giovedì 22 novembre 2007

UNA CITTA', UN GIORNO

Estratto dall'opera UNA CITTA' , UN GIORNO di Giovanni Anello


UNA CITTÀ
Una città... una di quelle che riconosci da lontano. E’ una donna esperta, abile a sedurre e in grado di appagare ogni tuo desiderio.Forte apparentemente e fiera, ma anche fragile e molto incostante, per tanti indecifrabile.Superba fino alla più cieca violenza, ma capace anche di estrema misericordia nei confronti di chi le appartiene. E’ una donna che ora ti ama e subito dopo ti respinge, lasciandoti un senso di vuoto e di non appagamento, fino a che ti stanchi e te ne allontani. Pur nell’assenza, lei ha però lasciato una traccia ormai indelebile sui sentieri nascosti della tua vita. Nulla ci puoi fare, fra dieci, venti, forse cinquant’anni, tu tornerai a cercarla e solo allora capirai quanto l’hai amata di un amore disperato.Per questo chi è nato in questa città e ha deciso di allontanarsene, prima o poi ci torna, per il bisogno di incontrare ancora, anche solo una volta, il primo amore, colei che si è amata un tempo e che ha lasciato dentro ricordi incancellabili.Ricordi di suoni mediterranei e di oriente, di aromi e di fragranze che si mescolano inesorabilmente con gli effluvi puzzolenti delle strade, che insieme impregnano i muri delle case, i vestiti ed anche il midollo dei suoi abitanti.Esalazioni pungenti della città che colpiscono chiunque si addentri nell’intricato dedalo dei suoi vicoli, come l’odore delle balate trasudanti di sole fetido, quando scendono le ombre dietro i fabbricati e chiudono i mercati di quartiere. Odori e sensazioni che sapevano, un tempo, anche di mare e che per forza influenzavano l’umore e il passeggiare della gente. Quella gente che una volta, tanti anni fa, andava a “La Marina” a passeggiare sul lungo marciapiede che fiancheggiava la costa, per lasciarsi bagnare dagli schizzi del mare che si infrangeva sulle pareti della banchina.Quella gente che, seduta ad osservare il mare, ascoltava il ritmo regolare delle onde e sulla base di questa misura costruiva, giorno dopo giorno, l’armonia della propria esistenza.Poi, improvvisamente, venne la guerra e piovvero bombe sulla città. Era il mese di maggio del 1943.Tragico mese di maggio, terribile profeta di nuove sciagure, non sei pago di aver sfregiato per sempre il volto di questa città? Perché mai vorrai colpirla ancora?Molti funerali furono celebrati quel mese, in tanti piansero i cadaveri sepolti sotto le macerie delle povere case crollate davanti al porto, ma nessuno pensò di celebrare, allora, un funerale per la morte del mare.Alla fine della guerra, fu deciso di seppellire il mare là dove era stato colpito senza alcuna pietà, tumulandolo sotto i cumuli di detriti dei bombardamenti e alzandogli dinanzi un paravento di cemento, quasi a voler nascondere il defunto e così togliere in fretta l’abito del lutto, ancora troppo recente.In tal modo la città iniziò a fare a meno del mare, la città “tutto porto” si trasformò in una città tradita, privata della sua identità, quella che la natura le aveva assegnato in dote. Una città senza più il suo mare, presa in giro dai suoi stessi abitanti, che si sono fatti beffe di quella posizione così privilegiata, tra l’azzurro mare da un lato e le verdi colline dall’altro.In quell’altra parte della città, dove si ripete un simile sberleffo, qualcuno ricorda ancora il profumo degli agrumeti, coraggiosamente aggrappati agli ultimi lembi di quella terra ancora non rubata dal cemento: profumi di zagara e di mandarini che si espandevano sulla città, circondata da una corona di montagne divenute in pochi anni solo un ammasso di povere pietre, arse dal fuoco. Tra queste due burle urbane, tra il mare e la montagna, questa città posa le sue fiacche membra, protagonista di una bizzarra commedia, in cui ogni abitante interpreta una parte che ancora molti, purtroppo, hanno voglia di interpretare.Città multistrato, fatta di meccanica e di umanità sovrapposta; città trafficante di imbrogli, speculatrice di sopravvivenza umana, sempre in guerra con la legalità, capace di indignarsi di fronte all’illecito ma che un attimo dopo gli fa da albergo, emblema della schizofrenia di chi vuole riscattarsi dalla miseria, ma allo stesso tempo si compiace dei propri dolori.Una città che accetta uomini e cose provenienti da ogni continente e li mescola disordinatamente senza grazia. Brandelli di umanità disperata, facce multi-etniche che si confondono in un arcobaleno di volti ed espressioni.Città superba, che ambisce a diventare metropoli europea ma che, invece, si accontenta dell’apprendistato. Un tirocinio prolungato, che si trascina da troppi anni, frenato dalla pigrizia di tutte quelle città del mondo dove il sole brucia qualsiasi cosa, persino la voglia di rivalsa. Città oziosa e indolente, dove un’ora di orologio non è quasi mai fatta di sessanta minuti, da sempre abituata alle modifiche imposte dal tempo, dalla rotazione ininterrotta dei conquistatori che hanno abitato le sue terre. Invasioni protratte per secoli, che malgrado tutto hanno lasciato in eredità la vera ricchezza di questa città: un patrimonio raro di mescolanze culturali, artistiche e architettoniche che ben la distinguono fra le altre città del mondo. È però un’eredità acquistata a caro prezzo, pagata con una moneta di riscatto che è costata ad alcuni sangue e sudore, ma che altri invece hanno preferito lasciare in debito, accumulando per secoli montagne di interessi mai pagati e che oggi sono diventati i caratteri di una popolazione: l’incapacità di difendere la propria terra, di difendere il proprio patrimonio artistico, l’incapacità di restare fedeli alla propria storia.Una storia gloriosa, iniziata nell’ottavo secolo prima di Cristo ad opera dei Cartaginesi, passata più tardi ai Romani, poi agli Arabi, ed ancora ai Normanni, quindi agli Aragonesi, e così via, fino all’Unità d’Italia.Dimentica del suo passato, alla fine questa città ha lasciato un’impronta maligna sul carattere di molti suoi abitanti, che oggi difficilmente può essere cancellata, come se un nuovo “peccato originale” fosse indelebilmente impresso nell’anima di coloro che hanno la ventura di nascere e di vivere in questa città. Resistono per fortuna gli “eroi”: persone normali, che sopravvivono al carattere di questa città, persone che hanno puntellato il percorso di una storia antica e moderna, con la determinazione che richiedono le scelte decisive, quelle che restano scolpite nella storia con la forza ed il coraggio di non tradirle mai: il coraggio di scegliere definitivamente, senza che le infinite contraddizioni di questa città possano in qualche modo scalfire la consapevolezza di aver fatto la scelta migliore, anzi l’unica che poteva essere fatta, in questa città che si chiama Palermo. (continua.....)

ALFREDO
La sveglia del professor Mantovani era puntata alle cinque e mezza, ma negli ultimi cinque anni quella sveglia non aveva più suonato perché, immancabilmente, il dito del professore premeva il pulsante del vecchio orologio pochi istanti prima che questo facesse sentire la suoneria.Così, anche quella mattina, il silenzio della via Resuttana non venne disturbato dall’irritante campanello di quell’antica sveglia.Per il professor Alfredo Mantovani, partecipare al crepuscolo mattutino era diventato un bisogno irrinunciabile: un’oasi di quiete che negli ultimi anni lo aveva aiutato a placare i tumulti dell’anima e ad ascoltare, per quanto credesse di poter fare, il silenzio di Dio.Da qualche mese, però, le mattine del professore erano diventate meno serene del solito. Giunto alla soglia dei sessantatré anni, anche per lui era arrivato il momento in cui ognuno inizia a riepilogare la propria vita e si rende conto all’improvviso di essere giunto a quell’età in cui vengono emessi i primi verdetti.Come ogni mattina il professore preparava la caffettiera. Con la schiena poggiata sull’unica sedia rimasta in cucina, anche quella mattina prese il contenitore della miscela, un vecchio barattolo di Nutella adibito al nuovo uso dopo che i figli l’avevano avidamente svuotato, ma questo era accaduto molti anni prima. Svitò con le dita affusolate il coperchio di plastica e versò con un cucchiaino la polvere nera nel filtro della moka.Mentre eseguiva quel rito mattutino, quasi gli si materializzò dinanzi un’immagine di se stesso, appena dodicenne, nella sua vecchia casa di Meda, mentre beveva il latte tiepido da una tazza colorata, ricordo della sua infanzia, e poi l’immagine di suo padre, che parlava a bassa voce per non svegliare il fratello più piccolo, e quella della madre, che gli preparava il giaccone più pesante per ripararsi dal freddo.Le voci gli rimbalzavano in testa, provenienti da chissà quale stanza della sua memoria.– Mamma, sto andando a zappare, con questo maglione sentirò troppo caldo…– Portalo Alfredo, ascolta tua madre…Nonostante fossero passati cinquanta lunghi anni dall’ultima volta che aveva accompagnato suo padre ai campi, Alfredo riusciva a ricordare ancora l’odore acuto del petrolio con il quale il padre preparava i lumi per la notte e il rumore sordo del calpestio degli stivali in gomma dura. Il professor Mantovani, figura alta, snella, un volto ricamato da un buon numero di rughe sapienti, impreziosite da un’aureola di capelli grigi che gli conferivano un aspetto piuttosto signorile, era figlio di contadini. I suoi genitori l’avevano fatto studiare ed incoraggiato all’insegnamento. Al termine dei suoi studi era diventato professore di lettere in una scuola media di Milano. Era felice, anche i suoi genitori erano contenti del loro figlio. Ogni mattina si alzava molto presto per prendere la prima corriera che lo portava da Meda al Terminal degli autobus di piazza Luigi di Savoia, davanti la Stazione Centrale. Erano anni felici, quelli. (continua....)

ANTONIO
Antonio non aveva dormito bene quella notte e quel poco di sonno che era riuscito a raggranellare era stato disturbato da un pensiero che lo aveva assai tormentato. Questo gli accadeva in realtà frequentemente, ma per motivi assai diversi, molto comuni tra gli adolescenti che durante le notti sperano degli amori impossibili. Svegliatosi dalle urla intimidatorie della madre, quel giorno Antonio si era alzato dal letto con il fermo proposito di non andare a scuola. Ma purtroppo, non avendo ancora un carattere così volitivo, come ogni mattina Antonio si vestì di tutto punto, fece un’abbondantissima colazione a base di latte, biscotti e Bondì Motta, ed uscì da casa con lo zaino sulle spalle.“Chi se ne frega delle ultime interrogazioni” pensava, mentre a piedi già si incamminava verso la fermata dell’autobus. Antonio era il secondo ed ultimo figlio di una famiglia come ce ne sono tante a Palermo, appartenente a quel ceto favorevolmente propenso al consumo, grazie al quale il sistema economico di questa città, fondato prevalentemente sul commercio, riesce a sopravvivere. Quando nacque, suo fratello era già troppo grande. Per questo, non potendo condividere con lui i giochi dell’infanzia, era cresciuto affettivamente come se fosse figlio unico, dividendo i primi anni della sua vita con i personaggi dei cartoni animati giapponesi. Era abbastanza alto di statura, più alto di molti suoi coetanei, capelli nerissimi e un po’ pacchionello, ma non in modo esagerato; aveva quel po’ di ciccia sufficiente a creargli un celato complesso di inferiorità nei confronti dei suoi compagni. Frequentava il quarto anno dell’Istituto Tecnico Commerciale “Duca degli Abruzzi”.Non aveva brillato tutto l’anno, come del resto non aveva fatto in quelli precedenti, accontentandosi del “sei politico” in tutte le materie. Nel corso della sua pur breve esistenza aveva infatti assunto uno stile di vita molto diffuso tra i giovani della sua età, finalizzato esclusivamente al raggiungimento di un obiettivo minimo indispensabile: la promozione. Nessuna ambizione ad eccellere, nessun desiderio di competere: se qualcuno dei compagni di classe voleva emergere, Antonio era il primo a farsi da parte.Per raggiungere questo obiettivo minimo, Antonio utilizzava una pratica cognitiva abbastanza elementare, accompagnata però da una buona dose di furbizia, basata sulla collaudata formula “minimo sforzo - minimo apprendimento”.Si era presto stancato delle raccomandazioni che, sin dal primo giorno di quell’anno scolastico, avevano fatto i professori, tipo l’importanza di “studiare al quarto anno, soprattutto per arrivare al quinto e presentarsi l’anno dopo, agli esami di stato, con una buona media”.Non aveva importanza per lui diplomarsi con un bel voto, semplicemente perché pensava di aver già deciso cosa fare da grande: arruolarsi nell’Esercito e fare il militare di carriera: “tanto prendono a tutti”, diceva. (continua....)

ADRIANA
Adriana pensava che la vita, finalmente, stava offrendo anche a lei un po’ di fortuna. Non era mai stata molto generosa nei suoi confronti la vita, almeno fino a quel momento.Perfino quella volta che tutte le ragazze del bairro l’avevano tanto invidiata per il fidanzato italiano, anche quella volta, il “colpo di fortuna” così sbandierato alle amiche si era in poco tempo rivelato una beffa, abilmente mascherata da buona sorte.“Se si sblocca la situazione, questo lavoro lo mollo, finalmente!”Il tempo passava, le auto schizzavano incuranti di lei e della bambina. Adriana iniziò a preoccuparsi, non per se stessa ma per la sua creatura e così un’ansia latente la colse impreparata. Dovettero passare più di 10 minuti, ma infine l’autobus arrivò. Adriana fece segno all’autista, quindi con qualche difficoltà salì sui gradini con il passeggino tra le braccia.Si accorse che tutti i posti erano occupati. Si diresse verso l’obliteratrice per timbrare il biglietto. “Speriamo di trovare posto…”Come se qualcuno avesse ascoltato il suo pensiero, immediatamente un ragazzo dell’ultima fila si alzò per farla sedere. Adriana lo ringraziò e si sedette.Quel giovane si offerse persino di timbrarle il biglietto. “Però, che gentile…” pensò.Il ragazzo rimase in piedi, accanto ai due sedili. “Forse lei è una sua amica…”, pensò Adriana, osservando la giovane fanciulla seduta di fianco.La bimba si era appena svegliata. – Oi pequena… Con un movimento della mano fece scattare la cinghia del passeggino, liberò la bambina e la prese in braccio. – Che bimba deliziosa, come si chiama? – chiese la ragazza.– Silvia. – rispose Adriana, lieta che anche quella graziosa ragazza si complimentasse per la bambina.– Oh… – fece la ragazza porgendole un dito – ciao Silvia! Da dove vieni tu? Come sei abbronzata…– Veniamo dal Brasile – si limitò a dire Adriana, in un italiano quasi perfetto, nonostante i pochi anni di permanenza in Italia.Non voleva essere più precisa circa le sue origini, anche se ebbe la percezione che la ragazza seduta al suo fianco fosse davvero molto simpatica. D'altronde perché avrebbe dovuto dirle che erano originari di Salvador de Baia, che era arrivata in Italia da due anni e che la bambina era il frutto di una convivenza nata da pochi anni, ma già finita? (continua...)

UN GIORNO
Un giorno, non uno qualunque, non uno di quelli che, appena passato, ti dimentichi facilmente.Era un giorno di primavera, un sabato in apparenza uguale a tanti altri, un altro sabato da abbandonare nella fonderia dei ricordi, dove il crogiuolo del tempo fonde in un’unica dimensione la memoria di quasi tutta una vita. Quel giorno, invece, si preparava ad essere ricordato per sempre, intrecciando le sorti di un gruppo di uomini, le cui vite si sarebbero fatalmente scontrate contro un muro di vento, alimentato dall’odio bestiale di altri uomini. Dopo quasi cinquant’anni dai bombardamenti americani, un altro tragico maggio di bombe si preparava a diventare, per Palermo, lo spartiacque della storia.Era il 23 di maggio del 1992.Vito, Antonio e Rocco aspettavano con gli altri in aeroporto che l’aereo toccasse terra. Si coglieva una certa tensione, normale per una scorta che doveva tutelare la vita di una persona così importante. Quando si aprì il portellone dell’aereo, gli agenti erano già in posizione con le armi spianate, pronti ad intervenire qualora fosse stato necessario.Gli agenti della scorta non rimasero affatto sorpresi quando Giovanni, appena sceso dal velivolo, chiese di guidare lui stesso la Croma blindata. Lo chiedeva spesso e ogni volta che accadeva i poliziotti avevano un motivo in più per stare all’erta. Giovanni e Francesca dovevano passare un bel fine settimana a Palermo e quel breve viaggio, da Punta Raisi al capoluogo, doveva essere semplicemente una tranquilla passeggiata, un piacevole trasferimento verso la città, dove più tardi avrebbero trascorso la serata in compagnia dei lori più cari amici.Le tre auto si avviarono rapidamente verso l’autostrada, a sirene spente.La prima Croma, marrone come il colore della terra, procedeva in testa alla colonna con Antonio, Rocco e Vito alla guida. La seconda Croma, dal colore di una colomba, avanzava tranquilla, con i coniugi fianco a fianco che parlavano di cose normali, come una qualsiasi coppia di sposi, protetti da Giuseppe, il loro angelo custode senz’ali che stava seduto sul sedile posteriore. Chiudeva il corteo una terza Croma, azzurra come il più bel cielo di Sicilia. Paolo, Gaspare ed Angelo scrutavano attentamente la strada che intanto scorreva liscia come l’olio, cercando di percepire qualsiasi minimo segnale di pericolo. Ma il boia, avvolto nel suo mantello di fiamme minacciose, stava ben nascosto nelle viscere della terra, dentro un cunicolo scavato sotto l’autostrada.Alle 17,59 di quel giorno, le speranze, le delusioni, le gioie e i dolori di quegli uomini, si schiantarono sull’asfalto, esploso con violenza pochi metri prima di uno svincolo autostradale. (continua...)

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