Estratto dall'opera "Andrea, la verbena odorosa e altre...meraviglie"
di Enrico Chanada
Anno 2011. Una città italiana. Prime luci di un giorno inizio autunno.
All’estremo confine con l’anonima periferia, su una collina degradante verso il mare e il centro abitato, immersa in un vasto parco secolare con i suoi edifici in stile neoclassico fasciati da una sottile decadenza, si trova una comunità di recupero per disadattati mentali.
All’interno di una stanza identica alle altre, a tutte le altre che si trovavano negli edifici adibiti ai malati in cura, come ogni mattina, nella fredda silenziosa luce solare, una sagoma scura con sembianze di donna sta immobile seduta davanti alla finestra fissando l’orizzonte dove cielo e mare in congiunzione si caricano a tratti di sfumature indefinibili.
C’è silenzio. Quiete. Tutto appare imperturbabile.
Anche il silenzio e la quiete del mattino, però, hanno i loro suoni, i loro segnali delicati, lisci rumori da vivere, da inalare, da assaporare, da maledire, in raccoglimento, in riflessione…da godere: su di una terrazza poco distante, un borino* leggero, sbattendola dà vita ad una tenda in tela tinta di un giallo stridente. In un viale del folto parco nelle immediate vicinanze, dei gatti senza padroni avvertono, biechi con i loro miagolii, l’imminente inizio di rituali amorosi. Arriva di sottofondo, in un mescolio indistinguibile, anche il suono del già gravato ordinario flusso gommato. L’aria frizzante è piena di salmastro, di acri profumi, di puri vocii in vernacolo, che salgono dal piccolo mercato ittico sottostante, mentre si sta ultimando un’asta di alcune cassette di totani e moscardini appena scaricate da un motopeschereccio, e dalla vecchia darsena dove, in continuazione e ad ogni ora c’è la presenza di qualche vecchio marittimo che ripara reti appassite o che rammenta e favoleggia su burrasche superate. Gabbiani squittenti volano in economia aspettando di racimolare il pasto. In lontananza, avvolta da un’intrisa caligine, una nave cargo con un suono cupo e prolungato annuncia la sua entrata in rada.
Il golfo della città del vento (così nominata e conosciuta per la presenza quasi costante di quel mutevole agente atmosferico), verso Miramare è gonfio di barche a vela multicolori di varie fattezze e dimensioni; i natanti si stanno preparando per l’ennesima Barcolana , festosa regata centenaria che si svolge ogni anno in ottobre, e che richiama centinai di equipaggi ed imbarcazioni da ogni angolo del pianeta.
La camera: semplice, scarna, monocroma, povera di mobilia, quasi spoglia, come a non voler altro che un letto per dormire e poche cose attorno, come s’avesse paura di essere invasa da ricordi; angustiata da oggetti ricollegabili a qualcuno o a qualcosa del suo passato che hanno lasciato un segno profondo, una traccia indelebile su di lei, su quell’ombra intrisa di solitudine che rimane lì, immobile, ferma, sopraffatta.
Fisico esile, ancora integro; è seduta a fissare l’ennesimo giorno che sta nascendo, che produrrà in un alternarsi ininterrotto di contrapposizioni, vita, morte, amore, odio, gioia, dolore e altro ancora a miliardi di individui: ma non a lei. A lei ormai di tutto questo non importa nulla, più nulla.
Niente le si fissa. Tutto le scivola.
…Un lungo respiro come di risveglio la rigenera, riportandola alla realtà.
Così Andrea, da circa due anni, inizia le sue giornate, da quando ha avuto l’opportunità di essere ospitata nel centro terapeutico-riabilitativo per minorazioni mentali “San Maturino”, conosciuto anche più semplicemente come: la comunità. Per il suo aspetto e il clima sereno che prevalevano, la comunità, più che una casa di cura ricordava un albergo, anzi meglio ancora, un casino di campagna.
L’atmosfera distensiva e la quiete di quel luogo però non la rendevano gioiosa. Ci viveva e basta. Doveva starci, o almeno, ci provava.
Così Andrea, da due lunghi anni, inizia e continua controvoglia le sue giornate.
Parlare? No, tranne che per adempiere alle ordinarie attività indispensabili per vivere. Sorridere? E a chi farlo? Per quale motivo? Ma chi è che dovrebbe farglielo fare? No, niente di tutto questo, preferisce starsene sola con i suoi pensieri, con i suoi ricordi, con i suoi dilemmi e con il suo unico vizio: “Le bionde”! Non una inclinazione omosessuale, ma un’attrazione viscerale per quelle stoppie compresse, per quelle paglie affusolate, insomma: per le sigarette.
Ha sempre per le mani un accendino: il “suo” amato e ammaccato Dupont d’argento, che ancora ad ogni ora, anche se reso piuttosto logoro dal tempo, è pronto ad animare con una scintilla l’utile fiammella.
Sì. L’unica attività che le interessi praticare è: fumare. Non accanitamente ma passionalmente, con gusto, assaporando quel miasma velenoso come qualcosa di prelibato, stuzzicante per le sue papille, per la sua faringe, per la sua gola. Con le sue labbra gode d’ogni respiro come fosse un orgasmo.
Di sigarette ne ha cosparso il fondo dell’armadio: pacchetti nuovi, avviati, alcuni privi della stagnola che le aggrega, una stecca di riserva. Se ne fornisce ogni volta che scende in città anche senza averne la necessità. Ed è anche fornita, a sua volta, ogni fine mese da una lontana parente (non sa cosa portarle e sapendo della passione…), abitante nelle vicinanze di Gorizia; unica persona a farle visita. Unica vera amica rimastale, a cui lei però non concede molta confidenza.
…Davidoff…, questa è la marca di sigarette che preferisce.
A causa di questo vizio subisce, ad ogni nuova combustione, una tossetta stizzosa. Malgrado ciò continua impassibile nel suo intento: fumare, fumare, fumare.
Imperterrita seguitava a farlo tutto il giorno: una strippata da vera bramosa.
In camera, per i corridoi e in qualsiasi luogo chiuso della comunità, era severamente vietato, per quella trasgressione si rischiava il permesso d’uscire per diversi giorni, dunque, s’ingolfava più possibile durante la giornata, per ritrovarsi bella sazia all’ora della ritirata.
Ecco il motivo scatenante di quel continuo bombardamento tossico.
Il fumo, per un caso fortuito, non le aveva danneggiato i denti. Quelli, li aveva ancora integri (del tutto simili ad una gran bella protesi, di quelle usate per reclamizzare dentifrici e colluttori), con la loro tonalità naturale, non come avviene a causa della nicotina a molti fumatori incalliti…
Il giorno è ormai iniziato, la luce, ancora per poco radente, tacitamente ha invaso tutto: padiglioni, stanze, scaloni, corridoi, giardini, viali, parco, mensa, la piccola chiesa, il campetto in asfalto per il calcio e la pallavolo, la piscina, la collina, i campi coltivati circostanti, la fascia costiera in fondo all’orizzonte, da Grado fino a Pirano.
E come tutte le mattine, da quella lampante invasione Andrea si difende (altra sua piccola mania), coprendosi gli occhi di uno splendido quanto indefinibile colore, con delle lenti fumé inserite in una montatura classica, taglio rétro, di forma sottile, a goccia. Immortali, come tutto quello che le concerne.
Il rumore quotidiano, brusio frenetico denso di suoni di ogni genere, inizia a risalire dalla città sottostante…
Andrea, quarantacinque anni. Un viso poco segnato dal tempo, ciò nonostante ha occhi carichi di nostalgia, intensi; occhi con espressione di chi ha vissuto tormenti, particolarmente forti, che hanno lasciato segni più profondi nell’anima che sulla carne.
La sua figura è piena di dignità. Ogni movimento è compassato, quasi flebile, discreto ed armonioso, segno di eleganza e buona educazione. Le mani, lunghe ed esili, mai cadono stanche o scomposte ai fianchi della figura: ora sui capelli per accarezzarseli, lisciarseli, ora congiunte sulle ginocchia, ora in tasca, sempre composte, mai gesti, mai fuori posto.
Il suo aspetto, con semplicità, è sempre molto curato. Si veste con abiti anch’essi di gusto e ispirazione d’altra epoca, non alla moda, ma portati come fossero capi dettati dalle ultime sfilate dell’anno. Il suo abbigliamento ricorda le ragazze degli anni ’60, ma lei gli anni sessanta non se li può ricordare, essendoci nata, non li ha vissuti da adulta. Solo vaghi ricordi di bimba.
Ma allora, chi è Andrea? Da dove viene? Che cosa le è accaduto?
Andrea, nome da noi (in Italia) poco usato per una femmina, le era stato imposto da uno zio materno, suo compare di battesimo, a ricordo di una passione amorosa avuta in un paese dell’est Europeo durante la seconda guerra mondiale.
Andrea è una donna che ha consumato con foga la propria vita, sia fisicamente che interiormente.
Andrea la sua vita l’ha vissuta appieno.
Andrea ama, ha amato ed è stata amata profondamente.
Ma allora perché questo silenzio che sa di sconfitta? Perché questo voluto isolamento da tutto e da tutti, come un fuggire, un nascondersi, demolirsi, non voler più essere? Perché ritrovarsi a quarantacinque anni in una comunità terapeutica tra poveri maladattati? Perché questo allontanamento dal mondo esterno come un rifiuto alla vita, come un negarsi la possibilità d’avere ancora tanto da fare, da realizzare, costruire, conoscere, capire, aiutare, come di sapersi inutile?
La sua storia? Traspare appieno analizzando i suoi sguardi: con quei suoi occhi mai spenti, a volte arrossati, che fanno trapelare una malinconica stanchezza, ma in nessun caso domi, sempre vigili come di persona lucida, cosciente, che sa quello che sta facendo – occhi e mente fino alla morte – le ricordava spesso la nonna materna, con cui era cresciuta.
I suoi occhi, taglio Indocina, ti ammaliano, t’incantano con la loro drammatica bellezza.
I suoi occhi, ora di un verde ramato, ora marroni screziati d’ambra, sono pieni di lucentezza, brillano e cangiano come gemme preziose, pronti a confidare e a svelare tutto il marcio che lei si porta dentro; ma lei non lo fa.
I suoi occhi sono giare colme, carichi di bontà, di disponibilità, intelligenza e limpidezza. Eppure lei è qui in questo luogo dove le persone ospitate hanno altri occhi, altri sguardi, usati appena per vedere e non per decidere di esserci.
Andrea questo lo sa e se la sua mente rifiuta ogni contatto con il mondo esterno, il suo cuore non può farlo. Mai.
Nelle belle giornate il parco della comunità si popola degli abitanti della comunità. Una fauna che, in larga maggioranza, alla vista, non si dimentica con facilità. Fragili e indifesi esseri viventi, disconosciuti e abbandonati dal Creatore. Grande sofferenza per gli occhi di Andrea e non solo per gli occhi; la sua mente ogni giorno viene turbata da questo straziante spettacolo a cui non può sottrarsi né tanto meno adoperarsi. L’abitudine aiuta a subire.
Nelle belle giornate ama sedersi su di una panchina appena appena appartata, manco a farlo apposta, in fondo a via della Cicca non lontano da largo del Tabaccaio (qui tutti i viali e le piazzole hanno delle denominazioni balenghe!), con vista panoramica, tra un albero e l’altro, sulla città e sul mare, lontano dai viali, dagli altri degenti, dagli assistenti dipendenti, da quelli volontari non meno validi, dalla confusione, da dove può osservare e controllare con distacco tutto quello che avviene.
Nelle vicinanze della “sua” panchina c’è un reparto che ospita i lungodegenti, quegli ammalati che non hanno, non possono e non potranno mai lasciare la casa di cura; il loro stato mentale non è curabile né recuperabile e la maggior parte di loro, fuori, non hanno niente e nessuno che possa assisterli, accudirli, amarli. Tra questi ce n’è uno in particolare che ha conquistato Andrea e da qualche tempo si vede seduto accanto a lei.
È Zico. Zico, chiamato così da tutti, perché grande amante del gioco del pallone ed in particolare (chissà poi perché) del giocatore brasiliano Arthur Antunes Coimbra in arte: ZICO che circa trent’anni prima aveva partecipato per qualche stagione, con l’Udinese, al nostro campionato di calcio più importante: quello di serie A.
Zico, figura dall’età indefinibile (gli si possono dare trent’anni come cinquanta), non lo si identifica…ma soprattutto non lo si dimentica.
Un pisellone claudicante, sordomuto, faccia ossuta e deforme, come in parte anche il corpo. Soffriva d’affanno, per via di un’ostruzione alle vie respiratorie superiori, dovuta ad adenoidi e di una gran coriza…come se ci fosse stato il bisogno!! E come se non bastasse pativa, alternandole, di altre croniche patologie: dolori articolari, spondilosi, varici alternate a crisi emorroidarie, mal di denti… ma magari nel suo stato di perenne semi-incoscienza non se ne rendeva nemmeno conto...magari.
Se non fosse stato ben curato da piccolo, di certo non gli sarebbero mancate pellagra, vaiolo e scorbuto…
Il “ragazzo” era stato trovato in fasce da una vecchia inserviente sulla porta d’entrata della comunità, a quell’epoca manicomio; quella porta che lui non ha mai varcato. Zico non è mai stato fuori di lì, non sa molto del mondo, non gli servirebbe saperlo.
Emaciato, cinereo, un po’ curvo, equilibrio precario, come fosse perennemente sbronzo.
Capelli radi, ma quelli che ha li ha a spazzola e per mantenerli lisci se l’impomata con la brillantina, pettinandoli a loro volta, più o meno, con una vaga scriminatura sulla sinistra.
Scarpe da ginnastica in tela, con immancabili buchi sfilacciati all’altezza degli alluci, che ogni tanto alterna a delle sbrindellate infradito di gomma, pantaloncini cachi forniti di un kay-way spiegazzato fuoriuscente da una tasca posteriore, tenuti in vita da una cintura sfrangiata in corda elasticizzata, una polo verde oliva alquanto frittellosa e una vecchia felpa sbiadita della sua squadra del cuore; questo è il suo inconfondibile ed unico abbigliamento per tutto l’anno: estate, inverno, freddo, caldo, pioggia e vento, esterno e interno. Zico, non aveva un bell’aspetto, ma non sembrava nemmeno un cencioso anzi, faceva pensare più ad un nobile decaduto.
Suoi compagni inseparabili: un vecchio e consunto album delle figurine dei calciatori “Panini” Campionato 83/84 e un pallone di plastica bianco e nero, dentro una sportina a rete celeste, sempre pronto all’uso. Ogni tanto se ne usciva con a tracolla una vecchia fotocamera “Voigtländer”, chissà dove e come reperita, sfoggiandola come avrebbe fatto una signora – dabbene – con una borsa griffata.
Con Andrea divide un’altra sua grande fissazione: il fumo.
Andrea, ogni volta che si trovava a passare nelle vicinanze del padiglione, o quando si recava nel parco per sedersi sulla sua panchina, veniva fiutata, riconosciuta e subito avvicinata da Zico, che senza fretta, anzi con flemma, allungava il braccio con la mano protesa e, portandosi verso la bocca indice e medio, attaccati, ingialliti, un po’ flessi e leggermente scrollati a far capire quello che gli interessava fare, lanciava i suoi insistiti segnali per le sue quotidiane pretese:
«Mmmmp! Eèh? Mmmmp! Eèèhh?»
Prima però della richiesta, egli accennava un timido saluto con la testa e questo era un segnale degno di nota, perché Zico non era affatto un tipo espansivo, al contrario, eccetto il personale addetto al padiglione e ad alcuni compagni di degenza, non era per niente socievole.
Andrea, invece, era molto cordiale con Zico e lui questo lo aveva compreso perfettamente.
Oltre alle Davidoff che in continuazione riusciva a carpirle – si può con certezza affermare che era diventata il suo “tabaccaio” preferito – , capitava di vedere Andrea seduta sulla solita panchina con accanto Zico. Capitava di vedere Andrea seduta sulla panchina con accanto Zico, e parlargli. Sì, proprio così. Andrea parlava, e lo faceva con Zico (!), come se lui potesse comprendere quello che gli diceva, quello che gli confidava. Ma lei parlava con Zico proprio perché non voleva un interlocutore.
Non le era più utile aprirsi, comunicare, dialogare, discutere. Lo aveva già fatto. Voleva soltanto avere qualcuno che, di tanto in tanto, quando sentiva il bisogno di parlare, la stesse ad ascoltare. Senza repliche, senza dare ulteriori spiegazioni o fornire altre notizie del suo vissuto, del suo passato.
Maggiori dettagli http://stores.lulu.com/enricochanada
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