’altra parte, non raggiungono niente, men che mai il cuore, ma questo, per mia fortuna, il tuo ragazzo non lo sa e non sarò io a farglielo sapere.
Tu dovevi essere l’ultima,
coprirmi le spalle dal nemico
o mandarmi in guerra
con un saluto.
la tua voce è venuta fuori dal telefono per farmi soffrire scende nel mio corpo e non ritrova il nostro comune passato sciolto in una notte acida con un altro corpo
Tu dovevi parlarmi
Con gli occhi aperti
E farmi tenere stretti i pugni,
tu dovevi stare con i piedi per terra
e con i piedi arrivare lontano
da me
per farti seguire.
ansia di guarigione da questo male tremendo e inutile che mi conserva fedele al tuo cuore aperto a tutti e io che chiudo la mia casa alla luce mi sento scoperto anche se sei tu quella che non pensa al nostro amore in quest’alba sottile che ferisce il risveglio
Dopo l’ultima donna sanguino un po’,
tu dovevi dirmi che non mi amavi
non basta starsene in silenzio
quando ci si guarda,
tu avevi un segreto nel cuore
e hai pensato che io fossi il tuo indovino,
tu eri nel mio letto
io nel tuo cuore
e non ci si incontrava mai
dopo di te sto con me l’ultimo me che ancora va in giro a baciare una donna che saprà calmargli la tosse le offrirò un po’ di tempo e mille storie che sembrano amore ma che poi viste da dietro sono tutto dolore dolore che viene da me e da te
Il dottor Ballard entrò nel suo studio con addosso il peso di tutte le anime che aveva perduto. Due nuovi arrivi in piena notte, due candele che non si capiva se si stavano spegnendo o se avrebbero retto al buio dei sensi. Si sdraiò sul divano ma non si tolse dal collo il suo stetoscopio rotto. Erano anni che si portava dietro quello strumento oramai inutile, sperava di sentire, attraverso quel metallo, un soffio di cuore diverso, una vita che non fosse percettibile agli altri esseri umani. Cercava un paziente che non avesse bisogno di malattie da temere e che fosse contagiato da ogni male mortale. Uno stetoscopio rotto non sarebbe bastato a trovare un predestinato, ma l’illusione ha bisogno di mezzi inutili per alimentarsi dentro di noi. Chiuse gli occhi e immaginò il petto sul quale il suo stetoscopio avrebbe ripreso a funzionare, il battito gli sarebbe giunto fino al centro esatto della mente e la paura di non farcela lo avrebbe abbandonato per sempre. Fino ad allora gli toccava fare i conti con la sparizione improvvisa della vita della gente, con la scomparsa del fiato e dei rumori del cuore. Il soffitto dello studio gli sembrò poggiarsi lentamente sulla sua fronte, aprì gli occhi e sentì bussare alla porta.
· E’ aperto… non c’è niente che valga la pena di conservare in questo studio.-
La porta si aprì ed entrò un uomo di circa cinquant’anni, aveva un viso tirato e gli occhi spalancati.
· Dottor Ballard, ha un paio di minuti da dedicarmi?- disse l’uomo avvicinandosi al divano. Il dottor Ballard restò immobile, steso sul divano, aprì leggermente gli occhi e fece una smorfia simile ad un sorriso.
· Posso dedicarle anche più di un paio di minuti, ma non si aspetti che questo serva veramente a qualcosa. Qualunque sia la cosa che è venuto a chiedermi, è bene che sappia subito che non ci sarà una risposta esatta che io potrò darle. Sono un medico non un matematico…ho limiti insuperabili e poche certezze terapeutiche.-
· Dottore, non so se si ricorda di me, sono il dirigente amministrativo dell’altro ospedale della provincia…-
· Non sarà venuto per confrontare le nostre inutilità con le vostre, voglio sperare!-
· Sono qui per chiederle un favore personale…-
· Cose di questo genere dovrebbero chiedersi agli amici…-
· O agli sconosciuti! – l’uomo si fece nervoso.
· Cosa deve nascondere e perché?- gli chiese a bruciapelo il dottore.
· Mia figlia è incinta… ha diciotto anni e tutta una vita di progetti da completare. Un bastardo le ha confuso le idee e adesso si ritrova in questo guaio. Deve abortire! Lei capirà che preferirei che questo fatto non si sapesse all’interno dell’ospedale in cui lavoro, potrebbe compromettere il buon nome della mia famiglia. E’ sempre preferibile evitare chiacchiere inutili. E’ per questo che sono venuto da lei, vorrei che il tutto fosse svolto nella massima discrezione.-
l’uomo sembrò improvvisamente essersi liberato da un peso.
· Sua figlia dov’è?-
· A casa-
· Dovrebbe essere qui a parlare con me, dovrei sentirle dire certe cose, cose che contano.-
· Vede dottore, come le dicevo prima, mia figlia al momento è ancora confusa, quel bastardo le ha rimescolato il cervello…non è in grado di decidere da sola…ha bisogno che la sua famiglia le stia accanto… poi lei saprà molto meglio di me cosa può provare una donna che deve abortire. - cercò di svicolare l’uomo, ma il dottore si alzò dal divano e lo fissò negli occhi.
· Mi dispiace ma lei mi sopravvaluta, io posso ben sapere cosa prova un uomo quando urina restando in piedi, ma non potrò mai sapere cosa prova una donna che deve decidere se abortire o meno. Quello che sente lei nello stomaco non potrà mai appartenere alla mia natura e io potrò fare attenzione alle sue emozioni, ma mai arrivare a sapere quello che lei prova. Le sue difficoltà sono troppo al di sopra delle mie capacità emotive. Per noi uomini l’unico problema reale che ci troviamo ad affrontare è quello di riuscire a pisciare nel vaso! Non c’è paragone tra il loro sapere e il nostro. – disse il dottore stringendo lo stetoscopio nella mano e uscendo dallo studio senza degnare di uno sguardo l’uomo.

La madre del ragazzo aveva un Dio. Gli inviava silenzi non sapendo bene cosa pensare di tutto quello che stava accadendo a suo figlio. Dopo alcune ore, durante le quali aveva atteso in piedi che arrivasse qualcuno a dirle che era tutto finito, che era stato qualcosa di simile ad uno sbaglio, si era rassegnata a sedersi su una scomoda sedia azzurra. Cercava la posizione migliore per non sentire dolore, ma era un movimento infinito iniziato, per lei, da decenni. Le era sempre sembrato di vivere stando nella posizione sbagliata, non riuscendo a coordinare i desideri alle cose che le sue mani toccavano o ai passi che i suoi piedi muovevano. Si sentiva scomposta, scomposta era il termine che le piaceva utilizzare nel ripensare a com’era passata attraverso tutti i giorni che quel Dio le aveva concesso fino ad allora. Il dottore le aveva detto di fare una domanda a suo figlio, ma lei non era sicura di volere sapere la risposta. Era sola in quel corridoio stretto e dal soffitto basso, ogni tanto passava di lì un uomo che le era parso cercare qualcosa o qualcuno, lei sperava che non le chiedesse informazioni, se avesse solo provato ad aprire la bocca ne sarebbero venute fuori urla, le lacrime no, le lacrime si erano come trasformate, solidificandosi in una grossa bolla che andava gonfiandosi tra un polmone ed un altro. Suo figlio le scappava dalla mente, abbandonava i suoi pensieri per far posto all’immagine di quella ragazza a lei sconosciuta, che non aveva nessuno che potesse chiamare forte Dio al posto suo. Da qualche parte, qualcuno stava forse aspettando quella ragazza, si stava affacciando dalla finestra per cercare il suo ritorno nel buio della strada, si stava sentendo solo come si sentiva sola lei, seduta di traverso nel corridoio dell’ospedale. I genitori di quella ragazza non potevano neanche piangere, pensando a questo capì, come a volte, la fortuna possa trasformarsi in un’orrenda beffa. Il dottore uscì da una stanza lì vicino e le passò accanto stando ben attento a non lasciar trasparire il minimo indizio dal suo sguardo stanco. Che pensare dei dottori e degli ospedali? Erano pronti a guarire uomini e donne ma non a mettere delle sedie più comode nelle sale d’attesa, il suo Dio, una cosa simile, non l’avrebbe presa sottogamba.
L’erba alta era umida ma loro non se n’accorsero. Si stesero l’uno accanto all’altro e dedicarono i loro occhi al cielo senza stelle, ma con una grande luna piena che sembrava fare da faro in mezzo al mare in burrasca. Avessero avuto una barca, avrebbero remato fino al largo e se ne sarebbero stati in silenzio ad ascoltare i gorgoglii delle onde, che si sarebbero infrante contro la prua. Il prato, in ogni caso, non era male; la notte poteva passare sopra di loro ma non prenderli alle spalle, almeno così loro credevano. Le loro schiene, ben poggiate sull’erba, erano al sicuro, la terra era una via di scampo ai sogni ad occhi aperti, che si fanno nelle notti d’estate, guardando un cielo senza stelle. Nessuno dei due aveva voglia di modificare il ritmo della loro compagnia, niente parole, anche quelle strettamente necessarie erano inconsciamente bandite da quel momento. La sera prima, erano stati a ballare in una balera lungo la costa, si erano guardati in faccia mentre muovevano i loro passi in quell’ampio salone, confusi tra persone che, al contrario di loro, ballavano insieme da decenni senza aver più bisogno di scrutarsi nelle linee dei volti. Quella sera qualche parola se l’erano detta, erano stati ambedue d’accordo nel definirsi troppo giovani per quel posto, ma allo stesso tempo si sarebbero sentiti altrettanto fuori luogo in una discoteca; dovevano trovare un posto dove poter ballare sentendo di appartenere a quel ballo, ritrovandosi perfettamente nelle movenze che, quella musica tanto attesa e cercata, avrebbe fatto nascere dai loro arti.
· Non siamo né vecchi né giovani, non sarà facile trovare qualcosa della nostra misura…- aveva detto lei sorridendo.
· Hai ragione, siamo un po’ tagliati fuori dalle cose che vanno per la maggiore, ma anche noi abbiamo avuto i nostri momenti di gloria! Potremmo citare a memoria tutte le cazzate modaiole alle quali abbiamo dato retta quando avevamo l’età giusta per farlo…- disse lui con un tono di voce che era difficile prendere sul serio.
· E secondo te, qual era l’età giusta?- chiese lei incuriosita
· Sedici anni!- rispose secco lui.
· Perché proprio sedici?-
· A quel punto della propria vita s’inizia a capire qualcosa, ma non tutto e si pensa che quello che manca arriverà, così com’è arrivato quello che fino ai quindici anni non c’era. Credimi, i sedici anni sono un periodo d’alimentazione vitale difficilmente ripetibile nel corso dell’esistenza umana. Con questo non intendo sostenere che quella è un’età indolore, è solo l’età giusta…-
· Solo?- aveva ripetuto incredula lei
· Già, solo. Non darei un gran risalto a questa cosa, perché alla fine l’età sbagliate sono troppo più numerose di quella giusta… non c’è gara! Gli sbagli sono di più…-
· Ma non sono tutti uguali, non credi?-
· Questo non lo so, come detto prima non siamo ancora così vecchi da poterci illudere nuovamente, come quando eravamo degli adolescenti, di sapere da quale parte va presa la vita.-
· Stiamo facendo discorsi pesanti, dovremmo andare a cercare quel posto che fa per noi, dove sarà più facile ballare…-
· Forse ne conosco uno che potrebbe andar bene, ti ci porto domani sera.-
· E perché non adesso?- disse lei mostrando tutta la propria impazienza.
· Domani saremo un po’ più vecchi e questo ci aiuterà ad illuderci meglio.-
Lei aveva capito e adesso guardava il cielo, anche quello era un modo di ballare e sembrava proprio essere quello giusto per loro.
Non ne poteva più delle contraddizioni, erano quelle le cose peggiori della vita. Sudava giorno e notte per strappare al nulla quanta più gente fosse possibile e poi gli si presentava davanti un uomo senza pudore, convinto di sapere come andava condotta la vita su questo mondo, che lo pregava di non far nascere qualcosa che poi in ogni caso avrebbe finito per morire. Un bambino può ispirare tenerezza, in lui creava gli ennesimi interrogativi. Forse questo accadeva perché lui non era in grado di pensare alla vita e ai suoi infiniti fenomeni, senza collegarla alla morte e alla sua inviolabile unicità. Legava vita e morte con un nodo più stretto di quanto sarebbe stato necessario fare. Eppure lo vedeva bene anche lui che le differenze erano nette; la vita aveva tante cose, odio e amore, gioia e tristezza, gioventù e vecchiaia, mille impressioni, nessuna certezza immodificabile. La morte non lasciava altrettante tracce, la morte arriva e non va più via. Una sola volta si smette di esistere ed è per sempre. La morte gli sembrava senz’altro più affidabile, eppure era la sua nemica, la sconfitta da rinviare continuamente, anche solo di pochi secondi. Entrò nel bar dell’ospedale e ordinò un caffè, la cassiera lo salutò con uno sbadiglio. Il caffè era uno schifo, ma lui lo mandò giù ugualmente, era bravo a mandar giù.
La ragazza aveva un tubo in gola, una macchina che ronzava continuamente, le spingeva avanti il cuore per quella salita senza fine. Decine d’elettrodi le ricoprivano il petto e la fronte, sembrava non soffrire ma la gioia era davvero un’altra cosa. Chi ha avuto la forza e la fortuna di uscire dal coma, ha raccontato strane storie di mondi bianchi e di luci intense. Cosa potrebbero raccontare tutti quelli che non ce l’hanno fatta? Sono stati anche loro in visita in quei posti? La stessa luce ha abbagliato anche loro? O, invece, il loro tragitto nell’incoscienza è stato diverso? Cosa hanno incontrato in quel sonno che gli ha impedito di tornare indietro a raccontare le loro visioni? Chi sono i più fortunati, coloro che hanno fatto ritorno o coloro che sono ancora in viaggio?
In una notte come quella sarebbe stato facile baciarsi e arrendersi a vicenda. Magari sarebbe arrivato anche l’amore, ma quei due non erano arrivati fin lì per poi sprecare tutto con una mossa che sapeva unicamente di solitudine. Lui voltò gli occhi verso di lei, la guardò il tempo necessario per poterle dire:
· Mi sciogli il nodo…-
· Cosa?- chiese lei.
· Stai sciogliendo il mio nodo. – ripeté lui.
· Di quale nodo stai parlando?- chiese nuovamente lei.
Lui non rispose e tornò a fissare il cielo, non aveva voglia di spiegarle cose che rischiavano di non potersi mai avverare del tutto.
· Sono stata fidanzata a lungo e non sono mai stata molto fedele…- disse lei improvvisamente senza riuscire a capire il perché.
· Non sarebbe stato più facile lasciare la persona con cui stavi?-
· No… era più facile tradire.- disse lei sicura.
· Ti piaceva tradire?-
· Era meglio che essere fedele, almeno per me…-
· Sei molto bella… credi che se tu fossi stata una ragazza brutta, saresti stata altrettanto infedele?- le chiese lui con la giusta ironia.
· Se fossi stata brutta, sarei stata un’altra persona, forse avrei amato meglio il mio compagno e lo avrei tradito con più fantasia… io tradisco, sono così da bella.-
Lui rise e lei sentì, dentro il proprio stomaco, sciogliersi un nodo.
Da dietro un vetro, pieno d’impronte d’altra gente disperata, poteva osservare suo figlio dormire incurante. Dio doveva suonare la sveglia! Non era riuscita a proteggere suo figlio, ma questo non la stupiva più di tanto, non le era riuscito di proteggere se stessa nei momenti che contavano e quindi sapeva di essere poco predisposta alla difesa. Lei attaccava! Assaltava le diligenze, ma le diligenze non passavano più da troppi anni. Non aveva mai aspettato il dolore, aveva sempre accelerato andandogli incontro a braccia aperte, voleva scontrarsi con lui sperando di sconfiggerlo per sempre. Ma il dolore, qualunque tipo di dolore, ha una natura che si compenetra perfettamente con la nostra, per cui sconfiggere il dolore è come sconfiggere se stessi, se sparisce il dolore spariamo noi. Lei non era ancora sparita, soffriva dietro ad un vetro e viveva. Suo figlio si stava illudendo di poter sconfiggere il dolore con quella messa in scena, ma il dolore non ci sarebbe cascato e lo avrebbe riafferrato per i capelli e riportato in vita. I dottori potevano dirle qualunque cosa, ma lei ne sapeva di più, almeno su suo figlio. Era sempre stato un ragazzo diverso da lei e questo ci poteva stare. Non era uno che attaccava le diligenze, forse guardando com’era finita sua madre aveva capito che non era il caso di darsi a quell’attività, ma non era neanche il tipo che sbarrava la porta e chiudeva le finestre, insomma la difesa non gli interessava allo stesso modo di come non gli interessava l’attacco. Quel ragazzo passava le sue giornate camminando dall’altra parte della strada, non voleva incontrare tutta la gente che aveva incontrato sua madre, voleva andare con il suo passo, fermarsi se fosse stato necessario ma anche se fosse stato inutile. Quel ragazzo non sarebbe arrivato da nessuna parte perché da nessuna parte gli sarebbe interessato arrivare. Una vita senza obiettivi è uno spreco incredibile, questo pensava sua madre, ma sua madre aveva sprecato già la propria e non avrebbe avuto voce in capitolo in quella del figlio. Il figlio non era la sua seconda opportunità, era tutto quello che aveva tirato fuori dalla prima. Da quella distanza, non poteva sentire l’odore della pelle del figlio, forse il coma rende inodore, toglie il superfluo, ci restituisce al minimo indispensabile e ci costringe ad adeguarci. Il suo ragazzo non avrebbe avuto difficoltà a starsene per sempre in quello stato, era proprio questa consapevolezza delle qualità del figlio, che le facevano temere che non sarebbe più tornato. Perché avrebbe dovuto farlo? Non aveva nessun’opera da completare in questo mondo, non gli sarebbe interessato arrivare puntuale ad un appuntamento né stabilire un record mondiale. Spostò il suo sguardo in direzione del letto della ragazza, doveva essere bella quando rideva, aveva ancora i capelli sporchi di sangue raggrumato.
· Chi sei?- si chiese con un filo di voce, nessuno le rispose.

Il ragazzo non lo conoscevo, non l’avevo mai visto prima di quella sera. Lei, invece, l’avevo conosciuta una mattina, nel ventre ricolmo di gente di un palazzo di metallo pesante, un alveare d’uffici e di doppiopetti. Ero lì a fare qualche scatto per la mia ultima mostra, ancora tutta da preparare. Non potei non notarla, lei era bella, camminava come se cercasse sempre la luce migliore per la sua ombra filiforme. La fotografai di spalle mentre salutava qualcuno con aria distratta, la sua nuca era un inganno sapiente che si dipanava lungo i suoi capelli ramati e che non terminava sulle sue spalle, ma continuava lungo la schiena e non ti lasciava altro da fare che seguirla all’infinito. Non tutte le donne belle sono così, ci sono bellezze più facili, con meno enigmi e labbra più sottili. Mi presentai e le chiesi se potevo farle qualche foto mentre girovagava in quel palazzo; lei non mi parse affatto sorpresa dalla mia richiesta, era come se si aspettasse la mia venuta in quel luogo.
· Io qui ci lavoro… se vuole scattarmi delle foto faccia pure, ma io continuerò a fare quello che devo, senza badare a lei. - mi disse guardando la mia macchina fotografica.
· È proprio quello che voglio! Farle qualche scatto al naturale, senza pose. Il tema della mia ultima mostra dovrà essere la verità. -
· Allora io non sono la persona giusta, mi creda…- e sorrise amaramente.
· Questo lo deciderà l’obiettivo. Riesce a scoprire anche le cose che non andrebbero scoperte…- le dissi mostrandole la mia macchina fotografica.
· Mi scatti quante più foto può…voglio sapere i miei segreti. -
La seguii per tutto il giorno in giro per corridoi di marmo, dentro uffici con scrivanie scheggiate e luci al neon. Fotografai il suo pranzo e la sua stretta di mano, capii subito che il suo volto non aveva bisogno d’illuminazioni artificiali, l’obiettivo la fiutava da distanze impensabili e la conduceva nelle mie foto prendendole la mano.
· Quando mi farà vedere quello che n’è venuto fuori?-
· Non appena verrà a trovarmi…-
Venne una domenica mattina, senza avvisare. Quando andai ad aprire e la vidi ferma sulla soglia della porta, mi venne voglia di buttare tutte le foto che avevo fatto in vita mia.
· Sono venuta a conoscere quella donna che hai fotografato l’altra mattina…- improvvisamente mi aveva concesso la sua confidenza.
Doveva aver ben pensato che darmi del tu, non poteva essere un rischio maggiore dell’avermi permesso di guardarla da così vicino.
Le mostrai i primi cinquanta scatti; li sparpagliai sul pavimento senza alcun metodo.
· Ti consiglio di guardarle restando in piedi. Non ci si deve mai mettere molto comodi quando si osserva se stessi, altrimenti si diventa troppo indulgenti e si vanifica il lavoro dell’obiettivo.-
Si tolse le scarpe e mosse qualche passo incerto tra se stessa, così come appariva vivisezionata dai miei scatti. Fissò tutte le foto come per ricordarsi dove aveva visto quella donna, cercava di recuperare la memoria di gesti innocui e per questo di facile consumazione. Più volte scosse il capo, non le chiesi il perché, io faccio foto non domande e anche così è dura. Non provò a toccare nessuna delle foto e questo mi sorprese, di solito, per le persone che si rivedono in una foto, l’impulso a toccare la propria immagine è qualcosa d’irrefrenabile. Per lei non fu così, seppe mantenere la distanza, non ebbe bisogno di verificare la propria consistenza. Non toccò se stessa.
· Mi fai vedere anche le altre?- chiese con una certa apprensione.
Quando ebbe finito di osservarsi la vidi coprirsi gli occhi con una mano, ma non indagai sulle sue sensazioni. Sapersi scoperti dal nemico è qualcosa che ci può far sentire o finalmente liberi o può farci mancare la terra sotto i piedi, dipende da chi o da cosa credevi d’essere fino a qualche attimo prima.
· Quali tra queste esporrai alla tua mostra?- mi chiese tradendo una certa preoccupazione.
· Tutte! Le esporrò tutte… ti avevo detto che avrei esposto la verità e la verità non è riassumibile in pochi concetti, va mostrata per intero. -
· Hai ragione… devo dire che mi hai dato più di quello che mi aspettavo. -
· Hai fatto qualche scoperta interessante tra queste foto?-
· Dipende da cosa intendi tu per interessante…-
Sarebbe interessante essere qualcuno di diverso da quello che sono, sarebbe interessante capire perché ti ho seguita e perché adesso spero che questo dottore mi noti e mi chieda cosa ci faccio in questo reparto a quest’ora. Gli risponderei:
· Sono qui per sbaglio… mi sono perso…- e questo mi farebbe illudere sulla mia anima. Sarebbe interessante poter avere un’anima per toccarla continuamente e verificare la propria consistenza…

Maggiori dettagli http://stores.lulu.com/carmiacid

Nessun commento: